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— Lo volete? – ribattè sollevando il capo dalla spalliera della poltrona.

Egli tornò a sorridere.

Allora la duchessa si alzò lentamente, andò alla finestra, dinanzi alla quale, fra le tende penzolava una magnifica gabbia dorata; ne aperse lo sportello e ne trasse colla mano il canarino. Il grazioso animaletto mise due o tre stridi lasciandosi prendere dalla padrona.

— Alì — ella si volse chiamando il magnifico gatto d’Angora, che sonnecchiava sopra uno sgabello.

La duchessa aveva appena avuto il tempo di sedersi che Alì le era saltato sulle ginocchia e, percotendogliele con la coda, le si strofinava con le orecchie nel seno. Poi si accovacciò nel suo grembo guardando tranquillamente il canarino.

La duchessa gli passò una mano sul capo e appressandogli sicuramente l’altra alla bocca gli presentò l’uccellino per le zampe. Il canarino gettò un grido.

Alì lo teneva già addentato sino al dosso.

— Che cosa fate? – esclamò balzando in piedi l’illustre critico, che aveva atteso a tutta quella manovra senza capirla.

— Vi confuto — rispose mostrandogli freddamente il gatto, che sgretolava con pigra ghiottoneria quel corpicino ancora vivo.

Entrambi erano diventati pallidi. La duchessa scacciò Alì con un gesto, si alzò e tendendogli la mano ripetè con indefinibile sorriso:

— Adesso ditemi ancora che nella vita il piacere di mangiare vale il dolore di essere mangiato.