Piccola morale/Parte quarta/VIII. L'aspreggia altrui
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VIII.
L’ASPREGGIA ALTRUI.
Tutte le passioni, quando dirette e regolate non vengono secondo ragione, sono paragonabili al toro di Perillo; il quale, come scrive il poeta, fece muggire per primo colui
Che l’avea temperato con sua lima.
La ricerca del piacere, ch’è pure si naturale ad ogni uomo, quando non si proponga una meta ragionevole, e per arrivarla non adoperi ragionevoli mezzi, sommerge la nostra vita in un pelago d’amarezze. In due guise per altro affatto opposte tuttochè concorrenti nel medesimo fine, può l’uomo movere in traccia di ciò ch’è valevole a dilettarlo; delle quali una diremo diretta, indiretta l’altra, o, se meglio piace, in una egli è attivo, nell’altra passivo.
In generale non credo che si diano piaceri indivisi, ove non vogliasi uscire della sfera delle relazioni socievoli, e sollevare la mente alla contemplazione d’oggetti superiori per dignità a quanto può offrire la sensibile prospettiva del mondo. Non credo ripeto, clre, tolto questo caso, possano darsi piaceri indivisi, altrimenti sarebbe forza conchiudere non essere contro giustizia quanto scrissero alcuni filosofi di misantropo umore, rilegando l’uomo tra le selve a cercarvi quella felicità, cui dar non possono, a parer loro, i civili congregamenti.
E tuttavia vi hanno quelli i quali per certo modo si rallegrano o si addolorano di ciò che cagionano a sè medesimi, e altri ai quali è bisogno per rallegrarsi o addolorarsi influire sui loro simili. E di questi ultimi la schiera è divisa, infra di quelli che godono dell’altrui piacere, e di quelli che per lo contrario s’impinguano dell’altrui dolore. Genti di si misera ed abbietta natura appena è credibile che si trovino: nè già vorrei ricordare a me stesso che pur ci avessero, imitando in questo il provvido accorgimento di quegli antichi, i quali, anzi che assegnare nessun gastigo al parricidio, lasciarono che si riputasse delitto impossibile ad esser commesso; se non fosse che dopo l’esame di questa tormentosissima inclinazione si giungono a dicifrare gli enigmi di molte per altra parte inintelligibili azioni, e nella grande misura dell’odio onde sono meritamente multati questi infelici, può essere infusa qualche stilla di compassione non affatto irragionevole.
Primieramente siccome veggiamo nel mondo fisico operarsi per forze opposte l’armonia che lo conserva e lo move, così nel morale egli sembra che a certe disposizioni d’animo e d’intelletto di alcuni nomini siano date, quasi campo ove possano svilupparsi, certe altre disposizioni d’animo e d’intelletto d’altri uomini del tutto contrarie alle prime. La sapienza ha per soggetto l’ignoranza, la gagliardia la fiacchezza, e così del resto. E venendo più propriamente al nostro tema, a quegli esseri che nati sono per essere aspreggiatori son dati a soggetto quegli altri che nati sono per essere aspreggiati.
Non crediate che ci sia ragione alcuna in quello che vedete operarsi da Maurizio e da Petronilla, fuor questa che abbiamo accennato. Le altre ragioni non sono che secondarie ed accidentali, la primaria e costante dovete cercarla nell’indole loro sciaguratamente ferina. Ciò posto vi verranno pianissime le spiegazioni di tutte le loro brutali e stranissime odiosità; nelle quali è zi che assegnare nessun gastigo al parricidio, lasciarono che si riputasse delitto impossibile ad esser commesso; se non fosse che dopo l’esame di questa tormentosissima inclinazione si giungono a dicifrare gli enigmi di molte per altra parte inintelligibili azioni, e nella grande misura dell’odio onde sono meritamente multati questi infelici, può essere infusa qualche stilla di compassione non affatto irragionevole.
Primieramente siccome veggiamo nel mondo fisico operarsi per forze opposte l’armonia che lo conserva e lo move, così nel morale egli sembra che a certe disposizioni d’animo e d’intelletto di alcuni nomini siano date, quasi campo ove possano svilupparsi, certe altre disposizioni d’animo e d’intelletto d’altri uomini del tutto contrarie alle prime. La sapienza ha per soggetto l’ignoranza, la gagliardia la fiacchezza, e così del resto. E venendo più propriamente al nostro tema, a quegli esseri che nati sono per essere aspreggiatori son dati a soggetto quegli altri che nati sono per essere aspreggiati.
Non crediate che ci sia ragione alcuna in quello che vedete operarsi da Maurizio e da Petronilla, fuor questa che abbiamo accennato. Le altre ragioni non sono che secondarie ed accidentali, la primaria e costante dovete cercarla nell’indole loro sciaguratamente ferina. Ciò posto vi verranno pianissime le spiegazioni di tutte le loro brutali e stranissime odiosità; nelle quali è dimento, cui ci sentiamo portati violentemente a cercare e ad amare pel guadagno di piacere che ce ne deriva. Per tal modo rimane diciferato come si possa amare e tormentare la stessa persona. Ben è vero che qui il vocabolo amare si prende nella significazione più universale, e che meglio direbbesi animalesca.
Oltre a quanto s’è detto finora, la disposizione ad aspreggiare il nostro prossimo è suscettibile d’infinite gradazioni e diramazioni. Altri si contenta di non più che sfregiare la pelle col caustico de’ sarcasmi; altri invece non domanda meno dell’ultima convulsione, e finchè non sia giunto a quel termine disperato non sa restare dal suo atroce lavoro. Fulgenzio, che appena sa di un sinistro accaduto a Tiberio si dà faccenda per ritrovarlo e fargliene la relazione, e quando ancora fosse per tempo non bada a destarlo, tiene il mezzo di due estremi. Non saprebbe inventare una trista novella, ma non c’è pericolo che la indugi di un’ora a chi deve restarne trafitto.
Molti altri vizii s’innestano alla sciagurata inclinazione di cui parliamo, i quali agli occhi de’ meno veggenti si pongono in luogo di essa. E per superbia, per avarizia, per invidia, o per simile altra passione, che si dice assai spesso, Caio esser vessato da Tizio; no, signori miei, la superbia, l’avarizia, l’invidia, o qualsivoglia altra passione, non sono che innesti rampollati sul principal tronco, ma il tronco principale è il bisogno di tormentare il suo prossimo. Togliete di mezzo le occasioni onde que’ tristi affetti possono essere alimentati, e vedrete non per tanto durare la persecuzione e il tormento.
Ho pensato assai volte in quale dei due sessi s’incontrino più abbondantemente individui crucciati da questa misera necessità, e, in luogo di trovare documenti bastanti a pronunziare un giudizio, mi venne fatta un’osservazione che non tralascerò di riferire. In generale le donne sono per certa guisa scusabili se più facilmente appariscano degne del nome di aspreggia altrui. E quasi una rappresaglia che esercitano sopra chi ha saputo occupare quella parte ancora di dominio che loro apparteneva. Del resto, come in ogni altro genere di rappresaglia, anche in questo la misura del risarcimento è quasi sempre ineguale all’offesa, e quando l’uomo aspreggiando la donna è ad essa funesto entro certi confini, la donna aspreggiando l’uomo lo rende ben dieci tanti infelice.
Guai sopra tutto quando la vespa, uomo o donna che sia, destinata a ronzare ed a pungere tutta la vita, può colorire il malvagio suo naturale con alcune pompose parole di virtù e di diritto! A quella guisa che un esercito protetto da un’altura, o da buone trincec, scarica le sue artiglierie sopra il nemico che se gli mostra schierato in rasa campagua, l’aspreggia altrui non concede riposo di sorta alla sua vittima, se non se la vede boccheggiare davanti. Questa orribile occupazione di crucciare il suo prossimo se la reca a dovere; e tutti sanno con quanta feroce alacrità si adempiano dagli uomini i presunti doveri! Quante volte l’intellettuale pervertimento non giunge a tal segno da credere che lo zelo immoderato posto nell’adempire un dovere immaginario ne sia scusa alla freddezza e alla negligenza nella pratica dei doveri veraci!
È ancora da notare che la virtù dell’anime generose destinate a saziare colla propria rasse. gnazione il crudele appetito de’ loro crudeli avversarii, anzi che attutare quel crudele appetito, genera la fallace opinione che sia fatto secondo giustizia ciò che non trova ostacoli o disapprovazione. Chi è misero, scriveva la più gran donna vissuta a memoria d’uomo, assai agevolmente stima se stesso colpevole; e potrebbe sog giugnersi: la prosperità addormenta la ragione, e le cose che ci vanno prospere assai raramente sono da noi stimate ingiuste e contrarie al buon senno.
Che dunque fare? Consigliare d’usar l’unghie e le zanne a chi è nato agnello o colomba? Ovveramente sperare che possa mettere nelle carezze la propria felicità chi ha l’istinto del sangue e delle ferite? Nulla per verità di tutto questo. Ma contentarci di non indagare il motivo d’assai stravaganze, che ci tocca soffrire, altrove che in questo bisogno d’aspreggiare il prossimo innestato in certi naturali molto infelici; e riporre nel tempo stesso un nobile orgoglio nel trovarci destinati a recitare in questa mutabile scena del mondo la parte di vittima anzichè quella di sagrificatore. Al turpe istinto, di cui abbiamo parlato, si oppone l’altro bello ed umanissimo istinto di contendere per l’altrui felicità, a costo ancora del nostro dolore. Oh la giusta cagione di rallegrarci con noi medesimi, quando ne avvenga conoscere di trovarci aggregati a quest’ultima schiera!