Orlando innamorato/Libro primo/Canto decimottavo

Libro primo

Canto decimottavo

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1   Nel canto qua di sopra aveti odito
     Quando Marfisa, quella dama acerba,
     Tre cavallier in su il prato fiorito
     Avea sfidati con voce superba.
     Prasildo era omo presto e molto ardito,
     Subitamente se mise per l’erba:
     Benché Ranaldo fosse il più onorato,
     Lui prima mosse, senza altro combiato.

2   Quello scontrar che fie’ con la donzella
     Roppe sua lancia, e lei già non ha mossa;
     Ma lui de netto uscì fuor della sella,
     E cadde al prato con grave percossa.
     Alor parlava quella dama bella:
     - Su, presto, a li altri! che partir me possa.
     Vedete qua il messaggio che me affretta,
     Ché il re Agricane a battaglia me aspetta. -

3   Iroldo, come vide il compagnone
     Al crudo scontro in su la terra andare,
     E tra li armati menarlo pregione,
     Corse alla giostra senza dimorare;
     E così cadde anco esso dello arcione.
     Ora nel terzo più serà che fare;
     Se vi piace, segnor, state ad odire
     La fiera mossa e l’aspero colpire.

4   Una grossa asta portava Marfisa
     De osso e de nerbo, troppo smisurata;
     Nel scudo azuro aveva per divisa
     Una corona in tre parte spezzata;
     La cotta d’arme pure a quella guisa,
     E la coperta tutta lavorata;
     E per cimer ne l’elmo, al sommo loco,
     Un drago verde, che gettava foco.

5   Era il foco ordinato in tal maniera
     Che ardeva con romore e con gran vento;
     Quando essa entrava alla battaglia fiera,
     Più gran furor menava e più spavento;
     Ogni malia che ha in dosso e ogni lamiera
     Tutti eran fatti per incantamento;
     Da capo a piedi per questa armatura
     Era diffesa la dama e sicura.

6   Fu il suo ronzone il più dismisurato
     Che giamai producesse la natura:
     Era tutto rosigno e saginato,
     Con testa e coda ed ogni gamba scura;
     Benché non fosse per arte affatato,
     Fu di gran possa e fiero oltra a misura.
     Sopra di questo la forte regina
     Con impeto se mosse e gran roina.

7   Da l’altra parte il franco fio de Amone
     Con una lancia a meraviglia grossa
     Vien furïoso, quel cor di leone,
     E proprio nella vista l’ha percossa;
     Ma, come avesse gionto a un torrïone,
     Non ha piegata Marfisa, né mossa.
     A tronchi ne andò l’asta con romore,
     Né restò pezzo de un palmo maggiore.

8   Gionse Ranaldo la dama diversa
     In fronte a l’elmo, con molta tempesta;
     Sopra alle groppe adietro lo riversa,
     Tutta ne l’elmo gli intona la testa.
     Ora ha Marfisa pur sua lancia persa,
     Perché se fraccassò sino alla resta;
     In cento e sei battaglie era lei stata
     Con quella lancia, e sempre era durata.

9   Ora se roppe al scontro furïoso:
     Ben se ne meraviglia la donzella,
     Ma più la ponge il crucio disdegnoso,
     Perché Ranaldo ancora è in su la sella.
     Chiama iniquo Macone e doloroso,
     Cornuto e becco Trivigante appella:
     - Ribaldi, - a lor dicea - per qual cagione
     Tenete il cavalliero in su lo arcione?

10 Venga un di voi, e lasciasi vedere,
     E pigli a suo piacer questa diffesa,
     Ch’io farò sua persona rimanere
     Qua giù riversa e nel prato distesa.
     Voi non voliti mia forza temere,
     Perché là su non posso esser ascesa;
     Ma, se io prendo il camino, io ve ne aviso,
     Tutti vi occido, ed ardo il paradiso. -

11 Mentre che la orgogliosa sì minaccia,
     E vuol disfare il celo e il suo Macone,
     Ranaldo ad essa rivolta la faccia,
     Che era stato buon pezzo in stordigione,
     E de gire a trovarla se procaccia;
     Ma lei, che non stimava quel barone,
     Quando contra di sé tornare il vide,
     Altieramente disdignando ride.

12 - Ora ché non fuggivi, sciagurato,
     Mentre che ad altro il mio pensiero attese?
     Forse hai diletto indi esser pigliato,
     Perché altrimente non trovi le spese?
     Ma, per mia fede! sei male incapato,
     Ed al presente te dico palese,
     Come io te avrò tutt’arme dispogliate,
     Via cacciarotte a suon di bastonate. -

13 Cotal parole usava quella altera;
     Il pro’ Ranaldo risponde nïente.
     Esso zanzar non vôl con quella fera,
     Ma fa risposta col brando tagliente;
     E, come fu con seco alla frontera,
     Non pose indugia al suo ferir nïente,
     Ma sopra a l’elmo de Fusberta mena:
     Marfisa non sentì quel colpo apena.

14 Lei per quel colpo nïente se muta,
     Ma un tal ne dette al cavalliero ardito,
     Che batter li fie’ il mento alla barbuta:
     Calla nel scudo, e tutto l’ha partito.
     Maglia, né piastra, né sbergo lo aiuta,
     Ma crudelmente al fianco lo ha ferito.
     Quando Ranaldo sente il sangue ch’esce,
     L’ira, l’orgoglio e l’animo gli cresce.

15 Mai non fo gionto a così fatto caso,
     Come or se trova, il sir de Montealbano.
     Getta via il scudo che li era rimaso,
     E furïoso mena ad ambe mano:
     Benché il partito vide aspro e malvaso,
     Non ha paura quel baron soprano;
     Ma con tal furia un colpo a due man serra,
     Che tutto il scudo li gettò per terra,

16 E sopra al braccio manco la percosse,
     Sì che li fece abandonar la briglia.
     Molto de ciò la dama se commosse,
     E prese del gran colpo meraviglia;
     Sopra alle staffe presto redricciosse
     Tutta nel viso per furor vermiglia,
     Ed un gran colpo a quel tempo menava,
     Quando Ranaldo l’altro radoppiava.

17 Perché ancora esso già non stava a bada,
     Anci li rispondeva di bon gioco;
     Ora se incontra l’una a l’altra spada,
     E quelle, gionte, se avamparno a foco.
     Tagliente è ben ciascuna, e par che rada,
     Ma fie’ l’ultima prova questo loco;
     Fusberta come un legno l’altra afferra,
     Più de un gran palmo ne gettò per terra.

18 Quando Marfisa vide che troncata
     Era la ponta di sua spada fina,
     Che prima fu da lei tanto stimata,
     Rimena colpi de molta ruina
     Sopra Ranaldo, come disperata;
     Ma lui, che del scrimire ha la dottrina,
     Con l’occhio aperto al suo ferire attende,
     E ben se guarda e da lei se diffende.

19 Menò Marfisa un colpo con tempesta,
     Credendo averlo còlto alla scoperta;
     Se lo giongeva la botta rubesta,
     Era sua vita nel tutto deserta.
     Lui, che ha la vista a meraviglia presta,
     Da basso se ricolse con Fusberta,
     E gionse il colpo nella destra mano,
     Sì che cader li fece il brando al piano.

20 Quando essa vide la sua spada in terra,
     Non fu ruina al mondo mai cotale;
     Il suo destrier con ambi sproni afferra,
     Urta Ranaldo a furia di cingiale,
     E col viso avampato un pugno serra:
     Dal lato manco il gionse nel guanziale,
     E lo percosse con tanta possanza,
     Che assai minor fu il scontro de la lanza.

21 Io di tal botta assai me maraviglio,
     Ma come io dico, lo scrive Turpino;
     Fuor delle orecchie uscia il sangue vermiglio,
     Per naso e bocca a quel baron tapino.
     Campar lo fece dal mortal periglio
     Lo elmo afatato che fo de Mambrino;
     Ché se un altro elmo in testa se trovava,
     Longe dal busto il capo li gettava.

22 Perse ogni sentimento il cavalliero,
     Benché restasse fermo in su la sella.
     Or lo portò correndo il suo destriero,
     Né mai gionger lo puote la donzella,
     Ché quel ne andava via tanto legiero,
     Che per li fiori e per l’erba novella
     Nulla ne rompe il delicato pede;
     Non che si senta, ma apena si vede.

23 Marfisa de stupore alciò le ciglia,
     Quando vide il destrier sì presto gire;
     Ritorna adrieto e il suo brando repiglia,
     E poi di novo se il pose a seguire;
     Ma già longe è Ranaldo a meraviglia,
     E come prima venne a resentire,
     Verso Marfisa volta con gran fretta,
     Voluntaroso a far la sua vendetta.

24 E’ se sentia di sangue pien la faccia,
     Ed a se stesso se lo improperava,
     Dicendo: "Ove vorrai che mai se saccia
     La tua codarda prova, anima prava?
     Ecco una feminella che te caccia!
     Or che direbbe il gran conte di Brava,
     Se me vedesse qua nel campo stare
     Contro una dama e non poter durare?"

25 Così dicendo il principe animoso
     Stringe Fusberta, il suo tagliente brando,
     E vien contra a Marfisa forïoso.
     Ora voglio tornar al conte Orlando,
     Qual, come io dissi, sì come amoroso
     De Angelica, se mosse al suo comando
     Per dare al prodo Galafrone aiuto,
     Che alla battaglia avea il campo perduto.

26 Chi lo vedesse entrare alla baruffa,
     Ben lo iudicarebbe quel che egli era;
     Lui questo abatte e quell’altro ribuffa,
     Atterra ogni pennone, ogni bandiera.
     Or se incomincia la terribil zuffa;
     Fuggia degl’Indïan rotta la schiera,
     E va per la campagna in abandono:
     Sempre alle spalle i Tartari li sono.

27 Rotta e sconfitta la brutta canaglia
     A tutta briglia fuggendo ne andava;
     E Galafrone per quella prataglia
     Via più che li altri e sproni adoperava.
     Ora cangiosse tutta la battaglia,
     E fugge ciascadun che mo cacciava,
     Ché Orlando è gionto, e seco in compagnia
     Il re Adrïano, fior de vigoria,

28 E Brandimarte e il forte Chiarïone,
     Ciascun di guerra più voluntaroso,
     E seco in frotta Oberto da il Leone.
     Ferno assalto crudel e furïoso,
     E de’ nemici tanta occisïone,
     Che tornò il verde prato sanguinoso:
     Già prima Poliferno e poscia Uldano
     Da Brandimarte fur gettati al piano.

29 Orlando ed Agricane un’altra fiata
     Ripreso insiem avean crudel battaglia;
     La più terribil mai non fo mirata:
     L’arme l’un l’altro a pezo a pezo taglia.
     Vede Agrican sua gente sbaratata,
     Né li pô dare aiuto che li vaglia,
     Però che Orlando tanto stretto il tene,
     Che star con seco a fronte li conviene.

30 Nel suo secreto fie’ questo pensiero:
     Trar fuor di schiera quel conte gagliardo,
     E poi che occiso l’abbia in su il sentiero
     Tornar alla battaglia senza tardo;
     Però che a lui par facile e legiero
     Cacciar soletto quel popol codardo;
     Ché tutti insieme, e il suo re Galafrone,
     Non li stimava quanto un vil bottone.

31 Con tal proposto se pone a fuggire,
     Forte correndo sopra alla pianura;
     Il conte nulla pensa a quel fallire,
     Anci crede che il faccia per paura;
     Senza altro dubbio se il pone a seguire.
     E già son gionti ad una selva oscura;
     Aponto in mezo a quella selva piana
     Era un bel prato intorno a una fontana.

32 Fermosse ivi Agricane a quella fonte,
     E smontò dello arcion per riposare,
     Ma non se tolse l’elmo della fronte,
     Né piastra o scudo se volse levare;
     E poco dimorò che gionse il conte,
     E come il vide alla fonte aspettare,
     Dissegli: - Cavallier, tu sei fuggito,
     E sì forte mostravi e tanto ardito!

33 Come tanta vergogna pôi soffrire
     A dar le spalle ad un sol cavalliero?
     Forse credesti la morte fuggire:
     Or vedi che fallito hai il pensiero.
     Chi morir può onorato, die’ morire;
     Ché spesse volte aviene e de legiero
     Che, per durare in questa vita trista,
     Morte e vergogna ad un tratto s’acquista. -

34 Agrican prima rimontò in arcione,
     Poi con voce suave rispondia:
     - Tu sei per certo il più franco barone
     Ch’io mai trovassi nella vita mia;
     E però del tuo scampo fia cagione
     La tua prodezza e quella cortesia
     Che oggi sì grande al campo usato m’hai,
     Quando soccorso a mia gente donai.

35 Però te voglio la vita lasciare,
     Ma non tornasti più per darmi inciampo!
     Questo la fuga mi fe’ simulare,
     Né vi ebbi altro partito a darti scampo.
     Se pur te piace meco battagliare,
     Morto ne rimarrai su questo campo;
     Ma siami testimonio il celo e il sole
     Che darti morte me dispiace e duole. -

36 Il conte li rispose molto umano,
     Perché avea preso già de lui pietate:
     - Quanto sei - disse - più franco e soprano,
     Più di te me rincresce in veritate,
     Che serai morto, e non sei cristïano,
     Ed andarai tra l’anime dannate;
     Ma se vôi il corpo e l’anima salvare,
     Piglia battesmo, e lasciarotte andare. -

37 Disse Agricane, e riguardollo in viso:
     - Se tu sei cristïano, Orlando sei.
     Chi me facesse re del paradiso,
     Con tal ventura non lo cangiarei;
     Ma sino or te ricordo e dòtti aviso
     Che non me parli de’ fatti de’ Dei,
     Perché potresti predicare in vano:
     Diffenda il suo ciascun col brando in mano. -

38 Né più parole: ma trasse Tranchera,
     E verso Orlando con ardir se affronta.
     Or se comincia la battaglia fiera,
     Con aspri colpi di taglio e di ponta;
     Ciascuno è di prodezza una lumera,
     E sterno insieme, come il libro conta,
     Da mezo giorno insino a notte scura,
     Sempre più franchi alla battaglia dura.

39 Ma poi che il sole avea passato il monte,
     E cominciosse a fare il cel stellato,
     Prima verso il re parlava il conte:
     - Che farem, - disse - che il giorno ne è andato? -
     Disse Agricane con parole pronte:
     - Ambo se poseremo in questo prato;
     E domatina, come il giorno pare,
     Ritornaremo insieme a battagliare. -

40 Così de acordo il partito se prese.
     Lega il destrier ciascun come li piace,
     Poi sopra a l’erba verde se distese;
     Come fosse tra loro antica pace,
     L’uno a l’altro vicino era e palese.
     Orlando presso al fonte isteso giace,
     Ed Agricane al bosco più vicino
     Stassi colcato, a l’ombra de un gran pino.

41 E ragionando insieme tuttavia
     Di cose degne e condecente a loro,
     Guardava il conte il celo e poi dicia:
     - Questo che or vediamo, è un bel lavoro,
     Che fece la divina monarchia;
     E la luna de argento, e stelle d’oro,
     E la luce del giorno, e il sol lucente,
     Dio tutto ha fatto per la umana gente. -

42 Disse Agricane: - Io comprendo per certo
     Che tu vôi de la fede ragionare;
     Io de nulla scïenzia sono esperto,
     Né mai, sendo fanciul, volsi imparare,
     E roppi il capo al mastro mio per merto;
     Poi non si puotè un altro ritrovare
     Che mi mostrasse libro né scrittura,
     Tanto ciascun avea di me paura.

43 E così spesi la mia fanciulezza
     In caccie, in giochi de arme e in cavalcare;
     Né mi par che convenga a gentilezza
     Star tutto il giorno ne’ libri a pensare;
     Ma la forza del corpo e la destrezza
     Conviense al cavalliero esercitare.
     Dottrina al prete ed al dottore sta bene:
     Io tanto saccio quanto mi conviene. -

44 Rispose Orlando: - Io tiro teco a un segno,
     Che l’arme son de l’omo il primo onore;
     Ma non già che il saper faccia men degno,
     Anci lo adorna come un prato il fiore;
     Ed è simile a un bove, a un sasso, a un legno,
     Chi non pensa allo eterno Creatore;
     Né ben se può pensar senza dottrina
     La summa maiestate alta e divina. -

45 Disse Agricane: - Egli è gran scortesia
     A voler contrastar con avantaggio.
     Io te ho scoperto la natura mia,
     E te cognosco che sei dotto e saggio.
     Se più parlassi, io non risponderia;
     Piacendoti dormir, dòrmite ad aggio,
     E se meco parlare hai pur diletto,
     De arme, o de amore a ragionar t’aspetto.

46 Ora te prego che a quel ch’io dimando
     Rispondi il vero, a fè de omo pregiato:
     Se tu sei veramente quello Orlando
     Che vien tanto nel mondo nominato;
     E perché qua sei gionto, e come, e quando,
     E se mai fosti ancora inamorato;
     Perché ogni cavallier che è senza amore,
     Se in vista è vivo, vivo è senza core. -

47 Rispose il conte: - Quello Orlando sono
     Che occise Almonte e il suo fratel Troiano;
     Amor m’ha posto tutto in abandono,
     E venir fammi in questo loco strano.
     E perché teco più largo ragiono,
     Voglio che sappi che ’l mio core è in mano
     De la figliola del re Galafrone
     Che ad Albraca dimora nel girone.

48 Tu fai col patre guerra a gran furore
     Per prender suo paese e sua castella,
     Ed io qua son condotto per amore
     E per piacere a quella damisella.
     Molte fiate son stato per onore
     E per la fede mia sopra alla sella;
     Or sol per acquistar la bella dama
     Faccio battaglia, ed altro non ho brama. -

49 Quando Agricane ha nel parlare accolto
     Che questo è Orlando, ed Angelica amava,
     Fuor di misura se turbò nel volto,
     Ma per la notte non lo dimostrava;
     Piangeva sospirando come un stolto,
     L’anima, il petto e il spirto li avampava;
     E tanta zelosia gli batte il core,
     Che non è vivo, e di doglia non muore.

50 Poi disse a Orlando: - Tu debbi pensare
     Che, come il giorno serà dimostrato,
     Debbiamo insieme la battaglia fare,
     E l’uno o l’altro rimarrà sul prato.
     Or de una cosa te voglio pregare,
     Che, prima che veniamo a cotal piato,
     Quella donzella che il tuo cor disia,
     Tu la abandoni, e lascila per mia.

51 Io non puotria patire, essendo vivo,
     Che altri con meco amasse il viso adorno;
     O l’uno o l’altro al tutto serà privo
     Del spirto e della dama al novo giorno.
     Altri mai non saprà, che questo rivo
     E questo bosco che è quivi d’intorno,
     Che l’abbi riffiutata in cotal loco
     E in cotal tempo, che serà sì poco. -

52 Diceva Orlando al re: - Le mie promesse
     Tutte ho servate, quante mai ne fei;
     Ma se quel che or me chiedi io promettesse,
     E se io il giurassi, io non lo attenderei;
     Così potria spiccar mie membra istesse,
     E levarmi di fronte gli occhi miei,
     E viver senza spirto e senza core,
     Come lasciar de Angelica lo amore. -

53 Il re Agrican, che ardea oltra misura,
     Non puote tal risposta comportare;
     Benché sia al mezo della notte scura,
     Prese Baiardo, e su vi ebbe a montare;
     Ed orgoglioso, con vista sicura,
     Iscrida al conte ed ebbelo a sfidare,
     Dicendo: - Cavallier, la dama gaglia
     Lasciar convienti, o far meco battaglia. -

54 Era già il conte in su l’arcion salito,
     Perché, come se mosse il re possente,
     Temendo dal pagano esser tradito,
     Saltò sopra al destrier subitamente;
     Unde rispose con l’animo ardito:
     - Lasciar colei non posso per nïente,
     E, se io potessi ancora, io non vorria;
     Avertila convien per altra via. -

55 Sì come il mar tempesta a gran fortuna,
     Cominciarno lo assalto i cavallieri;
     Nel verde prato, per la notte bruna,
     Con sproni urtarno adosso e buon destrieri;
     E se scorgiano a lume della luna
     Dandosi colpi dispietati e fieri,
     Ch’era ciascun di lor forte ed ardito.
     Ma più non dico: il canto è qui finito.