Novelle lombarde (Cantù)/La Setajuola
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LA SETAJOLA
O virtuoso popolo, o santo, |
C. Destefani |
Tra le rusticali faccende nessuna riesce così gioconda a vedere come quella del filare la seta. È una sollecitudine regolata, un vivacissimo movimento, una pulita attenzione; una fatica non sordida, e rallegrata dall’idea di un felice guadagno e del sostentamento che ne ricavano tante e tante famiglie e interi paesi; talchè rimane gradevolmente commossa l’anima di chiunque sia punto avvezzo a meditare su ciò che lo circonda, a compiacersi del buono, ancor più che del bello.
Gran comitiva di donne, zitelle le più o fresche spose, nel calore della stagione cocente, dinanzi al fuoco ed alle caldajuole fumanti stanno lavorando, chi a svolgere gli aurei fili dai bozzoli, chi ad inasparli, mentre altre vanno rattizzando la vampa, o sciacquattando la bacaccia, o levando il saggio sul provino; e chi a pesare, a rimondare, a distribuire.
— Che pena! che noja!» direbbe il cittadino, per cui è beatitudine l’ozio; e crederebbe che deve tra loro regnare un dispettoso silenzio, una pazienza irosa. Tutt’al contrario. La gioja più vivace signoreggia nella filanda: qui racconti, qui motti arguti, qui singolarmente allegre canzoni, mal frenate dal severo piglio del padrone, che nei lauti ozj e nelle pingui speranze di lucro, trova a ridire che le assidue lavoratrici si ricreino dallo stento, cantando con quella serenità che è prodotta dalla gioventù, dall’abitudine della fatica, dalla pace di chi nel poco si appaga, e credesi nato per lavorare.
Molte di quelle donne vennero di lontano, abbandonando casa, parenti, conoscenti, amori, per mettersi qui alla soggezione, al calore, alla fatica: ma sanno che, per quel tempo, sollevano dalle spese le povere loro famiglie; sanno che alla fine riceveranno una ricompensa; scarsa se dovesse contarsi coll’occhio dell’uomo agiato, ma larga ai modesti desiderj; sanno che la recheran alle case, ove già calcolarono qual porzione darne alla madre pe’ suoi bisogni, mentre coll’altra si rinnoveranno, questa un guarnellino, quella un grembiule, l’altra gli ori, l’altra la tela da ammanire le biancherie pel venturo carnevale, quando andrà sposa al giovane che le parla.
Ma tra questa laboriosa allegria stavasi pensosa la Laurina nella filanda di***. Maritata da pochi mesi, pure non aveva intorno quei guarnimenti, onde le pari sue amano rinfronzirsi anche nei disordine di quella fatica: ingegnavasi di parer gaja, ma l’animo non glielo consentiva; se rideva, il riso non le passava la gola: cominciava anch’essa la canzone colle compagne, ma dopo il primo ritornello era ricaduta nel silenzio.
Eppure soleva essere tutt’altra gli anni precedenti, quando ella era l’anima dell’operosa brigata: cara ai padroni perchè attenta, abile e destra; cara alle amiche perchè sincera, gaja, cuorcontento. Adesso, non appena la campanella dà il segno del riposo, balza a scatto dal posto suo, non siede nei garruli crocchi ove le altre si aggruppano a far le comarelle, a contare lungamente le vicende proprie e le altrui, i semplici casi, le semplici riflessioni, e a saporar quel po’ di pietanza che mandò loro la madre, condita dalla gioja e dall’appetito. La Laurina all’incontro toglie la sua scodella di minestra e se ne va; nè torna più se non quando le camerate già sono rimesse alla bacinella, tanto che i padroni l’ebbero più d’una volta a rimproverare di negligenza. Ed ella rispose: — Hanno ragione»; e gonfiandosele gli occhi, tacque, e ripigliò più solerte il lavoro, per rifarli di quel minuto che ha sciupato.
Ma dove va ella?
Se tu ne richiedi il padrone, sorride, e ti domanda celiando se te ne importa forse perchè essa è belloccia.
Disgustato, ti volgi alle compagne, e le ingenue esclamano: — Eh, povera tosa! ha pur dato la testa in un cattivo muro! mah!» e ti lasciano più curiosa di prima.
Al tocco di domani appostiamola. Ecco, all’usato esce; in fila un viottolo che sbocca alla borgatella qui vicinissima, e lungo la via essa pilucca dalle spinose fratte il lazzo prugnuolo e le more, e se le mangia con pan di melica, — sgigliola pane risecchito e more e prugnuoli, nel mentre si reca in mano intatta una scodella di minestra, la cui tepida fragranza deve agguzzarlene il desiderio.
Quella straducola riesce appunto alla sua povera casetta, sulla soglia della quale sta un uomo, strambellato nel vestire e pien di lordume, dondolandosi sopra un piede, appoggiato allo stipite della portella con una mano alla cintola, l’altra nel giubbone; e fuma una pippa di corno, e guarda. Tutto annunzia in lui la disadattagine e l’abitudine dell’ozio: scaruffati i capelli; sciamannata la giubba che slabbra da tutte le parti; grinzose le calze e a bracaloni; e dal suo occhio trapela quell’isvanita ilarità che sul volto improntar suole il turpe vizio dell’ubriachezza.
— Oh sei qui finalmente?» grida egli incontro alla Laurina, come appena la vede spuntare. «Ove diascole ti sei badata fin adesso? È mezz’ora che è scoccato il botto, ed io ho una fame che la vedo. Dà qua».
E così, brusco come rasperella, le toglie di mano la scodella, e si trangugia la minestra. La Laurina, cortese quanto sa, scusasi con lui, e lo carezza, e — Vedi? non la mangio io per darla a te.
— Oh sonate campane! vuol farsi merito d’una straccia di zuppa? Puh! bada a non sudare. Non è forse tuo dovere?» soggiunge colui con un ghigno disvenevole.
— Sì (risponde la Laurina) ma con patto che ti comporti da bene. Sei stato al vinajo stamattina?»
— No.
— Davvero no
— No... E poi, sì: ci sono stato: ho bevuto prima un calicino di acquavite, poi una mezzetta, e ho speso il mio santo. Voglio andarci quando mi gira, e so camminar senza falde, e tu non mi devi dottorare addosso, e se non ti piace ricorri. Ecco, ci sono stato e ci sarei rimasto a bere a rigagno, se l’oste non avesse scritto sul banco Oggi non si fa credenza. Ma non avevo più un becco d’un quattrino. E sicchè, quando me ne porterai tu?
— Non te n’ho dato anche sabato? Che n’hai tu fatto?
— Oh l’è garbata! mi bruciavano addosso, e gli ho bevuti su; e ti so dire che mi fecero pro. Volevi che murassi a secco?»
E dicendo sghignazza; e la Laurina a piangere, ed esso a berteggiarla. — O che? piagnucoli? Già tu le hai in tasca le lagrime, tu. Sta a vedere: o che le parole ammazzano? Piagnucoli perchè ti vedano cogli occhi rossi, e ti dicano: O sposina, cos’avete? e tu: L’è il mio Tita che fa il matto. Oh...» e fiottando le misura un manrovescio, scagliando una dovizia di cancheri e di rabbia.
Ma essa lo accarezza, e, dolce come una melappia, — Quando mi hai intesa mai nè tu nè alcuno a dir così? Se ti voglio bene il sai: quel che fo per te lo vedi.
— Di belle cose vedo io: sì, di belle cose! Il passato non mel ricordo: il vino m’ha fatto andare la memoria in acqua. Ma io voglio il presente: capisci? il presente. Ho sete, e l’acqua fa marcire i ponti. Voglio quattrini, perchè in fin dei fini ho da vivere anch’io; (e seguita quel gattiglioso con tono crescente) se udrai che avrò fatto qualche cattiva azione, la colpa di chi sarà? E se...
— No no, caro mio: ti calma; non mi far disperare; te ne darò. Oggi è giovedì: doman l’altro mi pagheranno, e faremo metà per uno. Ma per amor di Dio sta buono; non far del male, non rubare, non contrar debiti, e ricordati del Signore. Me lo prometti?»
Quel ghiotto, sotto la mano della moglie ammansito come una fiera da colui che le porge il cibo, la guarda con certi occhi rimbamboliti; e soggiunge: — Sì; starò quieto, farò bene. Ma tu vedi: le tue sono promesse di là da venire; e a me occorrerebbe ora qualche soldo. Guarda: a rovesciarmi non ho il seme d’un bezzo».
La Laurina si trae di tasca una mezza lira, e gliela mostra come si fa per mettere in sapore i fantolini, e — Te la darò per te: ma mi devi promettere una cosa».
L’occhio di lui s’è fatto di fuoco al mirare quella moneta. — Sì, sì; ti prometto: che cosa vuoi? dammela tosto.
— Promettimi (ella ripiglia) che oggi non andrai dal vinajo. Hai quella sottana che, già quindici giorni, ti hanno data a rattoppare. Lavora oggi a quella, domani ti pagano: hai que’ denari, e poi anche questi.
— Sì, dici vero», soggiunge colui, e sghignazzando le ciuffa la moneta, e si dà a ridere a scroscio, e beffarla, e saltabellare, e intonar una canzonaccia. In quella suona la campanella che richiama le filatore al lavoro: la Laurina, asciugandosi gli occhi e dimenando il capo, si avvia di gran passo là, dove certo il soprantendente la rimbrotterà di questo ritardo; e il marito suo gongolando si difila alla méscita del vino, e accolto fra i benvenuto d’altri beoni che giocano alla mora, sbatte con trionfo la moneta sul deschetto dell’ostiere, e — Qua un orcioletto della vostra sciacquatura di bicchieri».
Sin dalla fanciullezza cominciò quel tentennone a piacersi del far nulla; e in questa inclinazione lo secondò il cieco amore della madre. Suo babbo voleva avviarlo a lavorare la campagna come lui, ma non ne poteva trarre costrutto; e la madre gli diceva: — Non vedete com’è pochino? non ha quelle spallacce digrossate coll’ascia, quelle manacce che avete voi, da fare la talpa e zappare la terra. Avreste a volerlo accoppare il poverino».
Il padre, per amor di pace, lo mise sotto un ferrajo: ma anche qui bisogna adoperar la schiena, e a colui il far nulla era una sanità. Dunque da capo a mutare; lo allogarono con un sartore; ma neppur questo basto non gli entrando, egli salava di spesso la bottega per andar a gironi, gingillar sulle piazze, foraggiare pei campi, tendere varchetti alle lepri, alleggerire i peschi e i tralci. Suo padre si rodeva il cuore, lo rimproverava, lo batteva perfino; ma la madre, — Poveraccio, tu se’ magro spento! Mala cosa! ti rintichiscono in quella bottega: hai bisogno d’un po’ di svago. Tè»; e gli dava un cinque soldi per andare a confortarsi alla bettola con un bicchierino (diceva ella) di quel che rimette in gamba. Appena pigliò pratica in quei brutti luoghi, Tita saltò la granata; giacchè il vizio è come la quartana: presto si piglia; ma a sradicarla ti voglio.
Quindi ogni bricciolino egli tornava a stuzzicare sua mamma per qualche soldo: ed essa gliene dava di quelli che ritraeva dal vender le uova e i pulcini; ma sì! non sarebbero bastati se le chioccie avessero fatto tre volte al giorno. Allora dunque che non poteva smungere nulla, il tristanzuolo ingrugnava che non si poteva aver bene di lui; stava sulle picche e sui dispetti, non voleva saperne di bottega e di obbedienza: se sua madre lo sollecitava d’andare a messa e a confessarsi, gli rispondeva altro se non — Datemi dei quattrini».
Poi, vedete come si riesce da un primo passo in traverso; una volta si trovò scorbacchiato dai compagni che, sapendolo all’asciutto, per fargli izza gli dicevano, — Ehi, Tita, non ci stai più al bicchierino? non vuoi fare una partita alle palle? una partita e un fiaschetto?» Egli, entrato in casa di una vicina, le tolse un agone d’argento, di quelli che s’infilano nelle trecce, e n’ebbe quaranta soldi, che succiò coi camerati.
La vicina, accortasi, ne levò rumore: la madre di Tita procurò parar via la cosa, e sarebbe riuscita a rimpaciarla se il segretario comunale non ne avesse avuto sentore; sicchè lo denunciò alla giustizia, e a Tita toccò la prigione.
Capite? la prigione come a un ladro.
Fortuna che, tra il perdono della vicina, tra le preghiere della madre, e l’essere la prima volta, e il ricoprirlo come ubriaco, ci fu messo una toppa, onde, pochi giorni apresso, il signor giudice il rilasciò dandogli una seria paternale, e il precetto di più non metter piede all’osteria.
Venuto fuori, la lezione era stata di tal qualità, ch’egli parve aver messo giudizio, e babbo e mamma ne stavano consolati. Ma come la gramigna ricaccia se non è svelta dalle radici, così il vizio. Un giorno le vecchie praticacce di Tita stavano battendosi alla mora sulle pancacce dinanzi alla bettola, E vedendolo passare, — Ehi, Tita, vuoi fare il quarto? o sei ridotto al moccolino? C’è un vinetto da risuscitare un morto».
Egli ci pensa, — E perchè no? finalmente trattasi di una volta. E se nol fo; costoro mi fan martire».
Si giuoca; se ne fa portar una mezzetta, poi un’altra: quell’urlare villano dà buon bere. Il primo sorso sapeva d’amarognolo a Tita, ricordandosi la gabbia; ma pensava: — Tanto non è che un bicchiero: poi all’osteria proprio non ci vo».
Al secondo colpo non fece così brutto ceffo; al terzo allappò la bocca dicendo — Come è buono!» e in quattro e quattr’otto si trovò brillo e spensierato. La mattina, quando la balla fu smaltita, egli sentivasi scontento di sè; rinnovava mille bei propositi; ma alla bass’ora, per caso, tornò a passare di là, e guardare ustolando, e quegli oziosi ad invitarlo a giocare ai tresetti. Nicchiò sulle prime, ma quelli lo presero a berteggiare e, — Che? sei forse sul lastrico? non hai più gajo il taschino?» Messo al punto, egli giocò e bevve. Altrettanto al
domani: poi, bever fuori e bever dentro dell’osteria (pensava egli) non è tutt’uno? Entrò; alzò il gomito più del bisogno; tornò a casa tardi e colle traveggole.
I genitori s’accorsero d’essere alla cantilena di prima; il padre dava nelle furie, ma la madre lo assonnò, e gli diceva: — Sapete che? diamogli moglie, e metterà giudizio. Quanti col tôrre moglie son diventati tutt’altri!»
Il padre, facendo spallucce, rispondeva: — Fate voi». La donna allora pose gli occhi sopra la Laurina; una buona ragazza; un angelo in carne. Aveva costei una nidiata di fratelli; onde i suoi, che erano povera gente, non vedeano quell’ora benedetta di darle il cristiano, pur che sia, per poter dire, — E una.
Veramente quando la mamma di Tita ne fece la chiesta, il maritarla a una stirpaccia di così cattivo nome pesava non poco ai parenti di lei: ma la madre di Tita li confortava. — Sì; ha dato quello scapuccio. Eh! ognuno una volta o l’altra ha da scorrer la cavallina. E chi rompe la cavezza da giovane, riesce poi un uomo come si deve. Adesso, credetemi, ha messo testa; ha un buon mestiero per le mani: del suo cuore poi non vi dico altro. Chiedetene e domandatene a chi volete».
Quelli in fatto cui domandavano, per paura di mormorare, non c’era bene che non ne dicessero, ed era fin troppo per contentare i genitori, il cui scopo astratto è sempre di dar marito alle ragazze. Alla sera dunque la madre domanda a Tita: — Prenderesti moglie?
— Perchè no?» risponde questi, immelensito dal vino. «Ma chi ho da togliere?
— Ti piacerebbe la Laurina del Forno?»
— A me sì».
Al domani Tita, rimpulizzito e colla gala smerlata e colla scatola del tabacco, siccome usano qui, andò a trovar la ragazza, e farle le paroline. Essa non ne sapeva nulla; ma visto i parenti usargli cortesie, gliene usò anch’essa, tanto che la madre di lei corse da quella del Tita a riferirle: — Ehi, la va coi fiocchi: il parentorio si farà: le è piaciuto».
Ma quando la chiarirono che si trattava di sposarlo, Laurina diede fuori a piangere, e che non lo voleva perchè era un qua e un là, e perchè aveva rubato, e perchè bazzicava all’osteria, e perchè non aveva il timor di Dio.
Sua madre le recitò una sequenza di ragioni, una più gagliarda dell’altra; e le mostrò la povertà della famiglia, i tanti fratelli; ma essa replicava: — Vedete? non son in qua tutto il dì a dipannare seta. Lavorerò anche di più, tanto da fare le spese a me, e un poco anche a voi; ma per carità non mi affogate a questo modo».
La madre s’ingrugnò: vennero le comari a darle della pazza pel capo: — Cosa vai a rimestare, scioccherella che tu sei? Avresti a far Gesù colle due mani. Magari quante lo vorrebbero: e tu non dovresti chiamartene degna. Credi che si trovi un’occasione ad ogni uscio? Hai già ventidue anni sonati: vuoi rimanerti a spulciare il gatto? o pressumi scavizzolar un signore di carozza?»
Se ne mischiò anche il signor curato, un buon uomo, di nulla più smanioso che di vedere i giovani e le ragazze accasati, e pieno di fiducia che quel sacramento rimetta il senno a chi l’ha
smarrito. Insomma tante e tante gliene dissero, che la Laurina fu indotta a dare il sì, e l’affare si stiacciò.
Andò sposa. Il bel primo giorno, bevi e ribevi, Tita fu messo in terra da una solenne imbriaccatura. — Pazienza! sarà stata la compagnia, lo straordinario». Ma egli toccò via di quel passo; onde la Laurina fu chiara che il vizio era nelle ossa, ne le restava di che sperare. Tutto il dì a sbevazzare, tutte le sere a casa ubriaco: non c’erano più padre e madre da dargli una sbrigliata: se prima al lavoro badava poco, ora niente, e non cercava che passar la giornata senza stracca: poi cominciò a vendere questa o quella masseriziuola della moglie.
E lei? colla pazienza, colla dolcezza (povera fanciulla!) faceva di tutto per indurlo al bene. Avrebbe potuto andare da’ suoi e dir loro, — Vedete mo? non ve l’avevo detto io?» ma perchè crescere in cordoglio che già capiva che n’avevano? Taceva dunque e mandava giù; e se alcuno le domandasse, «Come va, Laurina?» rispondeva: — Bene, colla grazia di Dio»; e a Dio pregava, a Dio espandeva i suoi rancori, da Dio sperava l’ajuto.
Eccovi la storia di quella setajuola. Passò, nel modo che v’ho detto, la stagione della filanda: i denari erano consumati in erba da quel goloso: ond’ella pensa con ansietà al figliuolo che aveva da nascere; per allestire a questo le fasce e i pannicelli, non poteva essa che ritagliare i vestimenti e le biancherie sue; ma tutto era niente, purchè il suo Tita non ne facesse qualcuna: qui batteva la sua continua paura. E perciò non lo perdeva mai d’occhi; lo tenea, quand’era possibile, in casa, lì presso
di sè, a dar qualche punto lasagnon lasagnone: ma il più del tempo a far nulla, mentre essa lavorava ad accannellare seta per buscare qualche soldo, che difficilmente poteva sottrarre alla colui avidità.
Quando poi egli s’indugiava fuori, correva a cercarlo, massime alla sera, e ridurlo a casa. Se ne ricevesse de’ rabuffi, nol mi domandate, e anche peggio, perchè l’ubriaco ha perduto il più bel dono di Dio, la ragione; e più non sa quello che si faccia.
Ma un giorno fra gli altri, essendogli riuscito di trovare alcuni soldi ch’ella aveva riposti nel pagliericcio pei bisogni che prevedeva vicini, Tita, inchiodatosi nella taverna, si abbandonò al chiasso e a tracannare vino e vino, il cervello se n’era andato. La Laurina, visto farsi tardi, girò di bettola in bettola sulla traccia di lui; alla fine lo trovò che sciscinando ne diceva di tutti i colori, e attorno una fitta di bevoni, cotti al par di lui, a metterlo su e pigliare pasto delle pappolate che gli cascavano di bocca, e tenergli bordone con delle somiglianti.
La buona moglie se gli mise allato, quanto dolce sapeva, a pregarlo, ad ammansirlo, a volerlo menar via. La gente guardava, e ne facevano scene. Tita un pò e un pò sopportolla, poi sentì pizzicarsi le mani, e balzato in piedi, rosso come lo sverzino, senza lasciar brutto nome che non lo dicesse la acciuffò, e cominciò a picchiarla da forsennato.
Batter la moglie! e in que’ piedi! A quali orrori trascorre l’ubriaco! Gli avventori e l’oste riuscirono a trargliela dalle mani; essa, tutta pesta e scarmigliata uscì: colui continuò un pezzo ancora le
smanie da non si dire, poi, come succede quando la pentola pel troppo bollire trabocca, che spegne da sè la fiamma e calma il bollore, così quello sfogo fece rientrare in cervello il brutale; — Andrò (diceva) a domandarle scusa. È tanto buona! oh quest’oggi ho proprio passato i confini. Non ci voglio tornar più».
Ma come nel lago, quando ci fu burrasca, sebbene il vento abbia dato luogo e le onde si vadano posando, pure tratto tratto un’altra buffata di aria le solleva di nuovo, così accadeva nell’animo di lui. Onde, dopo quelle belle parole, ripigliava: — Ma lei, perchè la ha sempre d’arrangolare? perchè sempre mi corre tra’ piedi? chi cerca trova. Non voglio padronanze. Le ho sonato un tientamente che deve durarle un pezzo.... Infine però, povera creatura! la opera per il mio bene, e son io una bestia da legare. Basta! voglio metter giudizio. Questa Pasqua voglio fare davvero un buon bucato, e diventare un tutt’altro. No; Tita non sarà più Tita, come c’è scritto in quell’esempio che la Laurina mi leggeva sul Catechismo. — Ma intanto, la mi lasci stare; se no, vuol sentir sonare più d’un doppio; e se sta volta fu acqua, un’altra saranno tempeste».
Così berciando e barcollando fra la ragione e l’ebbrezza, fra le ispirazioni del suo buon angelo e le tirate del vizio inveterato, mosse verso casa dondolando come divincolato. Vide la Laurina entrare tutta indolenzita.
— Ecco (diceva egli tra sè) la poverina va in casa, e ci starà a piangere.... e in grazia mia». Ma poco appresso la vede uscire: ha sul braccio il fazzoletto da capo, accosta l’uscio, e se ne va.
— Ah maligna! ah vipera!» esclamava colui assaettato. «Lo so: ella va dai parenti suoi a far una scena, a svesciare quel che è sucesso. Va dal curato a farmi chiamare.... Aspetta a me! se mi fa questo, in fede mia, la fiacco di mazzate».
E a stento contenendosi, grullo grullo la séguita di lontan via. La vede passare da casa sua, e non entrarvi; passar dalla casa parrocchiale, e non entrarvi.
— Dove diamine va?»
Quattro passi fuor del villaggio sta un oratorio della Madonna addolorata, riverita con gran divozione dai paesani, e che impetra tante grazie a chi la prega di cuore.
Verso quella si volse la Laurina; e come fu presso, si coperse il capo col fazzoletto, entrò, si fece sino alle balaustre, s’inginocchiò e pregò. Tita sulle orme di lei era giunto anch’esso; poi come vide ove capitava, il suo mal genio gli diceva: — Dà di volta, torna all’osteria, che t’aspettano a finir la partita»; ma l’angelo buono gli suggeriva: — Entra tu pure in chiesa: osservala: prega anche tu».
A questo diede ascolto: e v’entrò. Non c’era anima, essendo sulla sera e buiccio: vide la tribolata, col volto ascoso nel fazzoletto e curvo sulle mani giunte. Che piangesse ne davano segno i singhiozzi, che tratto tratto la scotevano: tratto tratto ancora si udivano alcune voci che pronunziava più forti, non credendosi ascoltata: — Cara Madonna dei dolori; datemi pazienza! — Non vogliate castigarlo: non sa quello che si faccia. — Perdonategli come gli perdono io. — Toccategli il cuore:
— oh cara Madre del buon consiglio! fate che abbia a diventare un buon cristiano e timorato».
Queste voci erano tramezzate da altre, che esso non capiva: saranno state quelle preghiere che impariamo da nostra madre quando siamo bambini; quel saluto a Maria, che ripetiamo ogni giorno più volte, che forse neppure intendiamo, ma sappiamo che è una preghiera alla madre di Dio e madre nostra, affinchè preghi per noi Colui che sa tutti i nostri bisogni.
Quando Tita racconta quest’avventura, dice che quelle parole dell’offesa sua moglie lo commossero più che non avessero mal fatto le prediche del signor curato, — e neppure (aggiugeva) neppur quelle dei missionarj». E dovette essere proprio così: perchè tacente, mansuefatto, si avvicinò a lei, quasi temendo disturbarne la mesta devozione, le s’inginocchiò a fianco, e pregò. Quand’ella s’accôrse di lui, lo guardò con una meraviglia lieta e pacata, dicendo: — O Tita, anche tu?»
— Sì» rispose egli, «perdonami Laurina; e prega il Signore che mi perdoni, come io ti prometto di cambiar vita».
Recitarono insieme il rosario, poi s’avviarono a casa in pace e quiete, facendo proposito di condursi come ella desiderava.
Propositi d’ubriaco, direte voi che l’avete visto altre volte promettere e ricascare. Ma e la grazia del Signore non la valutate per nulla? Non valutate la fede con cui la Laurina aveva pregato? Ho il piacere di dirvi che Tita, secondo aveva promesso non fu più Tita. Capì qual tesoro sia una moglie buona: capì che stomachevole vizio è quel
dell’osteria, il quale, oltre lo scapito dell’anima, vi fa tenere per amici i discoli e i beoni, ed oltraggiare quelli che più meritano rispetto ed amore: istupidisce la mente, logora il corpo, anticipa la vecchiaja, una vecchiaja disprezzata, che fra i vilipendj e gli scherni trascina innanzi tempo a finire la vita, se pure si può chiamare vita quella vergognosa vegetazione.
Tita cominciò a far l’uomo posato; e starsi in casa. Oh! la casa ha una tale attrattiva in sè, che chi la gusta da vero una volta, non se ne svia mai più. Tornò affezionato al mestiero, tornò alla parsimonia, tornò alla quiete: e temperante, e assennato, stette colla moglie al bene e al male che occorre nella vita: bene che tanto s’accresce, male che s’allevia tanto allorchè si divida con una buona compagna. Egli stesso confessa che, se qualche volta (per usare la sua espressione) il diavolo lo tenta per tirarlo alle pratiche vecchie, non ha rimedio migliore che ricordarsi i pugni dati a sua moglie.
La Laurina, lieta quanto si può dire, non rifina di ringraziare la Madonna. Alla nuova stagione, eccola ricomparire alla filanda con un bambino in collo: ricomparire festiva e vivace come quando era da marito, e discorrere e canterellare.
Se mai v’accade di passare per quella borgatina, lì sul canto dello sdrucciolo a mancina, per cui dalla strada maestra s’esce ai campi, v’occorrerà alla vista una botteguccia raccoltina, nella quale una donna siede a girar un aspo, mentre un fantolino appena divezzato va baloccandosi sul pavimento coi ritagli di panno che cascano da una tavola, sulla
quale un uomo assiduamente lavora, nel tempo che fa bordone alle allegre canzoni di una setajuola. Sono la Laurina, il marito suo e il loro bambino; un inferno mutato in paradiso per la prudente pazienza di una moglie virtuosa.
1834 |