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Ma tra questa laboriosa allegria stavasi pensosa la Laurina nella filanda di***. Maritata da pochi mesi, pure non aveva intorno quei guarnimenti, onde le pari sue amano rinfronzirsi anche nei disordine di quella fatica: ingegnavasi di parer gaja, ma l’animo non glielo consentiva; se rideva, il riso non le passava la gola: cominciava anch’essa la canzone colle compagne, ma dopo il primo ritornello era ricaduta nel silenzio.

Eppure soleva essere tutt’altra gli anni precedenti, quando ella era l’anima dell’operosa brigata: cara ai padroni perchè attenta, abile e destra; cara alle amiche perchè sincera, gaja, cuorcontento. Adesso, non appena la campanella dà il segno del riposo, balza a scatto dal posto suo, non siede nei garruli crocchi ove le altre si aggruppano a far le comarelle, a contare lungamente le vicende proprie e le altrui, i semplici casi, le semplici riflessioni, e a saporar quel po’ di pietanza che mandò loro la madre, condita dalla gioja e dall’appetito. La Laurina all’incontro toglie la sua scodella di minestra e se ne va; nè torna più se non quando le camerate già sono rimesse alla bacinella, tanto che i padroni l’ebbero più d’una volta a rimproverare di negligenza. Ed ella rispose: — Hanno ragione»; e gonfiandosele gli occhi, tacque, e ripigliò più solerte il lavoro, per rifarli di quel minuto che ha sciupato.

Ma dove va ella?

Se tu ne richiedi il padrone, sorride, e ti domanda celiando se te ne importa forse perchè essa è belloccia.

Disgustato, ti volgi alle compagne, e le ingenue esclamano: — Eh, povera tosa! ha pur dato la testa