Nuovo discorso proemiale letto nell'Accademia di Filosofia Italica (Mamiani)
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§ II. Giudicare della propria età imparzialmente è difficile. A pochi e forse a nessuno scrittore vien fatto d’imparzialmente discorrere e sentenziare de’ tempi proprii e senza eccedere più che molto nella lode o nel biasimo; perchè non li potendo esso guardare e stimare da un altro punto della durata e da un ordine differente di casi, non avvera mai quella condizione ricordata da Cornelio Tacito e idonea al freddo e non passionato giudicio di essere cioè il dettatore remoto dalle cagioni dello sdegno e della parzialità. E similmente del valore civile di ciascun secolo. Oltrechè, la prestanza di ciascun secolo non regge sola da se, ma convien raffrontarla prima con la funzione speciale e propria che cadde a quello in sorte di adempiere nel corso intero della vita delle nazioni, poi con le sue riferenze al bene e al progredimento universale e futuro di tutti gli uomini. Del pari, una età può eccellere per tal pregio di cui qualcun’altra abbia inopia, e così per inverso; ondechè se i titoli riescono differenti, sia da ultimo uguale la somma del merito. Similmente, un secolo può primeggiare per la bontà e perfezione di alcune poche e anguste comunanze civili e cedere ad altra epoca in risguardo del dirozzarsi in essa moltissime genti e provincie vastissime, sicchè dov’è perdita d’intensione e di qualità sia guadagno di estensione e di numero e dove il mondo, dice Macchiavello, riteneva la sua virtù insieme, si vede essere sparsa di poi in di molte nazioni. Possono certi tempi eziandio comparire fuor di modo inferiori ad altri, perchè intervengono tra la scomposizione e ruina d’un vecchio ordinamento civile e l’edificazione d’un nuovo; tempi, per così dire, pregnanti de’ quali più tardi raccogliesi il parto difficile e doloroso; sebbene la gloria e l’utilità non possa dirsi molto maggiore tra il concepire e il mettere in luce. Gli studiatori dell’antichità mal contenti de’ proprj tempi e perchè. In genere poi gli scrittori sodi e meditativi e della sapienza antica studiatori amorosi, allato al guadagno fatto dai coetanei avvisano accuratamente gli errori e le colpe e stimano e pesano il detrimento e la perdita; quindi empion le carte di molte querele. E ciò avviene principalmente per lo troppo largo spazio che sempre corre tra la realità e il concetto e tra il bene attuato e il desiderato.
§ III. Tutte le quali considerazioni rendonmi assai riguardoso a censurare con forza l’età in cui viviamo. L’età nostra copiosa di mezzi, audace d’imprese, povera di risultamenti. Ma come ciò sia, parmi che senza temerità niuna possa pronunziarsi (nè i posteri ci smentiranno) essere cotale nostra età speciosa e singolarissima per la soverchia sproporzione che lascia scorgere tra i proponimenti e gli eseguimenti suoi e tra l’abbondanza dei mezzi di cui dispone e la parvità degli effetti che giunge a produrre; mai forse i disegni e le imprese non essere state sì vaste nè sì arditi ed universali i pensieri ed i tentamenti, ma l’opera tornare fiacca e manchevole, scarsi e incerti i fini adempiuti; quindi più aspro in tutti gli animi o più pungente che all’ordinario il desiderio deluso e l’inutile aspettazione.
L’opposto appresso agli antichi. Va sempre l’umano spirito, per naturale inquietezza, in cerca del nuovo con isperanza del meglio; ma dove in antico (a parlare coi simboli e le invenzioni dei poeti) una picciola nave correa sola e audacissima al conquisto del vello d’oro e quello ritrovava e rapia; nel dì d’oggi, intere armate (può dirsi) e d’ogni bene fornite mettonsi in mare alla inchiesta medesima d’un gran tesoro e d’una portentosa felicità. Ma qual navile smarrisce affatto il sentiero, quale dei remotissimi Elisi o del soggiorno incantevole dell’Esperidi ha piuttosto veduto i fiori e gustato qualche fragranza che vinto il dragone, raccolto i pomi e conseguito l’intento della lunga peregrinazione.
§ IV. Qual sia l’abito della mente e quale la scienza d’oggidì. Della quale disparità e differenza tra i mezzi e i risultamenti credo fra l’altre cagioni doversi questa annoverare che al rinvenimento cioè e al possesso delle perfezioni sociali occorre, più che abbondanza e virtù d’altre cose, abbondanza di sapere e virtù di principii. Nel vero, l’età nostra è copiosissima di notizie e d’erudizione e in ciò sovrasta facilmente a tutte l’epoche umane anteriori. Ma in sì varia e sì strabocchevole sua ricchezza il poco felice abito della mente la fa come povera. Questa è legge ferma e non declinabile dell’intelletto che allato al crescere delle notizie, sopraccresca una potenza intellettuale ordinatrice ed unificatrice; per modo che quelle così infinite come sono di qualità d’aspetto, d’attinenze e di numero si sostanzino in pochi veri eminenti e fecondi; in altra guisa, paiono arena senza calce come Calligola chiamò lo stile di Seneca; e sono buona ed ampia materia a tutte le arti, ma scienza superiore e direttiva non fanno. Che anzi, l’afflusso loro non mai discontinuo diviene ingombro e fatica dell’intelletto il quale s’avvolge tra esse simile a capitano tra innumerabili frotte d’armati non raccolte ai vessilli e arrendevoli alla disciplina, ma disordinate e scorrette, e che quante più si moltiplicano, recano minor sicurezza della vittoria.
§ V. Di qua poi si vennero ingenerando di mano in mano fogge strane di studii e costume insolito di studiosi. Fu sminuzzata e snervata per renderla dilettevole. Quindi la scienza si sminuzzò e smembrossi nelle gazzette, nelle rassegne (chiamanle oggi riviste) ne’ dizionari d’ogni ragione, ne’ compendii, ne’ manuali, nelle monografie, nelle antologie e in infiniti altri libri e dettati di simil fatta. Con essi (da voi non s’ignora) presume questo nostro tempo di rendere a tutti comune e facile, a tutti ameno e ricreativo il sapere, e di mille volumi dottissimi faticosi e reconditi spremere, a così dire, il succo, e mediante certe manipolazioni e lambicchi d’editori e compilatori convertirlo in latte ed in miele; sicchè ad ogni stomaco più dilicato e schifo sia digestibile e dolce. Ma la cosa si rivolge in contrario.
§ VI. Io non m’induco senza ragione gravissima a tassare di vanità alcun moderno costume, nè tanto sono parziale nel giudicare che io noti e consideri delle cose solo gli aspetti men buoni. E per troppo desiderio di divulgarla. Certo, in principio, molte di quelle forme di scrivere furon trovate con intenzione ottima e per desiderio di divolgare e propalare la scienza; altre, dovean prestare comodezza e sussidio alla ritentiva e fornire indizii e porgere avviamento (quasi topiche dottrinali) a lunghe e sode investigazioni. Ma come il vezzo dei tempi inclinava a cercar delle cose più presto gli usi che la natura e più volentieri abbracciarle che stringerle e spesso pigliandone la corteccia lasciarne intentato il midollo, quella scienza volgarizzata e superficiale e quei cenni e ricordi di consumate teoriche presero il luogo del sano e forte e meditato sapere; e scordando le sue sorgenti vive e abbondevoli corse il mondo, e segnatamente i più giovani, a disetarsi a quei minuti e non limpidi rivoli e stillicidii.
A questo un altro gran danno s’accompagnava ed era la rapida declinazione dell’intellettuale vigorezza. Ne seguì fiacchezza d’ingegno. Perchè come la complessione fisica si stempera e si avvizzisce con le morbidezze e la ignavia, così le facoltà della mente nella soverchia pianezza dei metodi nelle disattente letture e nelle poco rigide discipline e troppo agevoli esercitazioni si sfibrano e illanguidiscono. Però di quella congerie tragrande e sì moltiforme di cognizioni che adunasi oggi nelle intelligenze degli uomini, pochissime parti sono compiute e ordinate, e la cresce ed accumula meno assai la cogitazione che la memoria; quindi ogni notizia entra in capo, come portano gli accidenti; non sorge dall’intimo ma tutta viene di fuori; non rampolla l’una sull’altra ma l’una all’altra si soprappone quasi molecole di minerale per meccanico attraimento, non per virtù interiore ed organatrice. E giudizj avventati e mal fermi. Quindi pure i giudicii sono al dì d’oggi così subiti e risoluti come imprudenti ed instabili. Con molta apparenza di libertà, ripete ognuno il detto non suo e piglia a prestanza gli altrui pensieri; e come le opinioni vannosi componendo assai delle volte in sulle piazze e rado nel silenzio degli scrittoi e nelle pacate discussioni delle università e delle accademie, così hanno frequente del focoso e dell’avventato e da un estremo traboccano in altro e come fiotto marino sono dalle giornaliere passioni agitate.
§ VII. Il secolo è empirico e discute i fondamenti d’ogni verità. Niuna maraviglia pertanto che agl’ingegni così predisposti mancasse a poco a poco la voglia e il sapore delle altissime speculazioni, ed eziandio mancasse il vigore di proseguirle e di maturarle, quando interveniva necessità o desiderio d’imprenderle. Dal che è nata una incredibile ripugnanza e sconcordia ne’ nostri usi ed intendimenti: che da un lato fuggiamo ogni astrusa e lenta ricerca ed esaminazione dei sommi veri, e dall’altro sì pel naturale procedere della facoltà riflessiva e sì per certa baldanza sdegnosa e impaziente degli animi, ogni fondamento primo d’autorità, ogni credenza più venerabile e ogni disposizione essenziale del viver comune viene sindacata e discussa: e tutto il secolo si ravvolge in disegni ed imprendimenti di tali ammende riforme ed innovazioni di cui ciascuna implica a marcia forza l’esamina e la definizione d’un sovrano principio.
§ VIII. Le guerre antiche paragonate alle moderne. Non è malagevole a concepire che nella guerra dei sette anni o in quella più sanguinosa e ostinata per la successione di Spagna o nelle più antiche e bizzarre tra francesi, castigliani e tedeschi seguite in Lombardia e nel Regno, quando i popoli all’ambizione e cavalleria dei principi loro chetamente obbedivano e s’acconciavano, poco o nulla si ragionasse delle teoriche di Stato e di universali principii. Nemmeno ad alcuno darà ammirazione che le questioni dogmatiche insieme e giuridiche forte si freddassero poco avanti le trattazioni del congresso di Vesfalia, quando l’Europa azzuffavasi e battagliava assai meno per la libertà di coscienza o l’integrità del papato e della fede cattolica Queste son fatte in nome d’alcun sovrano principio. di quello che per accertare le mutazioni sopravvenute nei limiti e nelle giurisdizioni dei regni e trovar nuovi contrapesi alla bilancia politica. Ma in questa prima metà del secolo decimonono èssi mai sguainata veruna spada senza invocare in faccia a Dio e agli uomini la necessità e la forza d’un grande e universale principio?
§ IX. Nessun congresso e accordo ridà la pace al mondo e perchè. Le sollevazioni poi e le guerre, le paci, le composizioni e i congressi, le carte costituzionali ottriate e i patti mutuamente conclusi e sacramentati onde avviene egli che mai non tronchino appieno nessuna lite nè sgroppino e sciolgano prosperamente alcun nodo nè autorità conseguiscano nè infondano quiete e serenità di pubblica vita, se non perchè lasciano o tutti o in grande porzione non risoluti i problemi di razionale e civile filosofia che in essi virtualmente son contenuti? Tutti e sempre ragionano del viver sociale ignorandone la scienza. Per lo certo, di nessun’altra cosa paiono in vista occuparsi più volentieri e più spesso le moltitudini. Nelle gazzette come ne’ circoli, ne’ grossi volumi e trattati come negli opuscoli e negli almanacchi, tra le conversazioni e i crocchi non meno che sulle cattedre suonano tuttogiorno i gran nomi di giure e di popolo e ricorrono concetti d’alta scienza politica e di riformazioni e tramutazioni sociali e civili. Anzi pure nell’occasione d’un ordinanza ministrativa sulle grasce o i mercati; talvolta a nome d’una nuova consorteria d’operai, tal altra per l’esordire d’un istrione o d’una danzante udiamo che si diserta e si scrive intorno ai prossimi destini del genere umano e di quello che sperano e vogliono le nazioni. Ma che ciò somigli a uno scelto vocabolario piuttosto che a una scienza bene ordinata e dinoti meglio un’inquietezza d’immaginativa e un esercizio di sentimento che di ragione e d’opinione, E professandone una superficiale o fantastica. scorgesi apertamente assai dal modo superficiale e fantastico nel quale le controversie intorno a quelle materie sono agitate oggi in Europa non dico dal volgo ma dai gran dettatori e disputatori e dagli uomini solenni altresì ch’entrano a reggere magistralmente il freno degli Stati.
§ X. Si dà nelle utopie o nel superstizioso ed ippocrito; nella licenza o nella tirannide. Qua descrivesi un avvenire fuor del possibile e tale sembianza di società la qual ricerca per avverarsi una natura umana tutta disforme da quella che sussiste e una palingenesi non dei costumi soltanto e degli istituti ma sì veramente dell’anima e delle sue facoltà e poco meno che della corporea complessione e figura. Là per contrario, chi il crederebbe? Si sconfessano e disdicono con basse e ridevoli palinodie i più certi e saldi principii di giustizia e di libertà che ogni generoso animo accoglie e mantiene inviolati, e le tetre superstizioni e l’omaggio servile degli andati secoli si rimpiangono. Si rifanno i vecchiumi, o si rifiuta la storia. Là faticasi a levar su dal fango altari per sempre caduti e a rappiccare insieme i pezzi e i rottami di statue e di simulacri non solo rovesciati ma infranti; e là si presume di ben guarire le infermità dello spirito, così nuove e profonde come noi le scorgiamo, con farmachi vieti e abborriti e che l’esperienza dolorosa ed universale degli uomini attesta essere o inefficaci o velenosi e letali. Qua dai democrati di larga cintola ripetonsi mille volte al giorno e con lingue sonanti d’acciaro quelle parole magnifiche poco avanti dinumerate, senza loro assegnare certe e ben dimostrate significazioni, trattando le astrattezze come cose concrete e operabili, scordando e spesso anche beffando le ammonizioni della storia ed ogni assennatezza antica e producendo poi nel fatto poveri saggi e sfortunati di loro prevedenza e perizia. Là per l’opposito, è un mal celato godere ed un farsi pro delle disorbitanze de’ giovani, un fremere ed un imprecare alle modernità quali che sieno, un freddo negare ed uno sterile contraddire gli altrui concetti e disegni, una cortezza e pervicacia di mente o naturale o simulata con cui mattamente ricusano di ravvisare la necessità ineluttabile delle mutazioni e i legittimi desiderii d’ogni uom giudizioso ed onesto e affogano in cuore ogni senso ed ogni intelletto di quelli che debbon chiamarsi arcani indovinamenti e presagi delle novelle generazioni.
§ XI. Or non avvi dopo ciò ragione valida di sclamare, o secolo imprudente e albagioso, cotesta è dunque la tua sapienza? E a dire il vero, in tal controversia, quale appunto ve l’ho colorita, già non vengono a cimento i pareri, ma le passioni; nè i sistemi sono che luttano ma le cupidità e gl’interessi; nè gli ottimi nella scienza, ma i primi nelle fazioni. Veri sapienti quali sarebbero. Dov’è, pertanto, io chiedo di nuovo al secolo superbiente quella schiera di probi e di saggi la qual procaccia con isforzo magnanimo di sovraneggiare le sette e purgarsi al possibile degli affetti violenti e sbrigliati e nudre in cuore saldissima e sincerissima la religione del vero, lo cerca con lunghe vigilie nelle sue ultime profondità, indaga nelle ruine dei tempi ciò che è buono da serbare e da ristorare e quello che non perisce ma si trasforma, guarda nello scomposto ed immenso fascio delle giornaliere opinioni ed immaginazioni e raccoglie a poco a poco e scevera dal rimanente i concetti sani e fecondi, li ordina e li connette, li ammenda e li riforbisce e dà loro da ultimo il moto, l’organamento e la vita; poi ne presenta il bel tutto agli uomini e loro pronunzia con fede: ecco il vostro codice o popoli, e l’itinerario e il viatico del travaglioso e comune pellegrinaggio.
§ XII. Necessità che appariscano. Occulta è sempre, e ne’ nostri giorni ancor di vantaggio, la tela dei casi che ordisce e apparecchia il destino; pur nondimeno, se l’errore nè la fortuna debbono all’ultimo governare col cieco arbitrio loro e farsi guida alle cose umane, ma sibbene la verità e la ragione, non mi par presuntuoso il dire che mai quella passionata e infeconda disputazione di cui feci ritratto non avrà termine, nè il mondo civile sarà bene avviato inverso le sue perfezioni e felicità, insino a che quella schiera egregia di pensatori la quale abbiam salutata e delineata in nostro pensiero non divenga effettuale e vivente, E dileguino le contraddizioni. nè facciasi innanzi unita e ordinata e pongasi in mezzo ai due campi e lor comandi di cessare l’insano conflitto, come l’uom di Virgilio, autorevole di meriti e di pietà e il quale entrato in mezzo alla sedizione regit dictis animos et pectora mulcet. Nè per fermo alla gravezza eccessiva dei casi e alla crescente confusione degli spiriti e delle opinioni fa di mestieri che molto ancora s’indugi a mostrarsi quel glorioso drapello, desiderandosi da noi tutti che E smentiscano le sentenze di Tacito. giammai non s’avveri la paurosa sentenza di Tacito essere alle umane infermità naturalmente più tardi i rimedii che i mali, e gli Dei parere intenti non a curare la salute degli uomini, ma solo i castighi.
§. XIII. E su che altro fatto porremo buon fondamento di lieto avvenire, donde trarremo speranze ottime e auspicii sicuri di onorato riposo e di progredente prosperità pel genere umano? E sia pure che i giovani se ne diffidino e pensino con l’audacia de’ lor disegni e l’ardenza generosa de’ loro animi abbracciar quasi l’universo, trascinare i destini o far destino la voglia loro e il lor desiderio. S’elli sono dalla fantasia e dall’affetto rapiti, il simile non avviene al restante mondo; e non è opportuno confondere insieme le inclinazioni e l’indoli diversissime tra una ed altra epoca di civiltà. La scienza e non l’istinto può governare oggi gli uomini. Corsero tempi, io nol nego, ove l’istinto secreto e, come a dire, profetico delle nazioni era mente e scorta usuale dell’opere, e nulla o ben poco falliva al glorioso segno. Allora alle inchieste vive e angustiose e alla trepida aspettazione dei popoli bastava forse rispondere come l’oracolo delfico a Socrate: in ogni cosa segua il suo genio. Ma nella virilità del consorzio umano, quando gl’istinti sono o freddati o travolti e troppo la natura è dall’arte soprafatta; quando è necessità ed abito universale il molto riflettere sopra sè stesso e calcolare le utilità; quando il progredire medesimo della civiltà e de’ costumi rende complesse, intricate moltiformi ed ambigue tutte le condizioni del viver socievole, quando infine sorge da ogni lato tanta varietà, discrepanza o disproporzione di averi, d’interessi, di pareri e di officii, le nobili aspirazioni al bene e il sentimento vago e involuto della verità, congiunto eziandio con la forza e il coraggio non bastano; o solo bastono per mutare e scomporre, non già per confermare, ricomporre e riedificare; al che si ricerca principalmente o la consumata virtù dell’arte o la luce manifesta e nitida della scienza. Ella sola precorre il fatto. Ma l’arte nuda non può e non vale nelle cose nuove e intentate, perchè l’arte è figliuola e non madre dell’esperienza, ed è l’istinto e la pratica stessa, ordinata e sottoposta a governo e freno di regola. Unicamente la ragione e la più alta filosofia precorrono in parte il fatto e ne lo rivelano, pensando e ben divisando le disposizioni e le leggi esemplari di ciò che preesiste e vive in idea. Certo, quanto è più insolita e sconosciuta la via da calcare, tanto più bisognano addottrinate e avvedute le scorte; E può guidare il mondo alle novità. e perciò, s’egli è vero che l’umana progenie varca quest’oggi per un oceano pressochè ignoto e osa dire con l’Alighieri: L’acqua che io corro giammai non si corse, gran bisogno è che possa tostamente aggiungere col poeta: Minerva spira e conducemi Apollo. Occorre, cioè che la sapienza spiri l’idea; poscia l’istinto, l’arte e l’affetto la pongano in atto.
§ XIV. Qualora poi vi spinga curiosità, o accademici, di scandagliare più al fondo le cagioni peculiari ed intrinseche di questa patente contraddizione del secolo di schifare, io vo’ dire, le forti, sublimi e laboriose speculazioni, e rivolgersi tuttavolta con l’intendimento e col desiderio intorno a subbietti che inchiudono, a volerli trattare ed usare, la scienza radicatissima dei sommi veri; e come parimente sia baldanzoso di credere che ai grandi quesiti e novissimi che ogni dì propone a sè stesso intorno agli ultimi fondamenti dell’autorità, della moralità e della ragione, possa competentemente rispondere o con dottrine avventate e superficiali o col mettersi all’opera e aver proposito di edificare ciò che ancora non è disegnato in mente nè architettato, Dell’imitare i francesi. io stimo doversene cercar la ragione altresì nel facile e universal predominio che sugli intelletti d’Europa ha ottenuto ed esercitato, è già lungo tempo, una gran nazione, spesso negl’imprendimenti suoi temeraria non che audace e la cui intelligenza e il cui genio, Carattere loro intellettuale. così è inchinevole e pronto alle analisi quanto poco addatto e disposto alle sintesi, sottile, disse il Vico, a distinguere e per minuto osservare, non acuto a penetrare il midollo. Supera ognuno nella critica, è inferiore a molti nell’invenzione; ha per naturale e proprio assai più il negare che l’affermare, più il premettere che il concludere, più il deridere che l’ammirare. Utile forse per addietro, nocevole oggi. Le quali doti e disposizioni come forse vennero acconcie nel secolo andato, dove abbisognava atterrare molte usurpate autorità e primazie, e purgar le menti dalla nebbia rimasta del medio evo e scuoterle e addestrarle al lume di nuove teoriche e a non fuggire per viltà qualche paurosa sembianza del vero; così tornano improprie ed insufficienti a ricolmare il gran vuoto che nelle credenze antiche e ne’ sentimenti più puri e men materiali s’è fatto. Scienza Inglese. Nè all’ingegno impaziente e mutabile de’ nostri vicini e all’influsso non salutare di loro scuole e dottrine ha procurato schermo e compenso generale bastevole il senno inglese e il germanico; perchè quello soddisfatto dei proprii ammirabili istinti, tenace e ossequioso alle sue tradizioni, superbo e lieto della sua pratica abilità coronata mille volte dal successo e dalla fortuna, non ha stimoli nè desiderii per salire più alto alla indagazione delle metafisiche verità. Scienza Germanica. Il senno germanico, ben voi lo sapete, ambizioso per opposto di rinvenire una scienza prima e assoluta che sciolga l’enigma eterno dell’ordinatrice ragione dell’universo, parlò parole che spesse fiate al comune buon senso parvero ebbre; e tanto s’alzò ad affacciare l’ultima essenza d’Iddio e della natura che perdè d’occhio questo picciolo mondo e scordò gl’interessi e i negozii de’ suoi minutissimi abitatori.
§ XV. La caduta d’Italia funesta alla civiltà universale. Soprachè quante volte torno io col pensiere, altrettante mi confermo in credere che il cadimento d’Italia sia stato in fatto e si rimanga tuttora un grande e lacrimoso infortunio per tutto il genere umano. Carattere intellettuale italiano acconcissimo alle ristorazioni sociali. Atteso principalmente che la forma d’animo e d’intelletto sortita dagl’Italiani è acconcissima alle grandi ristaurazioni sociali e politiche, a rispetto, se non altro, dell’opera ideale ed archittetonica che quelle debbe informare e disporre. Provasi col definire qual opera di ingegno vi occorra. E veramente necessità prima e condizione fondamentale di simile opera è di sapervi far luogo con giusto assetto e con debita proporzione a tutti gli elementi e principii essenziali ed ingeniti di nostra natura e ad ogni disposizione immutabile e cardinale del viver comune; quindi occorre una vastità maravigliosa di concepire congiunta a più maravigliosa forza e maestria di ordinare ed unificare; quindi bisogna una ragione critica del passato fredda e penetrativa e certa mente presaga e divinatrice del futuro; quindi non possono complire all’uopo le analisi sottilissime, le copiose generalità e le affrettate conclusioni d’oltre Alpe, nè la scienza positiva e pratica d’Inghilterra, nè l’estasi metafisiche dell’Alemagna, ma vi si esige uno stupendo temperamento di astrazione e osservazione, di poesia e dialettica, d’ispirazione e raziocinio, di fantasia e ragione; talchè le storie e le tradizioni sieno sotto i lor veli adocchiate, i sani istinti riconosciuti e purgati, le forze innovatrici alle resistenti contrapposte e con giustezza convenevole bilanciate, scoperto e definito tra le disarmonie un accordo, tra gli estremi un mezzo, tra i contrari un accostamento e un compenso; Idea di civiltà perfetta. ed infine, se ne componga un alto concetto di civiltà nella quale nessuna facoltà ed eccellenza umana di soverchio prevalga e scompagnisi dall’altre, nessuna si giaccia compressa e aduggiata; ma procedano tutte agli eccelsi e costanti fini della comunanza sociale, tenendosi, quasi a dire, per mano, come ninfe sorelle o il coro delle celesti muse che cantando e inneggiando ascendono unite ai lucenti e beati regni del padre loro.
§ XVI. Ciò notato, ei si fa manifesto ad ognuno che la mente ritrovatrice ed architettrice di tanto sublime ristorazione civile dee non pur contenere tutte le forme e potenze d’intendere, d’immaginare, d’indurre, di congetturare e di dimostrare, ma dee possederle in perfettissima composizione e misura e come direbbe il fisico, equipollenti ed equilibrate. La quale assai rara felicità di ordine, di proporzione e di compitezza, io non dubito di asserire che è patrimonio massimamente proprio della nazione italiana. Superati noi da altri in più qualità; non uguagliati da alcuno nella buona temperie di tutte. Nel vero, ella può forse venir superata dagli Spagnuoli nella vigorezza e tenacità dell’istinto e nell’ardenza e velocità della fantasia; ovvero, dagli Allemanni nella virtù dello speculare e nella diligentissima e pazientissima investigazione dei fatti, o dagl’Inglesi nel pratico ingegno e nella profondità e squisitezza del sentimento; o alla perfine da’ Francesi nel brio e nella prontezza, nella perspicacia ed alacrità, nella indagine de’ particolari e lucidità dei giudizj, ma da nessuno per creder mio nella generale e comune forma e nel ben insieme e nella ottima rispondenza e armonia di tutte queste doti e prerogative, a cui si conviene altresì aggiungere la grazia e il fiore dell’eleganza e l’universale e finissimo sentimento d’ogni simetrica unità e d’ogni bellezza.
§ XVII. Genio meridionale e settentrionale e loro carattere. Non à la natura seminato minor varietà nell’indole e costume de’ popoli che in ogni altra fattura sua. Ciò non pertanto, egli sembra che in questa nostra Europa si distinguano e differenzino sopra tutto due grandi famiglie umane, la meridionale e la nordica, in ciascuna delle quali vive un Genio particolare, mosso da virtù innate e proprie, dovizioso e potente di specialissime attitudini e abilità e di cui partecipano in diversa sorte e misura parecchie nazioni che in lui si uniscono e s’imparentano. Io poi non m’astengo dall’affermare che i più congiunti ed intrinsecati col Genio boreale sono gl’inglesi, e col meridionale noi italiani che dalle razze latine e greche senza mezzo deriviamo. Però dall’essere noi stati quasi rimossi (or fa qualche secolo) dalla gran scena del mondo s’è originata la visibile declinazione del Genio latino a rimpetto del Bretone e del Sassone.
Risorgimento del Genio meridionale e sue opere. Ma i tempi (s’io non piglio errore) rimenano la necessità del far prevalere di nuovo il Genio meridionale per più rispetti; e segnatamente per ricondurre la scienza civile ai sommi principj, distrarre i popoli dal culto soverchio della materiale prosperità, legarli e immedesimarli con lo stato e il comune senza offesa della libertà, ricostruire nei cuori l’autorità e la razionabile religione di Cristo e altrettali intenzioni e prove laboriose e magnifiche. Alle quali tutte ricercasi (per mio giudicio) quel greco e latino sentire che il bello e il buono chiamò con un sol vocabolo, e fece smaniosi di gloria e dell’arti geniali perfino i bottegai di Firenze e i mercatanti e i banchieri di Venezia e di Genova, e ignorò sempre la feudale disgregazione e visse la vita comune dei municipj e delle repubbliche, e alla religione infine dette forma, riti, ordinamento, disciplina e unità.
§ XVIII. È magnanima impresa rialzare il senno civile degl’Italiani. O dunque magnanima impresa, santo e pietoso ardire, fatica illustre e benemerita veramente di tutta l’umana prosapie, rialzare da terra il Genio d’Italia e soccorrere e provedere all’innato suo desiderio della sapienza civile la quale è insieme il fior più lucente e il frutto più saporoso e durabile d’un’alta e comprensiva filosofia!
Non è orgoglio eccitare i buoni a volerlo e tentarlo. Odo rispondere che noi non siamo da tanto e che rivolgesi in vanità e presunzione il nudrirne speranza e mostrarla espressa nelle parole e negli atti. Nè certamente, o colleghi, il cuor nostro si eleva sino a quel termine nè già entriamo in turgidezza siffatta di spirito da stimare le nostre forze capaci di vincere la lunga e ostinatissima guerra che il tempo e la fortuna mossero e rinfrescarono a ogni tratto contra il Genio italiano. Ma che peccato d’orgoglio è mai innamorarsi della sua luce e dell’ineffabile sua maestà e grandezza, ed anche umiliato e caduto, ravvisarne le schiette sembianze ed averle per venerabili sempre e dilette al cuore, e da questo angolo della patria comune gridare con voce non timida ai prossimi e lontani concittadini: svegliatevi, risorgete e quello che il nostro tenue intendimento non osa nè insegnare nè compiere, assumete e compite voi o forti e liberi pensatori del Bel Paese? Io per me sento bene di dovermi stare fra i minimi; Ciò farà l’autore sino alla morte. e ciò non pertanto, insino a quell’ora che il gelo di morte avrà freddata e chiusa per sempre la bocca mia, giuro che mai non cesserò di esortare ogni robusto e meditativo ingegno della Penisola a fortemente applicarsi a quelle filosofiche discipline di cui niuna età è più bisognosa della presente e niuna nazione è più capace di questa nostra. Così fossemi conceduto arbitrio ed abilità di dar figura ed anima all’Italia stessa e sulle auguste sue labbra crescere suono e valore all’esortazioni e ai consigli. Desidera la facondia del Tasso e perchè. In me fosse almeno porzione alcuna di quella efficacia e magniloquenza di concetti e di stile con che il Tasso non peritavasi di far parlare la grandissima e potentissima Roma e alle sentenze argute ed artificiose di Plutarco indurla a rispondere con vittoriosa facondia.
§ XIX. Nel qual supposto io vorrei che il general sentimento delle parole d’Italia fosse in termini tali o in altri poco diversi.
Men desiderabili i tempi oscuri che gl’infelici. Io non così mi dolgo, o mie genti, de’ tempi infelici e pieni di sangue e di servitù, che ho trascorsi, come de’ silenziosi ed inerti. Perchè di questi è compagna senz’altro la viltà e l’oscurezza, dove con la somma sventura somma gloria si può congiungere. E a me che due volte ho disteso l’imperio ai confini del mondo e la fama ho prolungata poco meno che ai termini dell’eternità, Insopportabile agli italiani il non primeggiare. e in ogni perfezione civile e in ogni titolo di maggioranza e di lode ho toccata la cima, diviene oggimai importabile il vivere senza onori sovrani e non primeggiare per alcuna eccellenza e grandezza fra le nazioni. Ma pur troppo a queste non è malagevole cosa Malagevole agli altri superare il presente, a noi pareggiare il passato. il superar se stesse e riuscire migliori e più assai gloriose d’ogni loro passato; a me invece il tornare quello che fui si fa impresa difficilissima ed è speranza quasichè temeraria; e d’altra parte mi reca tedio e passione mortale il sempre vedermi scaduta e sì disuguale da me medesima.
§ XX. Le antiche memorie ci rimproverano sempre. De’ quali sentimenti, e del qual dolore io credo voi tutte partecipi, o mie discendenze, quante almeno vivete nel suolo patrio non degeneri ancora e non tralignate affatto dall’eroica mia stirpe, e non tanto mutate dall’infortunio, dall’indolenza e dalla fiacchezza che più non vi accada di riconoscere le sembianze di vostra madre e i testimoni del suo gran nome. Per fermo, possono bene i pastori della Siria e della Caldea, possono i Cofti infelici e i raminghi Berbèri pasturar le lor mandre fra le solitarie ruine di Palmira e di Persepoli e fra i giganteschi avanzi di Dendera e di Tebe o fra i diroccati peristilii di Cirene e di Tolomaide, senza avere intelletto di quel che mirano nè senso e memoria di quel che calpestano. Ma la pace e il riposo di una sì fatta ignoranza e d’una sì misera insensataggine non è conceduta a voi, miei figliuoli, le cui sventure ed umiliazioni sempre vi tornarono più pungenti e afflittive per la incancellabile rammemoranza degli avi vostri e per l’imbattervi ad ogni tratto ne’ lor monumenti seminati sopra ogni via ed avere continuo negli occhi le tracce e i segni di loro sapienza e bontà e del non pareggiato valore e della non insolente fortuna. Anzi io veggo apertissimo e in tutto l’animo me ne conforto che Intendimento degl’italiani. vostro intendimento sublime e incrollabile si è di ricondurmi ad alcuna altezza non troppo inferiore alle già possedute e pur tale che debbano le universe nazioni, ammirate ancora se non soggette ed isbigottite, ossequiarmi altamente e sclamare col mio poeta: salve parens frugum Saturnia tellus, magna virum. Difficoltà estrema di prevalere in checchessia. Ma in quel modo che io sono meglio di tutti voi consapevole e sperta delle mie andate virtù e maggiorìe, conosco altresì molto meglio di tutti voi quanto sia duro e laborioso e dai destini e dagli uomini venga avversato e difficultato il proponimento vostro di cingermi alcuna corona di mondiale primazia. Conciossiachè io discerno le cose nell’ultime lor cagioni e la mia mente e il mio sguardo abbracciano l’ampio circolo della vita dei popoli e girano velocissimi per tutta la vastità dello spazio e della durata.
§ XXI. Noi divisi, gli altri congiunti. A voi, figliuoli, spartiti oggi e disgregati in varie provincie non dà l’eloquenza dei Gracchi di possedere in comune la romana cittadinanza; nè Ottaviano Augusto correggevi tutti con un solo scettro, segnando a vostro confine le Alpi Nizzarde e le Carniche; nè la stirpe infelice dei Berengari vi ricongiunge e affratella sotto le aquile tornate al vecchio e disfatto nido. Appena un leale e strettissimo patto federativo può rendervi forti quest’oggi e sicuri a competere con l’altre famiglie umane cresciute fuor modo di territorio, d’arme, di popolo e di ricchezze. E armati e ricchi e adottrinati e civilissimi. Nè quel territorio e quelle ricchezze sono come le asiatiche e le peruviane esposte alle voglie de’ più bellicosi; nè quell’armi e quel popolo riescono incivili e barbarici e solo gagliardi per naturale virtù, ma invece con la sagacità delle leggi, con gli eserciti sterminati e con antica e provatissima arte di guerra minacciano l’altrui libertà e in molti paesi la premono e la manomettono.
Non io generosa per indole e usata ed esercitata a veder cadere e risorgere le stelle della mia gloria, non io dispero che la vostra possanza e il marittimo vostro ardimento rinasca o Genovesi e Veneziani, e voi Siculi che le angioine flotte sconfiggeste, e voi littorani del mar Tirreno e del Japigo che nelle storie leggete le maraviglie di Pisa e d’Amalfi. L’Inghilterra, signora dei mari. Ma non vi prenda vana lusinga di emulare nè ora nè poi la Roma dell’oceano che in tutti i punti dell’universo ha piantato il suo leopardo e numera più vascelli che altri popoli tartane e bombarde e la quale pur quante volte ha combattuto sui mari, di tante rostrate corone si è cinta.
L’industria e i commerci passati altrove. Rifaretemi voi quello che più secoli sono stata donna e maestra di egregi opificii, singolare d’industrie, squisita nell’arti, potente e ricchissima di commerci? Tornerà l’oro d’Europa a rigirare in massima parte sui banchi da me aperti e a maraviglia provveduti in Francia, nella Fiandre, in Inghilterra, in Levante? Tornerete voi nelle mie mani gli aromi, le spezie, i gioielli, le perle, i preziosi velli e gli altri tesori dell’Indie? Mi ridarete mezzo il possesso del golfo Arabico e legherete ai miei patti ed ai traffichi miei le strade e i porti d’Egitto? Rifaretemi voi signora dell’Arcipelago; ricondurrete le mie colonie nell’ultima Chersoneso e le stanzierete nel bel mezzo dell’invidiata Costantinopoli e sull’una e l’altra riva del Bosforo? E protetti e perfezionati da scienza, armi e fatica. Ma le dovizie e le industrie non pure son trapassate altrove e moltiplicate e quivi s’affinano a mano a mano e in portentosa maniera col sudore e l’arte d’innumerevoli generazioni, ma son difese e protette continuo con le spade e le flotte, e insieme da una solerzia vigilantissima sono in perfezione serbate. L’Oriente ci è chiuso. Altre bandiere venera e teme ora l’Egitto, altri naviganti il Nilo, altri visitatori quell’Istmo, altri padroni le Indie? Il suono dell’armi loro e il pondo di lor fama e potenza già si fa sentire e valere laddove appena rischiava d’imprimere alcuna orma il mio Marco Polo, ed anzi in quelle regioni medesime di cui solo per udita prendeva egli notizia e all’attonito emisfero la ripeteva.
§ XXII. L’America non ci appartiene. Delle mie colonie veggo perduti persino i vestigi e spenta per poco eziandio la memoria, e le forestiere in quel cambio occupare da tutte parti i mondi novelli che il genio de’ miei figliuoli non per mio profitto scopriva. Una seconda Inghilterra, una nuova Spagna, un’altra Orléans, un’altra maggiore Olanda, una maggior Lusitania sorgono laggiù prosperevoli e copiose di città e di popoli. Ma non s’incontra borgata, per umile e angusta che tu te la finga, la quale sia segnata dal nome mio, o spieghi alcuno de’ miei vessilli, o da me si pregi di sortire l’origine, o faccia intendere i suoni e le voci della mia lingua. La nostra lingua imprigionata nella penisola. Dolcissima lingua che stillò nelle umane orecchie un’affatto inusata, anzi inaudita armonia e parve con Dante e gli altri stupendi dettatori appresso venuti meritare e salire a divini onori; e ciò non ostante, non la scorgete voi, miei figliuoli, necessitata a cedere luogo e dominio alle tanto men belle e meno illustri di lei? e mentre dalle plaghe settentrionali una loquela di schiavi procede innanzi dove la portano le tartare lance; mentre alla lingua del Cid, che i miei poeti e scrittori aiutarono a riforbirsi, dà il nuovo emisfero regioni immense da possedere e da dilatarvisi; mentre nei lontanissimi continenti e persino dove eccheggiò l’abbondevole e melodiosa favella del Ramaiana e della Sacòntala chiocciano e sibilano le voci britanne, appena è conceduto a me di tener vivo e onorato il mio sonante e vaghissimo idioma nei termini della Penisola.
§ XXIII. Nè per tutto ciò io v’ho descritto partitamente e alla distesa, ma solo accennato e di fuga gl’impedimenti e gl’inciampi e quasi non dissi i legami ed i ceppi che stringono da ogni banda la rinascente mia gloria e s’affaticano di spennarle le ali e chiudere al suo volo ogni spazio. E pur nondimeno, o figliuoli, se la liberalità e sapienza de’ vostri padri ricorderete e il magnanimo lor sentire e volere sarà in voi trasfuso e con nodi non risolubili a voi congiunto ed inviscerato, io v’indicherò e segnerò chiaramente una via, penosa del certo e non breve, ma diritta e sicura di fare me madre vostra ancor venerabile e ancora eminente fra le nazioni.
§ XXIV. Ogni grandezza legata con la fortuna, salvo quella dell’intelletto e dell’animo. Per fermo, se il primeggiare nelle ricchezze, ne’ commerci, nell’armi, nelle conquiste, e se il divenire formidabile a tutti per numero di navi, ampiezza di provincie, frequenza di popoli, naturale fortezza di luoghi non può succedere senza favore e concorrimento della fortuna e vi si ricerca il lento operare del tempo e degl’istituti, la grandezza invece dell’animo e dell’intelletto quasi al tutto si sottragge all’impero veemente e mutabile delle materiali e fortuite cagioni. Quindi non è impossibile ad alcun popolo quantunque tra confini angusti raccolto e inferiore di forze a moltissimi, acquistare via via la maggioranza civile; perchè questa, benchè abbisogni d’ogni ragione di facoltà e d’infiniti strumenti ed apprestamenti, con tutto ciò, risiede come in propria sostanza e virtù nella elevazione dei pensieri e nella energia e santità degli affetti. Ogni picciol luogo come possa primeggiare. E certo, in quella picciola provincia d’Europa, (qual che si fosse e dovunque posta) la quale scegliessero di abitare gli spiriti più generosi e i più alti ingegni ed adottrinati, subito vi apparirebbe una forma di vivere singolare e maravigliosa, e splenderebbevi l’esemplare d’ogni saggezza e d’ogni perfezione civile e politica; e però a lei volgerebbersi tutti gli sguardi, siccome fanno le moltitudini al cielo, quando la insolita luce d’una cometa vi si diffonde. Ed è un vero conosciutissimo agl’italiani. E a chi può essere noto e patente cotesto vero maggiormente e meglio che a me vetustissima fra le nazioni la qual vidi per tutto il volgere del medio evo le mie picciolette repubbliche scintillare di gloria appunto come le stelle minute che solo raggiando e lampeggiando si fan manifeste? Principj di Roma e loro virtù. E qual cosa i secoli hanno rimirato quaggiù più picciola ed umile del cominciamento di Roma? Forse che io non ho sempre d’innanzi agli occhi le vaccherelle d’Evandro pascolanti sul Palatino e la villereccia pompa delle Panilie scalpitante l’erba del Foro, o mi fuggono dalla memoria i primi termini dell’imperio dal ponte Nomentano segnati? Ma in quella poca di gente avvampava più che in qualunque altra la religione e il disciplinato coraggio e la carità della patria, e viveva occulta in quei primi padri coscritti la saggezza etrusca e il senno dell’Italica scuola. Gli avanzi del senno latino rifecero il mondo. Or non son io quella dessa che tuttochè prostrata e laniata dal ferro degli iperborei e vinta e affralita dalle mie medesime colpe e sventure, pur coi soli avanzi della civiltà e sapienza latina ho dirozzato i Goti, mansuefatto gli Eruli e i Longobardi, insinuata nelle teutoniche leggi la equità del giure patrio, ricostruito il comune, combattuta da ogni parte la ferocia feudale, innalzato nella mia Roma per opera de’ miei pontefici un secondo mondiale impero che senza eserciti radunare e commetter battaglie mantenevasi venerando e temuto? Lettere e arti d’Italia. E qual nazione ha insino al presente oscurata ed oltrepassata la fama che io stesi di me per ogni contrada dai giorni di Lorenzo il magnifico a quelli di Galileo e dalla speculativa Accademia del Ficino all’operativa del Cimento? Contemporanee col suo servaggio. Eppure considerate che in sì lungo intervallo di tempo io fui dalle genti forse più avare e orgogliose d’Europa corsa, manomessa e spogliata. E mentre in Vaticano compievasi il maggior miracolo dell’arte moderna e le tavole della Cena e della Trasfigurazione lasciavansi indietro la stessa greca eccellenza; mentre Lodovico e Torquato, l’uno ad Omero, l’altro a Virgilio sedevan da presso; mentre infine tutta la faccia dello scibile si rinnovava e la sperimentale filosofia non pure nascea grande ad un tratto e senza conoscere fanciullezza, ma d’un sol passo toccava l’ultima perfezione dei metodi, io misero campo di battaglia divenni alle armi non mie, ed anzi fui posta, o cocentissimo dolore e vergogna! a premio del più valoroso o più assortito e scaltro degli invasori. Quindi ossequiata dagli oppressori. Ma fra tutti essi, ciò non pertanto, durava la maestà del mio nome e invidiabile lor riusciva più assai che immitabile la originale vaghezza e il pregio novissimo delle mie arti e delle mie scienze; e la fronte superba dei vincitori inchinavasi per involontario atto d’ossequio dinanzi ai vinti ed ai servi. Se non che, a me non bisognano esempii tanto remoti per infiammarvi, o cari, all’acquisto della migliore civiltà che è quella dell’intelletto e dell’animo. Bastimi di rivocare alla vostra memoria la violenta fine del secolo andato e il principiare non men procelloso e vario di questo che al suo mezzo è pervenuto.
§ XXV. Poi sprofondò nell’ignavia. Già la fortuna coi suoi più cari presenti e la forza e il coraggio coi loro; già la copia di tutti i beni, l’altezza di ogni impresa, la gloria d’ogni trovato, il fiore d’ogni dottrina, l’eleganza stessa e l’amabilità dei costumi e dei socievoli usi pareano da me far divorzio perpetuo e voler dimorare per sempre ed unicamente di là dall’Alpi, crescendo tanta luce e decoro agli strani quante ombre e sfregi si addensavano sul capo mio; talchè il mio nome (oh! somma miseria) era oggimai ricordato all’Europa e raccomandato dai soli gorgheggi e dalle lascive movenze dei cantori e dei mimi. Allorquando alcuni de’ miei, severamente allevati nell’osservanza perenne e nell’amore non estinguibile inverso di me madre loro infelice e derisa, costrinsero per sola altezza di intelletto e di scienza ogni circostante nazione a pur confessare ch’io nel sepolcro non era discesa e adagiata e meco viveva altero e indomabile il Genio che dalle stelle ho sortito.
Ma pochi sommi intelletti camparonla dal vituperio. O Alfieri, o Canova, o Filangieri, o Lagrangia, e tu Beccaria dell’umanità propugnatore e maestro, e tu Volta e tu Spallanzani e voi non pochi e di poco minori a cotesti sommi e che tutti chiamare saria soverchio, voi soli mi campaste dall’universale dispregio; per voi fu provato e ricordato agli uomini che dell’eccellenza civile possono mai sempre i figliuoli miei ripigliarsi gran parte, e qualunque delle cadute preminenze ricuperare. Perlochè, non mi si fa lecito d’istituire alcun paragone fra voi ed altri massimi ingegni che al buon tempo fiorirono e forse recaronmi titoli più segnalati d’onore. Più cari, perchè comparsi nella sventura. Voi nasceste consolatori dell’ultima mia vecchiezza e infelicità, come Lavinia ad Anna infeconda e canuta, o meglio, come la forte Camilla che il re suo padre nella sventura e nell’esilio accompagna. Però non si chieda oggimai da alcuno quello che portano i fati e se nella mia decadenza è possibile tuttora il raggiungimento delle più difficili mete e il competere con la fortuna e l’orgoglio altrui. Conciossiachè l’arringo o mai non fu chiuso o dai sommi e pietosi ch’io testè ricordava fu alle presenti generazioni riaperto ed apparecchiato.
§ XXVI. Se non che travagliandovi voi, mie genti, e da capo sudando a rinnovellare e aggrandire cotesti esempi, curate con massimo studio e virtù che non gl’intenebri e guasti, La sapienza vuol essere difesa. come altra volta, la fiacchezza e l’accidia e le gare intestine e il vivere scorretto e lascivo. Pallade, ben vi è noto, armava il petto della Gorgone e brandiva la lancia e su dalle rocche del cielo fulminava insieme col padre i Titani. Limpidissima allegoria la quale, anzi tutto significa che gli studii vogliono esser difesi e che la sapienza e la civiltà imbelle o non dura o si corrompe o serve d’acconcio strumento all’altrui prepotenza. Alzate l’animo adunque al par dell’ingegno e tornando a spaziare nell’antica luce e grandezza intellettuale sappiate per dio meglio serbarla e schermirla. Esempj di scienza e virtù civile unite. Ripigliate le penne del Macchiavelli e del Guicciardini; ma non vi basti di dar col primo i precetti del ben guerreggiare, e col secondo di ordinare i maneggi d’una ingloriosa luogotenenza. Sovvengavi in quel cambio la bravura di Senofonte e la rittratta de’ suoi dieci mila e Polibio che detta le storie, dopo aver battagliato a fianco di Pilopèmene, e Cesare dittatore che i proprii gesti racconta per guisa che a nessun altro scrittore lascia speranza di emulazione. Stendete le mani, o vaglia il vero, di stenderle procacciate con insigni fatiche al compasso di Galileo, ai calcoli del , ai penelli e alle squadre di Raffaele di Tiziano del Paladio e del Buonaroti; ma non vi cada della memoria quel mio vecchio Archimede che volge i prodigi delle fisiche a difesa e scampo della sua patria, e vi giovi d’imitare il buon Michelangiolo che assottiglia l’arte e l’ingegno per incastellare Fiorenza e dalla rabbia di Carlo V e dal parricidio di Clemente aiutasi di salvarla. Piacciavi bene di suscitare le ardite e feconde cogitazioni del Cardano, del Pomponaccio, del Telesio, del Bruno, del Campanella, ma pensate a Socrate che strenuamente combatte nei campi di Delio e di Potidea e ricordivi Scipione Emiliano che sconfiggendo Macedoni e Liguri s’erudisce con Panezio della stoica filosofia ed il padre suo Paolo Emilio che con le muse di Terenzio e coi libri di Possidonio cresce gli ornamenti della vittoria, e Lucullo che sotto le tende e fra l’armi disputa con gli accademici del criterio del vero e Varrone infine il dottissimo di tutti i romani che milita sotto le insegne del Senato accosto a Porcio Catone per tenere in sustante la libertà.
§ XXVII. La sapienza pertanto e le armi sieno vostro amore e studio perpetuo e voi vi rifarete maestri del viver sociale e Pure la fortuna segue i magnanimi. la fortuna medesima a poco a poco, secondo che usa, piegherà il volo dal lato vostro, perch’ella pure è serva del senno umano e della umana energia; e già i miei romani non dubitavano in ogni estremo frangente d’invocare e sperare nel nume suo, fatto più fedele e costante di tutti gli Dei. La filosofia civile nacque in Italia e non vi fu oziosa. Intendete concordi alle armi ed alla sapienza ed a questa ponete saldissimo fondamento la filosofia civile che è la nobile speculazione la quale di fuor non ci venne e non fiorì tra noi solitaria ed oziosa, ma nacque in Crotone e crebbe in Reggio, in Agrigento, in Metaponto, in Elea, in Locri, in Tarento tra i marziali esercizii e la istituzione delle repubbliche. Ella, io nol nego, errò di poi pellegrina tra le forestiere nazioni e insegnò loro le arti, che a me furon native e domestiche, di regger lo Stato e scuoprì le fonti e mostrò le ragioni d’ogni privata e comune eccellenza e prosperità. Ma gli oltramontani sembrano fastidirsi alquanto di lei, nè più lodano, Non bene studiata oltremonti. anzi nè più raffigurano il suo verginale sembiante. Certo, stranamente la offende e combatte dove la impazienza e la boria di smodati cervelli, dove il troppo addentrarsi e piacersi nelle faccende meccaniche e dove la sfrenata ambizione e temerità della stessa speculativa. Però se il caldo e maternal desiderio non mi fa gabbo, e s’io son usa a notare e conoscere molto di lunge i segni e gl’indizi de’ massimi accadimenti, Torna alla sede antica. io scorgo quella nostra divina esule ritrovare alfine le orme de’ primi suoi passi e con l’augusta bellezza del suo volto immortale allegrare le terre ed i popoli ove s’ebbe la culla e i primi onori raccolse. Apparecchiatele le vie; tutte le porte dell’Accademie, tutti i sacrarii delle scienze schiudetele e il nobil freno degli studii nelle sue venerande mani ponete. Torna l’esule divina, augurio e principio d’ogni italiana risurrezione; e perchè mai non cessi d’abitare, o figliuoli, in mezzo di voi e con parentevole affetto parlarvi e chiamarsi vostra concittadina, questo serbatevi impresso nel più alto luogo della mente ch’Ella Fa dimora abituale tra gli onesti e i generosi. non fa dimora abituale e gioconda se non fra gl’ingegni intemerati ed austeri, e fra gli spiriti animosi e gagliardi, nemici di basse ed avare voglie e giurati al culto della patria e della libertà.