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preghiere della madre, e l’essere la prima volta, e il ricoprirlo come ubriaco, ci fu messo una toppa, onde, pochi giorni apresso, il signor giudice il rilasciò dandogli una seria paternale, e il precetto di più non metter piede all’osteria.

Venuto fuori, la lezione era stata di tal qualità, ch’egli parve aver messo giudizio, e babbo e mamma ne stavano consolati. Ma come la gramigna ricaccia se non è svelta dalle radici, così il vizio. Un giorno le vecchie praticacce di Tita stavano battendosi alla mora sulle pancacce dinanzi alla bettola, E vedendolo passare, — Ehi, Tita, vuoi fare il quarto? o sei ridotto al moccolino? C’è un vinetto da risuscitare un morto».

Egli ci pensa, — E perchè no? finalmente trattasi di una volta. E se nol fo; costoro mi fan martire».

Si giuoca; se ne fa portar una mezzetta, poi un’altra: quell’urlare villano dà buon bere. Il primo sorso sapeva d’amarognolo a Tita, ricordandosi la gabbia; ma pensava: — Tanto non è che un bicchiero: poi all’osteria proprio non ci vo».

Al secondo colpo non fece così brutto ceffo; al terzo allappò la bocca dicendo — Come è buono!» e in quattro e quattr’otto si trovò brillo e spensierato. La mattina, quando la balla fu smaltita, egli sentivasi scontento di sè; rinnovava mille bei propositi; ma alla bass’ora, per caso, tornò a passare di là, e guardare ustolando, e quegli oziosi ad invitarlo a giocare ai tresetti. Nicchiò sulle prime, ma quelli lo presero a berteggiare e, — Che? sei forse sul lastrico? non hai più gajo il taschino?» Messo al punto, egli giocò e bevve. Altrettanto al