Piccola morale/Parte terza/V. Bontà e gentilezza

Parte terza - V. Bontà e gentilezza.

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V.

BONTA’ E GENTILEZZA.

Se vogliamo considerare queste due parole secondo il significato che viene loro attribuito dagli scrittori, scambieremo assai facilmente l’una per l’altra. Più facilmente ancora correrebbe rischio di cadere in siffatto scambio chi badasse soltanto all’uso, o direm meglio all’abuso, che vien fatto delle parole suddette ne’ familiari discorsi. Il tale è buono, e sarà dir troppo poco; tal altro è gentile, e non era da dire che buono. Parmi di avere con ciò confessato tener io la gentilezza per cosa diversa della bontà, e per una, quasi dirò, bontà più squisita.

Senza punto curarmi delle improprietà delle applicazioni più dozzinali mi arresterò a quelle nelle quali inavvertitamente pur cadono gli uomini del più retto senno e del sentimento più fino. Quante volte non vi sarà toccato di udire chiamar buono chi altro al mondo non fece-salvo che tenersi lontano dal commettere cattiverie? Quanto a me, non conoscendo virtù inoperose, s’egli è vero che ci sia iu noi un principio attivo continuamente, di questi cotali dico più volentieri che siano dissanguati che buoni, e soscrivo con tutto l’animo alla opinione di chi li chiama col nome di tiepidi, e li bandisce da ogni [p. 162 modifica]grado di beatitudine. La bontà di questi cotali mi è molto simile alla onestà di quegli altri pei quali tanto vale essere onesto quanto non potere essere citato ai tribunali. Oh! dovrebbero pur ricordarsi come la saggia e prudente antichità volesse che a certe colpe non fosse assegnato verun gastigo, ed erano le più gravi; dichiarando con ciò non doversi credere possibili quelle colpe, o non avervi misura d’umani gastighi proporzionati a tanta dismisura d’umana malvagità.

Il vocabolo gentile viene anch’esso attribuito con poca ragionevolezza a certuni, de’ quali potrebbe dirsi che tutta la gentilezza si limiti alla cura delle vesti, e allo studio de’ passi e delle movenze. Se la gentilezza in ciò avesse a consistere, che altro significherebbe gentiluomo fuorchè ben vestito? Se non che mi potrà esser risposto, che anche il vocabolo galantuomo è usurpato a significare ben altro che uomo fornito di semplice galanteria. Mettiamo dunque da banda l’etimologie, e venghiamo alla sostanza racchiusa nelle parole.

Parmi che per bontà fosse da intendere l’abito di operare il bene, e per gentilezza l’abito di operarlo nel modo migliore. Sicchè, ove alla prima convenga il titolo di virtù, questa seconda si avesse a considerare non più che complemento di quella. La bontà insomma esser persona, non più che vesta la gentilezza; e quindi [p. 163 modifica]poter quella starne da sè; e questa, senza più, abbisognare la compagnia della prima. In questa distinzione mi accorgo di avere a contradditori moltissimi, i quali stimano che possa avervi gentilezza anche dove non sia bontà. Ma quando volessero considerare che ogni ornamento aggiunto ad oggetto deforme, anzichè rabbellirlo, lui più sempre abbruttisce, non tarderebbero, credo, a concorrere nel mio parere. Potrebbe derivare questo errore da ciò, che gli uomini in generale più agognano a comparire gentili che buoni? E siccome egli è più facile vestire le fogge esteriori, che inviscerarsi le intime affezioni, così studiansi a tutto potere di mettere in pregio quelle abitudini che stimano sia loro concesso di acquistare più agevolmente, e mirano a liberarle dalla incomoda compagnia di quelle altre che troppo bene si accorgono non potersi senza molta fatica ottenere.

Che che ne sia, o ne possa parere di ciò, egli è certo avervi taluni, i quali posseggono una cotal loro bontà a cui ci accorgiamo tutti mancar qualche cosa; e avervi altri i difetti dei quali ci riescono più ributtanti per una cotal squisitezza nel male in cui sono eccedenti. Quei primi direi che scagliassero i loro doni colla balestra; i secondi che fregassero il loro prossimo a farvi entrare insensibilmente e per tutti i pori il loro pestifero unguento.

E ancora da osservare che, quantunque la bon[p. 164 modifica]tà possa starsene, come s’è detto, da se sola, il corredo della gentilezza le torna assai vantaggioso, per la subitezza onde viene a mostrarsi, e quasi dirò ad allettare all’esame di ciò che vi ha sotto a quella bella scorza o vernice. Un gran declamare si fa tutto giorno contro l’ingratitudine e con ragione; ma egli si vorrebbe dire alcuna cosa della ruvidezza onde molti compartono i beneficii. I maligni, che vorrebbero ficcar il naso da per tutto, son molti; ma ei buoni, che sembrano destinati a schiacciare il mondo col peso delle loro inflessibili e compatte virtù, sono pochi?

Sarebbe per ultimo da esaminare se la bontà e la gentilezza si abbiano a considerare quali naturali disposizioni dell’animo; e quanto possano essere migliorate dalla educazione e dall’esempio. Ambedue possono dirsi intrinsecate nella natura dell’uomo, sebbene possa sembrare che, più ancora della gentilezza, è da credere ragionevole questa opinione trattandosi della bontà. Certamente è forza confessare che la gentilezza, più ancora della bontà, si perfeziona dall’educazione e dall’esercizio, di che si ha la ragione in questo principalmente, che i principij nei quali come su propria base si fonda la bontà, sono più incommutabili ed universali che non quelli ai quali si appoggia la gentilezza. Il codice della bontà, ad essere compiuto, domanda un numero di leggi molto minore di quello si richiede a far [p. 165 modifica]compiuto il codice della gentilezza. I tempi, i luoghi, le condizioni, i costumi diversi, assai poco contribuiscono a disferenziare le regole secondo le quali un’azione può essere chiamata buona o altrimenti, laddove questi stessi accidenti grandemente influiscono a rendere tale o tal altra azione gentile, e cosi del contrario.

Potrà sembrare a taluno, se già non sembra a moltissimi, che questo mio discorso della bontà e della gentilezza non sia tanto ingiusto quanto sia vano, perchè le cose da me dette non vi sia chi le ignori, e se vi ha cui siano ignorate, quando ancora ne rimanesse per le mie parole instruito, l’istruzione non esser bastante a cagionare la pratica, che di tali fatti è la parte più rilevante Questo pensiero mi fa recidere senza più quelle alcune osservazioni che avrei potuto soggiungere di vantaggio, tanto più che le principali mi sembra di già averle scritte. Non voglio tormi per altro al colloquio de’ miei lettori, che prima non abbia dato loro avviso di una bontà molto nuova e bizzarra, se già non si deve chiamarla singolarissima ipocrisia.

V’hanno di quelli, ai quali mancando l’animo e il modo di profittare i loro fratelli, ne vogliono avere ad ogni costo la fama. Sollecitati da questa ambiziosa cupidità, non è da dire quali basse arti essi adoprino a ben riuscire nel loro intento. Crocifiggere il loro protetto per farlo risuscitare è quel di meno che tentino nella [p. 166 modifica]smaniosa loro ambizione. Che razza di gentilezza o di bontà possa avervi in costoro, lascio giudicare a chi ha un po’ d’intelletto, quando anche sia affatto mancante del cuore. Ed ho conosciuti ancora taluni i quali dei benefizij che fatti non hanno s’ingoiarono tranquillissimi, se già non carpirono a viva forza, le lodi. La gentilezza in questo caso stava tutta, mi penso, dal lato di chi lasciava correre quella ingiusta opinione, e tollerava di apparire beneficato quando non più riceveva che la pattuita mercede. Questa sarebbe forse chiamata da più d’uno debolezza, stnpidità, o peggio ancora, e non mai gentilezza; veramente ci ho un gran scrupolo anch’io ad accordarle un nome sì bello.

Conchiudasi: io venererò sempre chi è buono, ma sento che non saprei essere amico di chi non fosse pure gentile. E che cosa io m’intenda per amico forse che sia l’argomento di un altro mio discorsetto, quando un tema migliore di questo non mi sappia venire alle mani.