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dava un cinque soldi per andare a confortarsi alla bettola con un bicchierino (diceva ella) di quel che rimette in gamba. Appena pigliò pratica in quei brutti luoghi, Tita saltò la granata; giacchè il vizio è come la quartana: presto si piglia; ma a sradicarla ti voglio.

Quindi ogni bricciolino egli tornava a stuzzicare sua mamma per qualche soldo: ed essa gliene dava di quelli che ritraeva dal vender le uova e i pulcini; ma sì! non sarebbero bastati se le chioccie avessero fatto tre volte al giorno. Allora dunque che non poteva smungere nulla, il tristanzuolo ingrugnava che non si poteva aver bene di lui; stava sulle picche e sui dispetti, non voleva saperne di bottega e di obbedienza: se sua madre lo sollecitava d’andare a messa e a confessarsi, gli rispondeva altro se non — Datemi dei quattrini».

Poi, vedete come si riesce da un primo passo in traverso; una volta si trovò scorbacchiato dai compagni che, sapendolo all’asciutto, per fargli izza gli dicevano, — Ehi, Tita, non ci stai più al bicchierino? non vuoi fare una partita alle palle? una partita e un fiaschetto?» Egli, entrato in casa di una vicina, le tolse un agone d’argento, di quelli che s’infilano nelle trecce, e n’ebbe quaranta soldi, che succiò coi camerati.

La vicina, accortasi, ne levò rumore: la madre di Tita procurò parar via la cosa, e sarebbe riuscita a rimpaciarla se il segretario comunale non ne avesse avuto sentore; sicchè lo denunciò alla giustizia, e a Tita toccò la prigione.

Capite? la prigione come a un ladro.

Fortuna che, tra il perdono della vicina, tra le