Novelle (Bandello, 1910)/Parte II/Novella XXXVIII
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IL BANDELLO
al magnifico
messer francesco ravaschiero
Come volgarmente si dice tutti i salmi finirsi in gloria, cosi anco si può dire quasi tutti i parlari che tra persone gentili si fanno, al fine risolversi in ragionar d’amore, come del dolce condimento e soave sollevazion di tutte le malinconie. E chi è colui che in si noiosi pensieri immerso si trovi o sia dai soffiamenti di contraria fortuna crollato e conquassato, che sentendo dire dei casi amorosi che diversamente accadeno, non apra l’orecchie e metta mente a ciò che si parla, a fine che impari alcuna cosa per sapersi, occorrendo il bisogno, governare, o noti quello che gli convenisse, trovandosi in si fatto laberinto, fuggire? Certamente io credo che sia di grandissimo profitto a l’uomo l’udire i ragionamenti altrui, mentre chi ascolta sappia, come si cava il grano fuor del loglio, sciegliere il bene dal male. Devete adunque sapere che essendo questi di una compagnia cosí d’uomini come di donne venuta qui a Montebrano a visitar madama Fregosa mia padrona, venne la nuova de la immatura morte del conte Gian Aloise Fiesco, che il mese passato in mare s’annegò. Egli ancora, per quanto se ne disse, non passava venticinque anni, giovine di grandissimo core, d’ottimo discorso ed innanzi l’etá di dritto giudizio, aiutato da le buone lettere che aveva e da l’ammaestramento del dotto e vertuoso messer Paolo Pansa. Ora si conchiuse, se in quel punto non moriva, che ei si faceva assoluto signor di Genova. Quivi furono vari i ragionamenti fatti dei casi suoi, secondo che vari erano i pareri e l’affezioni di chi parlava. Nondimeno non ci fu persona cosí de la nazion nostra italiana come de la francese, che mirabilmente non lo commendasse, essendosi molte sue rare vertú e doti raccontate e lodata la grandezza de l’animo suo, che in si giovimi età avesse da se stesso con tanto ordine disposte le cose atte e necessarie a farlo impadronire de la sua patria, impresa che non fu da tanti suoi avi, uomini savi, bellicosi e potentissimi, attentata già mai. Era ne la brigata Cataldo d’Arimini, che lungo tempo a Genova e per quelle contrade praticato aveva e domesticamente il conte conosciuto. Egli poi che ebbe di esso conte detto alcune cose, ne la fine narrò una novelletta ne la patria vostra di Chiavari avvenuta, di modo che tutti i ragionamenti si terminarono in cose d’amore. E perché ne la novella interviene uno dei vostri Ravaschieri, avendola io scritta, ho pensato che meritevolmente a voi si convenga; onde quella ho al nome vostro dedicata, a ciò che veggiate che io sono ricordevole de le carezze e piaceri da voi ricevuti cosi a Carcassona come ancora a la badia di Caones in Linguadoca, quando d’essa badia eravate governatore. Sentirete adunque ciò che l’ariminese ragionò. State sano.
NOVELLA XXXVIII
Temeraria presunzione d’uno innamorato e la morte di quello perché strabocchevolmente e senza conseglio si governò.
Voi altri, signori miei, meritevolmente avete commendato il
conte Gian Aloise Fiesco, perché nel vero era giovine che lo
valeva; ma penso che la più parte di voi l’abbia lodato, mossa
da la chiara fama che di lui e de le sue vertù e singolarissime
doti per le bocche degli uomini vola. Ma se voi l’aveste conosciuto com'io familiarmente in diversi affari l’ho praticato, penso
che tutto questo giorno non vi sarebbe bastato ad esplicar le
debite sue lodi. E se io vorrò entrare a dirle, facil cosa mi fia il
cominciare, ma trovarne il fine non so io come agevol mi fosse.
Tacerò adunque la creanza sua atta ad ogni grandissima impresa.
Tacerò come ancora quasi fanciullo cominciò a meschiarsi negli
animi de’ genovesi ed imprimer nei cori di ciascuno una infinita
espettazione di se stesso. Tacerò quella sua avanti il tempo matura prudenza, che generalmente usava in farsi il popolo di
Genova amico ed agumentare la benevoglienza de la nobiltà, di
modo che i popolari l'amavano e riverivano e i nobili l'osservavano e tulli l’avevano in osservazione. Tacerò il credilo e
riputazione che appo i paesani de la riviera di Levante e ne
le montagne verso il Parmigiano e Piacentino aveva. Tacerò che
dai sudditi suoi, ai quali di giustizia in un minimo punto mai
non mancava e nei bisogni loro soccorreva, come un Dio era
adorato e, da chi seco ne le giurisdizioni confinava, avuto in
grandissimo rispetto. Tacerò che i fratelli suoi amava come
se stesso e voleva che a par di lui e vie più fossero onorati.
Tacerò come agli amici si mostrava benevolo, domestico, facile
ed aiutore, e come acerbamente l’ingiurie vendicava. Era egli
in questo da Cesare perpetuo dittatore molto dissimile, il quale
nessuna cosa soleva obliarsi già mai se non le ricevute offese.
E perché circa questo l’istoria che io intendo narrare vi dimostrerà quale egli si fosse, io tacerò assai altre sue parti e
passerò a dirvi de l’impresa che egli ultima in vita sua ha
fatto. Né io per ora voglio disputar se sia bene o male occupar
la libertà de la patria, non mi volendo opporre a chi biasima
chi l'occupa, né a Giulio Cesare che occupando la república
partorì il romano imperio, e spesse fiate allegava il verso d'Euripide, che se la ragione deve esser violata, si deve violare per
cagione d'acquistarsi un dominio. Ci sono perciò che dicono
lui non aver occupata la patria, ma esser stato fatto da le leggi
e dal popolo dittatore perpetuo, e che non levò i giudizi né
sparse il sangue civile, anzi a molti suoi nemici perdonò. Ma
tornando al conte Gian Aloise, dico che se si considera l’impresa
che egli ha fatto ed in che tempo, che non si può giudicare se
non che fosse giovine di grandissimo coraggio e che deve esser
lodato, perché ne le cose grandi aver voluto por mano è bene
assai. Egli s’era messo a far questa impresa, essendo Carlo
imperadore armato e nel corso de le sue vittorie in Alemagna
e signore quasi di tutta Italia, levatone quell’angulo che i veneziani possedono. Egli ha i reami di Napoli e Sicilia e il ducato
di Milano in suo potere. Mantova gli guarda in viso e ad ogni
suo cenno ubidisce. Ferrara che può far altro che essergli aiu-
trice? E tanto più gli sarà, quanto che si dice che ha esso
imperadorc abbassato l’orgoglio di Sassonia e troncate l'ali a la
più parte di quei prencipi tedeschi e a sé tirato parte de le città
franche e messo discordia tra’ svizzeri. Mi direte forse che il
papa gli potrebbe far ostacolo: io non veggio che Sua Santità
s’armi né so che confederati seco siano; e la Chiesa per sé non
gli potrà far resistenza, essendo tempo adesso che l’armi spirituali — a tale siamo venuti — non si temeno quasi più. In questi
adunque tempi, che un giovanetto abbia voluto prender il dominio
de la patria dipendente da l’imperadore, arguisce veramente un
animo cesareo. E se egli non cadeva in mare, era senza dubio,
come si dice, fatto il becco a l’oca, essendosi già insignorito de
le galee e fornito due porte de la città. Considerate un poco
la capacità de l’animo suo, che tanta e si difficile impresa, senza
communicarla a nessuno che si sappia, ha molto tempo da
sé masticata e a l’ultimo digesta. Non si sa che la sera de la
notte che fece l’effetto, che egli agli invitati scoperse in parte
l’animo suo, e che dicendogli il da bene e dotto messer Paolo
Pansa, che lui e il padre come figliuoli allevati aveva, che cosa
voleva fare e che pur assai si meravigliava che non gli scoprisse il fatto, che gli rispose: — Se io credessi che la camiscia
sapesse i concetti del mio core, io l’arderei? — Il che molto innanzi era stato da Catone detto. Non si sa anco che ordinò che
a messer Andrea Doria ne la vita non si desse nocumento,
dicendo che da lui come da tutore suo testamentario aveva
ricevuti di molti piaceri? Si sa poi che al conte Girolamo suo
fratello non palesò di voler insignorirsi di Genova, ma solamente di volersi vendicare d’un suo nemico, e gli comandò che
andasse a la volta di Banchi e quivi aspettasse, ché poi gli manderia a dire ciò che voleva che facesse. Ma è gran cosa che in
questa nostra vita umana l’uomo di rado, o non voglia o non
sappia o non possa, sia o in tutto buono o in tutto tristo, ché se
pure egli voleva impadronirsi de la patria, deveva levar via tutti
gli ostacoli che a farsi signore impedir il potevano o rendergli
l’impresa difficile. Ma egli non si può interamente esser perfetto.
Tuttavia quanto ha fatto mostra il valore e la magnanimità del
suo core. E se tante parti e doti che in lui erano fossero in NOVELLA XXXV111
34.5
un vecchio, sarebbero lodate, molto pili deveno esser in uno
giovinetto ammirate e celebrate. Una sola cosa al mio giudicio
o-ji è mancata: che non è stato indovino, e provisto, se moriva, che l’impresa rimanesse ne Je mani dei fratelli con la
vittoria. Ma egli era uomo e non Dio, e un uomo ne vale mille
e mille non vagliono uno. Ora io mi son lasciato trasportare,
non so come, a parlar di questo singoiar giovine e quasi in'era
uscito di mente quello che narrarvi aveva promesso. Vi dico
adunque che il conte Sinibaldo Fiesco, oltra il conte Gian Aloise
e fratelli leghimi, ebbe in una bella gentildonna genovese sua
innamorata un figliuolo chiamato Cornelio ed una figliuola che
si noma Claudia, giovane bella ed aggraziata e di bei costumi
ed awenevole molto. Questa fu assai giovanetta data per moglie
a Simone Ravaschiero, figliuolo di messer Manfredi, uomo ricco
e dei primi di Chiavari. Fece questo messer Manfredi per due
ragioni volentieri questo parentado, si per aver il favore del
conte contra il conte Agostino Landò col quale piativa la giurisdizione d’un castello a le confini del Piacentino
(0 Fu condotta
la sposa a Chiavari, ove le nozze furono fatte convenienti a lo
sposo e a lei. Ella, avvezza a quella onesta libertà e leggiadro
praticare che in Genova usano le donne maritate e le giovani
da marito, viveva molto lietamente ed usava con tutti una domestichezza affabile e piacevole. Di lei e de le sue belle maniere
ed onesti costumi, veggendola bella ed allegra, s'innamorò fieramente Giovan Battista da la Torre, uomo di stima ed assai
ricco in Chiavari, e cominciò in ogni luogo ov'ella andava a
seguitarla. E perché la vedeva ogni giorno e seco spesso ragionava, ingegnavasi con belle parole il suo amore farle manifesto.
Ella che punto melensa non era ma avveduta molto e scaltrita,
come egli le ragionava d'amore, burlava con lui e scherzava,
ma mai non gli rispondeva a proposito e di quel ragionamento
travarcava in un altro, e gli dava sovente il giambo. Ma il giovine,
(i) 1 puntini sospensivi indicano la seconda « ragione », che fu o dal Bandèlle
lasciata nella penna o saltala via dal suo tipografo [Ed.J. 344
PARTE SECONDA
che altro cercava che chiacchiare e molti e che averia voluto
giocar a le braccia con lei in un letto, attendeva pure a dirle il
fatto suo ed apertamente discoprirle in quanta pena viveva, usando
di quelle parole che i giovini innamorati a le lor donne costumano di dire. Il che indarno il povero amante faceva, perciò
che ella non era disposta a far cosa che egli si volesse, che fosse
meno che onesta. Onde egli si trovava molto di mala voglia, e
stando le cose in questi termini, e di giorno in giorno quanto
più mancava in lui la speranza di venire a capo di questo suo
amore e posseder la cosa amata, più crescendo il disio, non
cessava corteggiarla, e quando in destro gli veniva, si sforzava
renderla capace de le pene che diceva sofferire, ancor che ella
sempre gli rispondesse d’una maniera: che ella non era per
attendere a queste ciancie. L’appassionato ed acceso amante,
veggendosi andare di male in peggio ed a le sue fierissime
passioni non ritrovando conforto alcuno, viveva in una pessima
contentezza e non sapeva che si fare. Ritirarsi da l’impresa
e più non amar colei che fervidissimamente amava, gli era
impossibile, ancora che più e più volte vi si mettesse e si
sforzasse d'ammorzar le cocenti fiamme che miseramente di
continovo lo consumavano. Talvolta nondimeno deliberava tra
sé non andare ove ella fosse, più non le parlare e fuggir
quanto più poteva di vederla; ma come poi la vedeva, subito
le sopite fiamme si riaccendevano e vie più che mai de le bellezze de la leggiadra donna invaghiva e gli pareva pure che
la morta speranza s’avvivasse. Ed alterando più e più fiate in
lui di cotal maniera questo suo amore e sempre andando di
mal in peggio, avvenne che un giorno il marito de la donna
per alcuni affari che gli sopravennero, salito suso una barca,
se n’andò verso Genova, il che intendendo Gian Battista, da
se stesso consegliatosi, deliberò, avvenissene ciò che si volesse,
di veder con inganno ottener quello che per altra via aver non
gli era possibile. La deliberazione che si fece fu d’entrar di
nascoso in casa de la donna e nascondersi sotto il letto di
quella. Né diede indugio al suo inconsiderato pensiero; ma
sapendo come stava la casa, entrò in quella e senza esser da NOVELLA XXXVIII
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persona veduto, si nascose sotto il letto ove sapeva che la donna
dormiva. Venuta la sera e l’ora di corcarsi, madonna Claudia
con 1° sua fante *n compagnia entrò in camera e cominciò a
dispogliarsi. Essendo ascesa sul letto e volendosi cavare di dosso
la camiscia, o che fosse sua usanza di far veder se nessuno
era in camera o che pure alora le ne venisse voglia come
presaga di quello che era, comandò a la fante che guardasse
che persona in camera non fosse. La fante, veduto per la camera
nessuno essere, s’inchinò a mirar sotto il letto e vedutovi uno
appiattato, diede un grandissimo grido e tutta tremante disse:
— Oimè, madonna, oimè, che un uomo è sotto il vostro letto
ascoso! — Ella che già spogliata la camiscia s'era, senza altrimenti vestirsela, se la viluppo dinanzi e saltata fuori del letto,
gridando, se ne corse giù ne la camera del mezzano ne la quale
messer Manfredi suo suocero dormiva, e quivi tutta spaventata
e tremante si ricoverò. Il romore per la casa si levò grande,
e stette ella buona pezza ed altresì la sua fante prima che potessero prender lena di parlare, tanto erano sbigottite. Lo sciagurato amante che scioccamente s’era persuaso di poter senza
disturbo giacersi con la donna, come senti quella fuggire, tutto
smarrito, aperta una finestra che guardava in un cortile, da
quella che assai alta era saltò in terra e tutto miseramente si
contorse e sciancò, e di maniera restò rotto e sciancato che
muover non si poteva. Ma un vicino corso al romore lo fece
portar via, ché altrimenti era ammazzato. Il caso la seguente
matina si divolgò per tutto, e messer Manfredi subito per sue
lettere e messo a posta ne avvisò il figliuolo che a Genova era.
Simone, avuta questa brutta nuova, al conte Gian Aloise a la
presenza di molti le lettere del padre lesse. Di questa nuova
il conte fieramente sdegnato, non si poteva dar pace che a sua
sorella fosse fatto simil scorno; ma come savio celando l'ira,
cominciò a sogghignare e per modo di gabbo a dire: — Questi
sono gli trascurati effetti che fanno questi pazzi giovini innamorati, che non pensano al fine de le cose. Gian Battista deveva
accordarsi con mia sorella e non andarvi cosi temerariamente.
Ma egli ha fatto il peccato e la penitenzia insieme, perché messer 346
PARTE SECONDA
Manfredi scrive che se vive resterà tutto de la persona perduto ed
attratto, ma che crede che morirà. — Celando adunque il conte
lo sdegno contra Gian Battista concetto, fece credere a quelli
che presenti erano che del fatto non si curava; ma egli era di
dentro d’altra guisa di quella che in viso mostrava. Onde tutto
pieno d’ira e di mal talento tra sé deliberò che tanta presunzione non restasse impunita. Grandissimi e meravigliosi effetti
si veggiono assai sovente nascere da un generoso spirito quando
egli si conosce ingiustamente esser offeso, perché l’irascibile
appetito in tal modo lo stimola ed a vendicarsi rinfiamma, che
egli non cessa mai né a modo alcuno s’acqueta fin che non si
senta vendicato, ancora che la manifesta rovina sua innanzi gli
occhi vedesse. E di questi accidenti tutto il di se ne veggiono
manifesti essempi. Ora come il conte ebbe tra sé la vendetta
conchiusa, si fece chiamar Cornelio suo fratello e Simone suo
cognato, e disse loro: — Tu hai, Cornelio, inteso lo scorno che
quel temerario di Gian Battista da la Torre ha fatto a Claudia
nostra sorella, e penso che se averai l’animo che, essendo nato
di padre e madre nobilissimi, vuole la ragione che tu debbia
avere, che con Simone t’accorderai e tutti insieme ne farete
tal vendetta quale il caso ricerca. Io vi darò due fregate bene
ad ordine, con venticinque uomini ben armati e valenti. Voi vi
salirete su, e questa notte che viene arrivarete di due o tre
ore innanzi l’alba a Chiavari. Entrarete dentro, e non dando
indugio a la cosa, anderete a la casa di quello sciagurato e lo
taglierete in mille pezzi, come egli s’ha meritato. Fatto questo,
vi ritirarete a le nostre castella, ed io al tutto poi provederò.
Se ciò che vi commetto non farete, tu, Cornelio, mai più non
mi verrai davanti né ti chiamerai mio fratello, perciò che la
prima volta che averai ardire approssimarti a me, vivi sicuro
che con le mie mani ti anciderò. E tu, Simone, noi facendo,
non ti averò mai per cognato né parente, e meno per amico. —
Promisero i dui cognati quanto egli loro comandava. Indi proveduti di quanto bisognava, essendo buon tempo, navigarono
verso Chiavari ed a l’ora assegnata v’aggiunsero. Smontati
in terra, andarono a la porta de la terra, e tre di loro, fattisi NOVELLA XXXVUI
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innanzi, chiamarono le guardie, da le quali fu loro aperto il portello. E in un tratto, calato il picciolo ponte, tutti gli altri vi
saltarono su, e minacciando le guardie di morte se gridavano,
quelle lasciarono sotto cura d’alcuni loro compagni, che anco
guardassero il portello. Poi Cornelio, Simone e il resto subito
se n’andarono di lungo a la casa del nemico loro, e con lor
ingegni gittata la porta de la casa in terra in quella entrarono,
e trovata la camera ove il misero Gian Battista tutto rotto e conquassato si giaceva, quello senza pietà ammazzarono ed a brano
a brano in mille pezzi divisero. Poi senza esser offesi da nessuno, tutti a man salva di Chiavari uscirono e secondo l’ordine
del conte a le castella di quello, per téma de la Signoria di
Genova, si ritirarono. Cotal fine ebbe la trascurata e temeraria
presunzione de l’infelice amante che, senza accordo de la donna
né de la fante, volle la sua ventura tentare e tal la ritrovò quale
udito avete. E in effetto, chi fa il conto senza l’oste lo fa
due vol