Opere minori (Ariosto)/Erbolato
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto quinto | Lettere | ► |
ERBOLATO.
Dodici anni dopo la morte di messer Lodovico venne a luce questa prosa, molto elaborata e certo elegante, per opera di un Jacopo Modanese, il quale con ciò non mirava per avventura fuorchè a gratificarsi la gentildonna veneziana a cui dedicavane la stampa. Ignorasi se dall’autore o da quel primo editore abbia da riconoscersi il titolo, capriccioso ed ambiguo, di Erbolato; ma più al secondo che al primo deve probabilmente attribuirsi la dichiarazione aggiuntavi: «che parla della nobiltà dell’uomo, e dell’arte della medicina.» Da quel titolo, non bene appropriato, perchè significante una tórta od anche un empiastro; e da quella men retta qualificazione, procedè il falso concetto formatosi in alcuni, e l’erroneo ragguaglio datone dagli storici della letteratura: tanto che lo stesso Tiraboschi additavalo siccome «un dialogo in prosa italiana;» errore che videsi rinnovato ai dì nostri da Pompeo Litta. Ed a me pure è avvenuto di sentir chiedere da persone che il Furioso, le Satire, con gli altri versi, avevano familiarissimi: — Di che tratta l’Ariosto nell’Erbolato? — e da altri rispondersi: — Di una cena fatta con erbe; — Dell’arte medica; o pure: — Dell’umana nobiltà. — Onde può con ragione conchiudersi, che di tutte le opere divulgatissime del gran poeta, è questa senz’alcun dubbio la meno conosciuta.
Ma dove ancora più esatta notizia ne fosse corsa pel mondo, non pensiamo che di gran lunga maggiore sarebbe stato il numero di quelli che desiderato avessero di leggerla. Perchè il sapersi che l’Erbolato è invece (come giustamente riferisce il Gamba) una «Cicalata, in cui sono poste in bocca d’un ciarlatano le lodi della medicina,» e che da queste lodi il parlatore si fa strada alla vendita d’un suo specifico universale, e atto a conservare la vita dell’uomo senz’alcuna malattia sino alla più rara vecchiezza, non era certo cosa da conciliare a quello una troppo gran moltitudine di lettori. In quanto a noi, che, tratti alla curiosità fallace del titolo, ci eravamo da pezza rivolti tra mano questa operetta, considerando come l’autore non lasci abbastanza intendere se vi ragioni da celia o da senno, anzi parendoci ch’egli usi la sua penna piuttosto a compiacenza che a scherno del cantambanco da Faenza, credemmo pur sempre che almeno con soverchia leggerezza foss’ella già stata ascritta all’arguto e filosofico ingegno di Lodovico Ariosto. A far nascere anche in altri animi una parte dei dubbii che noi proviamo, tendono le noterelle che ora vi abbiamo apposte; come altresì a mostrare, che per la proprietà e leggiadria del dettato, ben essa è meritevole della stima in cui generalmente è tenuta; e che, se la Crusca d’un tempo l’ebbe già posta in non cale, con migliore consiglio gli odierni Accademici le diedero luogo fra i testi di cui promettono valersi pel loro novello Vocabolario.
ERBOLATO,
NEL QUALE È INTRODOTTO A PARLARE MAESTRO ANTONIO FAENTINO.
Egli è credibile che a principio che il sommo Iddio fece gli animali che in queste ultime sfere, in aria, in acqua ed in terra versano, il nuovo uomo rivolgendosi intorno, e considerando le altre specie de’ viventi, si attristasse, e della natura si rammaricasse non poco, vedendone alcune levarsi a volo e salir verso il cielo; altre nell’acque dal sommo all’imo nuotar sicure; altre con celerità scorrere ed aggirarsi per la spaziosa terra; alcune di penne e di piume, alcune di diversi peli, e quali di setole, e quali di cuojo e di grossa pelle, e quali di dure croste e scaglie, e quali d’acute spine vestite; e tollerar per questo di notte e di giorno il freddo e ’l caldo, e senza offesa di lor corpi giacere per l’umide spelonche e sopra la nuda terra al ciel scoperto: nè solo degli sensitivi animali essere questa natura sollecita, ma agli alberi ancora aver concesso di potersi con doppia scorza dalla state e dal verno riparare: e vedere appresso alcune specie di animali di pungenti corna armate; altre di fortissimi denti; alcune di robustissimi piedi, o sì veloci, che di ogni pericolo poteano levarle in un momento. Sè stesso poi dall’altra parte considerando, si conoscéa pigro e lento, e più di tutti gli altri debole; nè d’alcuna difesa, o per resistere o per fuggire, provvisto. Vedéasi solo esser creato ignudo; e con pianto e con gemito nella nuda terra essere, il dì che nasce, gittato; nè alcuno aver più di se le lagrime pronte. Egli sì inetto, egli sì imbecille, che nel suo principio non si può se non carpone muovere; nè su la sua persona, se non con lunghezza di tempo, reggere; nè mutare nè fermare i passi, nè articolare la voce, nè pure apprender di mangiare, nè da sè nodrirsi. Poi si vedéa a grandi ed innumerabili infermità più di tutti gli altri soggetto. Onde, fra sè queste cose discorrendo, venne in opinione ch’egli fosse stato assai meglio non esser nato, e che la natura facesse in lui più officio di matrigna che di madre; come dice Plinio nel settimo.1 Ma la Somma bontà non volse ch’egli stesse lungamente in questo errore ed in sì grave affanno; e gli mandò una ispirazione, per mezzo della quale gli fece vedere che un sol dono che particolarmente gli aveva concesso, oltre gli infiniti che gli erano dati in comune, non pur uguale, ma lo facéa di gran lunga superiore a tutti gli altri animali: e questo era la ragione, con la quale consigliandosi sempre, nè mai dagli ottimi ricordi di lei scostandosi, era atto a conseguire per sè solo tutte le grazie che fra molte e diverse specie di creature avéa il Ciel largo compartite. Avuto ch’ebbe il nuovo uomo quel lume, non più dando, come era solito, orecchie ai sensi, ma pigliando per consigliera e guida la ragione, s’avvide esser stato fatto da Dio principe e signore non pur degli altri animali, ma degli elementi ancora; e che tutte le cose che si trovano al mondo ci erano poste per suo utile e piacere, purchè pigliarle a tempo, ed a suo beneficio e conservazion sua, e non a destruzione della vita, dispensar le sapesse. Che sebbene gli era nudo, potrebbe, facendosi dagli inferiori a sè, a chi dar la lana o il pelo, a chi levando il cuojo e la pelle, coprir la sua nudezza,2 e dal freddo e dal caldo ripararsi; e che dalla selvosa terra e dagli altri elementi potrebbe aver materia da difendersi dalle mutazioni dell’aria opportunamente; e che, per alleviare le sue fatiche, quindi potría medesimamente avere instromenti e macchine, con le quali, e con opera di più robusti animali, che con industria si sapría fare ubbidienti, ridurrebbe i rozzi campi a cultura ed a rendergli copiosissimi frutti; e se volesse da luogo a luogo môversi, usando ora l’agilità de’ cavalli, ora il corso dell’acque, e spesso aggiungendovi lo spirare de’ propizî venti, non avrebbe nè alle gambe de’ cervi nè alle penne degli uccelli invidia. E quantunque non gli fosse stato di native armi nè d’altra difesa dalla natura provvisto, s’avvide che molti di quelli ch’avéano i denti o l’ugne, si potéa far ministri, satelliti, a pigliare, occidere e cacciar quando questi e quando quelli che ovvero gli paressero nocivi e molesti, ovvero che per cibo o per altro suo commodo gli facessero bisogno. Ebbe considerazione appresso, che a tante infirmità non era sottoposto, se non perchè l’ingegno, il quale era la principale e propria operazione dell’anima, non si lasciasse marcire nell’ozio, ma sempre avesse da cercare, per conservazion di questa vita, quali cose gli fossero utili e quali dannose; e che tante specie d’alberi, tante varietà di erbe e tante sorte di gummi,3 tante differenze di liquori, e tante e tant’altre cose, non erano dal Sommo Creatore prodotte indarno, le quali conoscendo, ed opportunamente adoperandole, potría fuggire l’infirmità, e mantenere in lungo ed ottimo stato la sua vita. E così il nuovo uomo, dove prima ascoltando i sensi si avéa creduto d’essere la più povera e necessitosa creatura di tutte l’altre, consigliandosi poi con la ragione, s’avvide essere di tutte la più ricca e la più agiata. Così gli si offersero molte e molte cose belle ed utili, che, come da uno eminentissimo prospetto, gli fe d’appresso e da lontano vedere la ragione; e le giudicò degne ove avesse a pôrre lungo studio e diligenza grande.
Ma più di tutte l’altre gli parve bella ed utile, e di lunghissimo studio e grandissima diligenza degna, quell’arte che mostra4 di tener l’uomo sano, e dalla mala disposizione ritirarlo alla buona, la quale si chiama Medicina: chè, senza alcun dubbio, se la vita e questo essere è la più preziosa cosa che noi abbiamo, l’arte che di mantenerla in buono ed ottimo stato e di prolungarla ci insegna, conviene che sia la più nobile e la più necessaria che si impari. Questa cognizione ebbero i primi uomini, e quelli che di età in età per molti secoli da loro successero.5 Per questo, non avéano in quella prima antichità altro più caro nè miglior studio, che di cercare, investigare, apprendere le disposizioni e le proprietà dell’erbe, delle piante e dell’altre cose a loro servigio create; nè più bel dono potéa fare uno amico all’altro, nè lasciare il padre al figliuolo eredità più proficua, che qualche nuova cognizione di alcuna cosa che a mantenimento e ricuperazione della sanità fosse utile. E si può credere che se a quella antichissima antichità vivéano gli uomini le centinaja d’anni, non fosse (doppo la grazia dell’onnipotente Iddio) per altra causa, che per la diligenza e studio che a conservazione della propria vita usava ciascuno. E mi conferma in questa opinione Esculapio, medico eccellentissimo, non nato già in quei tempi quando generalmente la vita era sì lunga, ma in questi più inferiori, nelli quali non si vivéa più che si faccia ora. Di costui si riferisce che tanto si confidò nella scienza sua, che disse che se in tutto il tempo ch’egli stesse al mondo, mai fosse veduto infermo, non voléa esser riputato medico. E bene ottenne quanto già avéa promesso; imperocchè senza alcun dolore o molestia menò la vita sua oltre il centesimo anno. Il che faríano forse all’età nostra molti, se la inerzia, l’avarizia, la gola e la libidine, e più la superbia, non lo vietassi loro. Sono pochi che vogliano la fatica dello studio: e fanno più stima di ogn’altro guadagno, che di quello della sanità e della vita. Ed a molti pare a bastanza di saper tanto, che loro dia credito e reputazione di medico. Molti altri che sanno quello che loro sia nocivo, si lasciano vincere o dalla gola o d’alcun altro dannoso appetito. Ma la più parte, per superbia, non si degna di usare altro parere che ’l suo; e più tosto vuole che l’infermo muoja, che desister da quello che, o bene o male, abbia incominciato, rivocar quello che abbia detto una volta. E non vuole avvedersi che essendo infinite le specie delle cose, sarebbe impossibile che l’intelletto di uno uomo solo fosse ad investigare sofficiente le proprietà di tutte; e che per questo è fatto l’uomo sociale e conversativo,6 ed ha avuto il dono della favella meglio che niuno altro animale, acciò che imparando costui questa cosa e colui quell’altra ed un altro un’altra, ed indi esplicando e mettendo ogni uno la sua in commune, si venissero o in tutto o per la maggior parte dilucidando e risapiendo.7 Ma che dico io, che non sia alcuno per sè solo sofficiente a sapere tutte quelle cose, quando nè ancora quanti ne sono in una gran città nè quanti in una gran provincia siano sofficienti a saperne pure la centesima parte? Altre cose si sanno in Grecia, che non si sanno in Italia: molte in India, che nè in Grecia nè in Italia si intendono: e molte e molte che in diversi luoghi sono, nè si trovano altrove se non ivi. Altre cose nascono in Scizia, che non produce l’Egitto: molte in Egitto, che nè in Scizia nè altrove si conoscono: e così va discorrendo. In molti luoghi si intendono molte cose che nè in un luogo nè in quattro si potrebbono intendere. E per questo, non parve a Platone nè a Pittagora nè ad Apollonio Tianéo, nè a molti altri li quali nelle scienze sono stati eminentissimi, di potere imparare a bastanza in una scôla sola, nè in una città quale era Atene: onde andarono peregrinando, e volsero intendere altri pareri ed altre opinioni che quelle degli Accademici, degli Stoici, degli Peripatetici e degli Epicuréi; e volsero parlare in Persia con gli Maghi, in India con gli Ginnosofisti, in Egitto ed in Fenicia con gli Profeti, in Gallia con gli Druidi, e con gli altri che negli altri paesi erano riputati savii. E così, cercando il mondo, e parte udendo e parte vedendo cose diverse, riuscirono eccellentissimi, e con il loro disagio riportarono commodo ed utile non solo alle loro patrie, ma a tutta la generazione umana. Che dirò d’Apolline, di Chirone, e di molti altri che, per aver con diligenza investigato le forze e le qualità dell’erbe, e portato da diverse parti salutiferi rimedi a conservazion della vita umana alle loro patrie, sono stati riveriti ed adorati per Dii? Che se non si fossero mai dilungati dalle paterne case, come non se ne dilungano molti medici, ed i più stimati a nostra età, solo averíano delle medicine che nascono ne’ loro paesi, e non delle peregrine, avuto notizia. E così tante e tante qualità di radici, di legni e di erbe, che vengono quali d’India, quali d’Etiopia, quali di Soría e quali di Arabia, non sariano state nè da Galeno nè da Serapione nè da Dioscoride nè da Cornelio, Avicenna, Mesue, nè d’alcuno altro medico greco, latino o barbaro, conosciute. Non dico questo perchè io voglia derogare8 ad alcuno, nè arrogare a me più del dovere: chè derogare e dir mal d’altri non fu nè voglio mai che sia mia usanza; anzi fu e sarà sempre di fare onore ed avere in riverenza ognuno, e massimamente quelli che sono virtuosi, o che di virtù abbiano qualche apparenza. Né anco il volermi da me medesimo lodare credo mi giovasse molto: chè non apparendo altro che parole uscite della mia propria bocca, più tosto starei a pericolo di acquistare nota di bugiardo, che ritrovare credenza di veridico. Ma lo dico per difendermi contro una falsa opinione che, per suggestione d’alcuni invidi ed avari, è stata impressa nella mente della maggior parte degli uomini: e questa è, che i medici che si veggono ire ora in una terra ora in un’altra, e da questi luoghi eminenti farsi vedere in pubblico, sieno di poco prezzo, e più tosto venditori di ciance che facitori di alcuna utile opera; e che solo quelli che stanno fermi tuttavía in un luogo, sappino ed intendano il tutto.
Alla quale opinione rispondendo, io dico che se ’l medico il quale nelle scôle e nella pratica di una sola città si è fatto esperto e dotto, merita onor e credito, voi non mi dovreste negare, volendomi rispondere per la verità, che assai più onore e più credito debbe meritar quello che sia versato in diversi studi, e sia versato in tutte le scôle non pur d’Italia ma d’oltramonti9 ed oltramare, ed in qualunque altro luogo s’impari scienza; e discorrendo diverse province, e diverse nature e diversi costumi, abbia veduto tutte l’infermità che immaginare si possono, ed avútole in esperienza. Ch’io sia o non sia tale, l’opere, e non le parole mie, il dimostrino. Le quali opere se per altro tempo o in altro luogo m’hanno dato lode o biasimo, ne può Italia10 rendere testimonio, la santissima città di Roma, la potentissima Vinegia, il popoloso Milano, con molte altre città di Lombardia; tutto il regno di Napoli, con l’isola di Sicilia; e più di tutte l’altre, l’antichissima Mantova, la nobilissima città di Ferrara: nell’una delle quali, per le mirabili e frequenti cure fatte per me in essa, l’illustrissimo suo signor duca11 mi fece di sua casa, e mi donò di potere, io e la progenie mia, portar l’arme sue, che vedete dipinte qua su: nell’altra il sapientissimo ed invittissimo signor duca Alfonso,12 oltre gli altri doni di che son stato da sua eccellenza larghissimamente premiato, mi fece cavaliere a sproni d’oro, e mi donò titolo di conte, e volse ch’io togliessi in Ferrara grado di dottore dell’arti e di medicina in quello suo eccellente e famosissimo Collegio; come negli uni e negli altri miei privilegi si contiene amplissimamente. E partendomi da Ferrara per qualche giorno (imperò ch’io vi sono per ritornar di corto), quello graziosissimo signore mi fece dipinger questa bandiera, in testimonio di molte esperienze parte da sua eccellenza vedute, parte da essa per degni di fede testimoni intese. Ora, quale e quanto sia maestro Antonio Faventino (chè questo è il nome mio)13 sa, non meno dell’Italia, la ingegnosa Alemagna, cominciando dal ducato d’Austria fino a quello di Sansonia e di Selesia; e scendendo lungo il Reno per tutte le terre franche, il sa tutta la Fiandra col Brabante, e sino nell’isola di Olanda. Dell’opere mie sono testimonî molti luoghi di Francia e d’Inghilterra e di Scozia, chè tutto per ordine sarebbe lungo a dire; e restano ancora stupefatti dell’opere mie, e mirabili cure che in ogni generazione d’infirmità far mi videro. Ora, chi si volgesse verso il Levante, cercando l’Albania, la Bossina, la Romanía, la Moréa, l’Arcipelago e tutta la Grecia, fino alla famosa città di Costantinopoli; e da un altro canto, discorrendo per l’isole di Candia, di Rodi e di Cipro, e venendo in Alessandria d’Egitto, e nella grandissima e popolosa città del Cairo, di Jerusalem e di Damasco, e per tutta la Soría fino alla radice del monte Tauro ed alle paludi Meotide, udiría non altrimenti esser nominato maestro Antonio Faventino, che da gli antichi Epidauri fosse Esculapio; e la quantità dell’opre mie in tutti i connumerati paesi, ed in molt’altri ancora (i quali per fuggire la lunghezza del parlare io pretermetto), non mi bastarebbe tutto questo giorno, nè un altro appresso, a raccontare. Pure n’ho fatto su questa bandiera ritrarre l’immagine d’alcune; acciò che si possa vedere con gli occhi quello che volendo io riferire a questo ed a quello che fosse curioso di saperlo, mi saría fastidioso e molesto a replicare tante volte. A questo che parte vi narro a bocca e parte dimostro qua su dipinto, potrebbe essere che io non ritrovarei quella credenza che merita la verità che mi sia data: nè me ne attristo nè me ne dolgo però molto; perchè a me non avviene cosa che a molti altri eccellenti uomini, assai maggiori di me, non sia avvenuta quando sono capitati in luoghi ove non sieno stati conosciuti.14
Ma acciò che la verità non resti dalla falsa opinione soffocata; e che un’altra volta, quando io tornarò in questa città, possiate conoscere, e dire a chi non avéa di me notizia, ch’io sia veridico e non mendace; ho pensato di lasciarvi una gemma, un tesoro, una ricchezza, che se voi amate la sanità, la salute15 e la vita vostra, vi debbe esser più cara che s’io donassi oggi a ciascuno di voi dieci mila scudi d’oro contanti. Che giova l’oro e l’argento a uno infermo? che giovano a uno morto i larghi campi e le fertilissime possessioni? La perpetua sanità e la vita lunga si può chiamare, ed è in effetto, vera ed incomparabile ricchezza. Di questo prezioso ed inestimabile dono vi voglio oggi arricchire tutti, donandovi in un picciolo vasetto, di forma picciola ma di valor grandissimo, quello eccellente medicamento, quello mirabil rimedio, che dal mio eccellentissimo precettore, e da me sempre con somma venerazione memorato, mi fu insegnato, e quasi per eredità lasciato: cioè da maestro Niccolò da Lunigo; quello sapientissimo vecchio, quella inesauribile arca di scienza. Dell’amore che sopra tutti gli altri suoi discepoli mi avea portato sempre, mi fece più volte chiaro segno ed evidentissima dimostrazione; ma più quando, pervenuto al fine della sua vita, a sè chiamòmmi e disse: — Antonio mio dilettissimo, il più certo segno che possa di benivolenza mostrare l’uno amico all’altro, mi pare che sia quando venendo a morte, se lo lascia della maggiore e migliore parte delle sua16 facultà erede. Io ti donarei volentieri a questo punto ciò ch’io mi trovo possedere al mondo; chè non mi parrebbe di poterlo meglio in altra persona collocare: ma, dall’una parte, vedendo che nè di terreno nè di case hai bisogno, come quello che con le tue virtù n’hai acquistato a bastanza, e, volendo, sei per acquistarne assai più che non posseggo io; dall’altra parte, parendomi che di tal cosa non potrei, senza mio grandissimo carico e biasimo, privare della loro legittima successione gli miei propinqui e stretti parenti; ti prego che tu sia contento ch’io lasci questi beni di poco momento a chi n’ha più di te bisogno: anzi, bisogno non ne hai tu alcuno, ed essi, senza, difficilmente ed a fatica potrebbono vivere. E se io ti levo questo (chè per certo mi par di levarti tutto quello che di mio non faccio tuo), a questo punto sia sicuro ch’io te ne do così grande e ricca ricompensa, che hai da stare tutta la tua età di tal cambio contento. E questo che io ti do, sappi ch’egli è la scienza di fare l’incomparabile Elettuario vitæ, prima da Ippocrate, e poi da Galeno, ed indi da molti altri fisici eccellentissimi, più tosto immaginato che posto in opera. Io ultimamente, per lungo studio, e più per divina grazia, l’ho condotto a perfezione; sì che con questo, come tu sai, ho conservato in prospera valetudine e lunga vita molti uomini ch’erano degni d’essere immortali: e fra gli altri, l’illustrissimo ed eccellentissimo duca Ercole, il signor Sigismondo, il signor Rinaldo ed il signor Alberto, tutti fratelli, e della illustrissima casa da Este.17 I quali, con altri infiniti, che sarebbe lungo a nominarne tanti, usando, per esortazione mia, questo preziosissimo Elettuario, hanno menato la loro vita oltre l’ottuagesimo anno perpetuamente sana:18 e se anco l’avessero meglio usato, ed appunto secondo i miei precetti, saríano per questo, e per la naturale sua buona valetudine, forse vivi ancora. Ed io, se la natura mi avesse a principio formato di complessione più forte, era per passare con questo ajuto oltre i cento e venti anni; chè più termine di vita non vuole Iddio ch’abbia l’uomo. Ma con tutta la debole ed imbecille mia disposizione, sono senza febbre e dolore alcuno passato il nonagesimo settimo anno. — E così dicendo, l’amorevole e santo vecchio mi porse un picciolo libretto, nel quale con lungo trattato si conteneva il modo di fare l’eccellentissimo Elettuario.
Come io avessi sì ricco e precioso dono, avete inteso. Le prove ed esperimenti che con esso lui ho da poi fatto, sono notissimi nelle città e ne’ paesi sopra nominati, dovunque sono ito sempre travagliandomi per soccorrere alle calamità umane, parte per19 acquistare e fare maggiore la salutifera scienza di Medicina, che nè in una nè in quattro nè in dieci nè in cinquanta città si può aver perfetta. La principale20 virtù di questo da Iddio benedetto Elettuario, è che pigliandone ogni mattina nell’uscire dell’alba, e poi dormirvi21 dietro una mezz’ora, cominciando a mezzo aprile insino a mezzo maggio, quanto è grossa una noce, distemperato in brodo di pollo, dove non sia nè sale nè cosa salata, ti conserva tutto quell’anno senza dolore o infermità alcuna. E chi poi22 seguendo d’anno in anno al medesimo modo; ed in quel tempo che si piglia, guardandoti da cose salate, da cipolle, da aglio e dagli altri cibi di simile specie; ed in somma da tutte quelle cose che dagli medici sono proibite a chi si purga; condurrà senza febbre e dolore alcuno la sua vita sino alla estrema decrepità. Ma chi non l’avesse tolto in questo tempo, e che fra l’anno, o di state o di verno, fosse oppresso o da dolore di capo, o da dolore di fianchi, da mal di pietra e scorazione23 di vesica, da ardore circa quelle parti, da stranguria o dissuria, chè non potesse ritenere l’orina; chi sentisse dolore colico o matricale,24 qualunque altra sorte di dolore; ne pigli la quantità già detta in malvasia o vernaccia, o in altro vino bianco e possente, e súbito rimarrà libero e sano. Similmente, chi patisse il mal di Giob, usando questo non sentirà mai doglie; e giovarà ancora, che più tosto gli si saldaranno le broze,25 e l’altre piaghe che vengono di fuori. L’uso di questo lieva la sciatica; e pigliandone una donna che sentisse innanzi o doppo il parto dolore, resterà súbito senza alcuna noja. Questo alto rimedio è anco appropriato a levare le gotte, o vogliamo dire podagre. Gli è il vero che in quella infirmità, ed in quella di mal di corpo e flusso di sangue (perchè vale a l’una ed all’altra mirabilmente) s’ha da pigliare con vino vermiglio, e più carico di colore che si possa ritrovare. Così chi avesse doglia di denti, o che li sentisse26 crollare, col medesimo vino negro facendo scaldare questo Elettuario, e tenendone in bocca, sarà sicuro che mai più non sarà per perdere un dente, nè per sentirvi doglia. Ed a levare la strettezza del petto, pigliandone con acqua di mêle, non è cosa più mirabile. Chi fosse per perdere la vista, per difetto di cataratte o di ungelle27 o per oftalmía o per altro accidente, o che se la sentisse perduta, pur che gli occhi non gli fossero usciti del capo, pigli di questo quanto è una noce, e lo distemperi in un bicchiero che sia li dui terzi di acqua di finocchio ed uno terzo malvasía o vin bianco ottimo, e di quello si lavi tre volte il giorno gli occhi: in pochissimi giorni ricupererà tanto della veduta, che si vedrà che, seguendo per qualche tempo, sarà per liberarsi in tutto. O voi che temete di diventare etici o tisici, e voi altri che avete qualche principio d’idoprisía, ecco la vostra salute, se la saprete ora prendere. Le diverse infirmità alle quali il mio Elettuario è prontissimo rimedio, sarebbe troppo lungo a connumerarvi tutte; ma siate certissimi che chi l’usarà, si potrà preservare da ogni sorte d’infirmità che possa venire in corpo umano; e chi già sarà in qualche infirmità caduto, sia di qualunque si voglia specie, usando questo, o totale liberazione o sentirà giovamento mirabile. E quando un’altra volta io tornarò in questa città (la quale, per il bel sito, e per la conversazione de’ gentil’uomini ed ottimi cittadini che ci ho ritrovati, delibero di frequentare, se Iddio mi dà la vita, così spesso quanto per addietro abbi mai fatto in altro luogo d’Italia o d’altra parte), quando io ci tornarò, spero che per questo dono che io vi averò fatto, non solo mi vedrete ed udirete volentieri, ma che mi onorarete ed averete in riverenzia assai più che non si conviene al stato28 d’alcuno mortale.
Ora eccovi il dono, la ricchezza, il miracoloso Elettuario che dar vi voglio. Questo picciol vasetto ha in sè rinchiuso la continua sanità e la lunghezza della vita umana, e maggiore che non può concedere la difettiva natura. E se non che le leggi eterne ed immutabili, per colpa del nostro primo padre il vietano, questo saría stato sofficiente a farci perpetui ed immortali. Ho detto di donarlovi, e ve lo voglio donar veramente; perchè dandovi cosa di valuta grandissima per un picciolo e minimo prezzo, non si può dire che non si doni. Nè anco questo minimo e picciolo prezzo vi domandarei, se io potessi fare l’Elettuario con mediocre spesa: ma perchè gli è composto di diversi simplici, nati chi in una parte e chi in un’altra del mondo, che non si possono avere se non con molta spesa e fatica, son costretto, se finiti questi pochi bussoli,29 ne voglio fare degli altri, di dimandarvene quel prezzo. E se ben vi arò a pôr del mio, non vi ponga però tanto, che per fare bene a voi, io faccia male a me. Quello ch’io ve ne dimandarò, sarà tanto poco, che non vi doverà parer grave. Ben vi certifico, che a me costa più di quello ch’ora costarà a voi. Ma non mi curo di perdere al presente; perchè spero, conosciutane e fattane l’esperienza, un’altra volta, e sempre ch’io ritornerò in questa città, non mi negarete prezzo ch’io ve ne dimandi. Perchè allora ve lo vorrò vendere; ora son contento donarlovi. Non voglio da voi più d’un grosso dell’uno. Ora, chi sarà quello sì avaro, quello sì misero, a cui incresca lo spender per conservazion della sua vita sì minimo prezzo? Chi sarà quel sì povero che non impegni o venda il mantello? e se non l’ha, che non si spogli il giuppone e la camiscia ancora? che non si sforzi di stare digiuno un giorno o dui, fin che si avanzi un grosso, co ’l quale si acquisti questo tesoro inestimabile? Deh! non lasciate fuggire l’occasione; che non so quando altra volta sì benigna sia per ritornarvi alle mani.
Note
- ↑ Cioè nel Proemio di esso libro, di cui anche tutte le altre cose fin qui dette sono imitazione: Ut non sii satis æstimare, parens melior homini, an tristior noverca fuerit.
- ↑ Bella voce, non registrata.
- ↑ È il latino indeclinabile gummi (di cui vedi anche la sc. IV dell’att. III della Commedia Il Negromante), restituito alla nostra lingua; chè restituzione può dirsi ogni cosa che dall’idioma de’ padri nostri trasferiscasi a questo che n’è legittimo erede: e però da intendersi per lo stesso che Gomme, o Sostanze (come oggi direbbesi) gommose. Delle virtù medicatrici attribuite alle varie specie di esse, ragiona Plinio in più luoghi.
- ↑ Insegna. Esempio notabile.
- ↑ Succedere, così costruito, sta per Discendere, Aver l’origine, Provenire.
- ↑ Esempio notabile. Secondo me, in questo luogo è da spiegarsi: Inclinato da natura al conversare.
- ↑ Il Barotti ammodernò: risapendo.
- ↑ Per Detrarre alcuna parte del debito, e per Detrarre generalmente. Doppio esempio, e notabile.
- ↑ Le stampe antiche, con assai probabile errore: oltramontani; che il Barotti emendava: oltramonte.
- ↑ Così tutte le stampe; ma forse è da correggersi e puntuarsi: ne può in Italia rendere testimonio la ec.
- ↑ Questa parola, alla quale non so se altri ponessero sin qui mente, dimostra che l’Erbolato non potè essere scritto prima del 1530, in cui Federigo Gonzaga, marchese quinto di Mantova, ebbe da Carlo V il titolo di duca.
- ↑ Alfonso I, duca terzo di Ferrara.
- ↑ «Messer Antonio Faentino... non è altri che il celebre Antonio Cittadini di Faenza, professore in diverse città d’Italia, e, tra le altre, in Ferrara negli anni 1474 e 1489; di cui si hanno alcune Epistole latine dirette a Giovan Francesco Pico; ed alla pratica in medicina aggiunse l’essere versato in lingua greca ed in poesia latina, tanto che.... una sua traduzione degli Aforismi d’Ippocrate in versi latini vien lodata in una lettera di Marsilio Ficino.» Così il Baruffaldi, nella Vita di messer L. Ariosto, pag. 165. Se non che, ciò concesso, cotesto medico o cerretano, supponendolo anche fatto professore poco più che di soli venti anni, sarebbe stato, quando l’Erbolato scrivevasi, quasichè ottuagenario.
- ↑ Come avrebbe potuto ciò dire il Cittadini in Ferrara, dove già cinquantasei e quarantun’anno innanzi aveva pubblicamente professato non ci è detto se la medicina o le lettere?
- ↑ Sanità, per l’essere immune dai morbi; salute, per l’uscir salvo da’ pericoli a che quelli conducono.
- ↑ Il Barotti correggeva: sue.
- ↑ Cioè, fratelli del duca Borso, e figliuoli egualmente, tra legittimi o no, del marchese Niccolò III.
- ↑ È bugía pretta, come sulla bocca de’ cerretani si conviene: perchè nessuno dei nominati, tranne Alberto, era pervenuto agli ottant’anni; anzi Rinaldo morì di soli sessantotto nel 1503.
- ↑ Così nelle antiche stampe; alle quali non volendo il Barotti acquietarsi, emendava: e per. A noi non par molto verisimile, che di un semplice et gli antichi editori facessero il bissillabo parte, ma che piuttosto sfuggisse loro la congiunzione precedente a quest’ultima voce, la quale può qui avere il senso abbastanza consueto d’Intanto, Nel tempo stesso.
- ↑ Alcune stampe tramettono qui malamente: di questa.
- ↑ Il Barotti: dormitovi.
- ↑ Conviene, pel buon andamento grammaticale, qui sottintendere andrà. Ed il migliore accordo vorrebbe ancora, che invece di guardandoti, fosse scritto guardandosi.
- ↑ Così tutte le stampe: dalla quale concordia emerge il non registrato scoriazione, come perfetto sinonimo di Escoriazione.
- ↑ Come addiettivo, per significare Attenente alla matrice, Uterino, Isterico, non venne finora accolto nei vocabolarî.
- ↑ Così le stampe, non esclusa la emendata dal Barotti; ma da scriversi piuttosto brozze (pronunzia lombarda), e da intendersi come bozze, plurale del registrato Bozza.
- ↑ Il Barotti: che se li sentisse; le stampe anteriori: che si sentisse. A noi lo scambio parve di gran lunga più certo dell’omissione.
- ↑ Così le stampe più antiche. Il Barotti corresse unghielle, senza pensare all’equivoco che poteva nascerne con altra malattia non degli occhi, ma delle dita, cagionata dal freddo. (Vedi il Vocab. dell’Alberti). Il vero sarà forse ugnelle, e la qualità del male quelle escrescenze che vengono, per cause diverse, alle palpebre; come col nome stesso sogliono indicarsi altre escrescenze nascenti a piè de’ cavalli.
- ↑ Il Barotti raddolciva: allo stato.
- ↑ Bussolo (pronunzia romagnuola e lombarda) invece di Bossolo, fu dagli spogliatori veronesi trovato già nel Cavalca. Non bussolo, ma bossola avea, poi, scritto l’Ariosto sul principio della Lena. (Vedi tom. II, pag. 291).