Novelle - Novella XXI - Sesto Tarquinio sforza Lucrezia; ed è cacciato da Roma col padre e fratelli, ed è dannato a perpetuo esilio Matteo BandelloBandello - Novelle, Laterza 1911, IV.djvu
[p. 57modifica]IL BANDELLO
a la molto illustre signora
la signora
LUCREZIA GONZAGA
di Gazzuolo
salute
Quando nel principio ad instanzia de la verbosissima e
molto onorata signora Ippolita Sforza e Bendvoglia io mi disposi a scriver le mie novelle, l'animo mio era quegli accidenti
di metter insieme che ai giorni nostri sono accaduti o che avvennero nel tempo dei nostri avi, a ciò che, potendo aver narratore
che le cose avesse viste o da persona degna di credenza udite,
le mie novelle fossero istorie riputate. Ma l’essermi trovato ove
casi ai tempi antichi occorsi od a l’età dei nostri bisavoli stati
si son detti, ed essendo io pregato talora di scrivergli, m’hanno
fatto cangiar openione, come potrà veder chi le mie novelle
leggerà. Per questo essendo io a Diporto con madama di Mantova, la signora Isabella sorella de l’ava vostra materna, ella
mi comandò che io prendendo le Decadi liviane, dinanzi a lei
leggessi lo stupramento di Tarquinio in Lucrezia, con la morte
di lei; il che per ubidirle feci. Ella, come sapete, intende benissimo tutte le istorie latine. Letto che io ebbi il tutto, desinammo.
Dopo il desinare si parlò assai su questa istoria da messer
Benedetto Capilupo e da Mario Equicola, perciò che messer
Benedetto molto lodava Lucrezia, e Mario diceva che ella era
stata pazza ad ammazzarsi. Questionando questi dui sovravenne
il nobile e dotto cavaliero il conte Baldassar Castiglione, al
quale madama disse quello che io aveva letto e quanto tra i dui
s’era tenzionato, soggiungendogli: — Io vedeva, quando voi séte
entrato, che il Bandello voleva entrar in sacrestia e dir sovra [p. 58modifica]5»
PARTE SECONDA
questa disputa ciò che ne dice santo Agostino nel suo dotto
libro de la Città di Dìo, di modo che si faceva un fatto d’arme.
Ma voi avete col venir vostro levato via ogni romore. Vi piacerà adunque, poi che qui séte, dirne il parer vostro. Il che
credo io che narrando tutta l’istoria come fu, ma ornandola
con quelle cose verisimili che vi pareranno a proposito, più di
leggero e con più sodisfacimento di noi altri farete. — Si voleva il
Castiglione scusare, ma non gli essendo da lei ammessa cosa che
per fuggir questo carco dicesse, a dir si dispose e narrò quanto
in questa mia novella leggerete. La quale avendo alora scritta
e adesso volendola por nel numero de l’altre mie novelle, ho
pensato non ci esser persona a cui meglio donar la potessi che
a voi. Al vostro adunque onorato nome quella intitolo e consacro, rendendomi certo che vi debbia esser cara, come sempre
aver care le cose mie avete dimostrato, ben che del mio nulla
ci sia, essendo io semplice recitatore di quanto il gentile, dotto
e facondo Castiglione disse. Spero ben tosto darvi del mio: il
libro de le mie stanze, tutto composto in vostra lode, ove vederete
come io mi sforzo a farvi immortale. Ma se al mio volere mancano le forze, averò almeno fatta al mondo nota la volontà
che ho, che le vostre divine doti siano celebrate. State sana.
NOVELLA XXI
Sesto Tarquinio sforza Lucrezia ed è cacciato da Roma col padre
e fratelli e condannato a perpetuo essilio.
Luzio Tarquinio, eccellentissima madama, poi che volete
ch’io corra questo arringo, quello, dico, che per i suoi cattivi
costumi fu da’ romani cognominato « superbo », fu re di Roma,
ultimo dei sette che dopo Romolo regnarono. Ebbe costui tre
figliuoli maschi, Tito, Aronte e Sesto Tarquini, il quale essendo
desideroso, come ordinariamente sono tutti i prencipi, di aggrandir lo stato, bandi la guerra a dosso agli ardeatini e pose il campo
a torno ad Ardea, e tra gli altri figliuoli suoi ci era anco Sesto
Tarquinio. Durando questo assedio, Collatino marito de la tanto
lodata Lucrezia romana ebbe un giorno seco a desinare, tra [p. 59modifica]NOVELLA XXI
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gli altri signori e gentiluomini, tutti tre i figliuoli del re. Quivi,
come si suole, di varie cose ragionando, cominciò ciascuno di
loro la sua moglie a lodare, quelle lodi dandole che a compita madrona convengono, volendo ciascuno che la sua fosse
la più bella, la più gentile, la più costumata e quella che più
onoratamente la casa e le cose famigliari governasse. E non
volendo l’uno a l’altro cedere e moltiplicando sovra questa questione in parole, con voglia ciascuno di vincere, mentre che
tutti erano nel dire riscaldati, Collatino marito di Lucrezia, accennando che tacessero, cosi disse: — Il questionare, signori miei,
con parole potrebbe di leggero tanto distendersi, travaricando
d’uno in altro ragionamento, che mai a fine non se ne verrebbe.
Voi direste, questi diria, io direi, e a la fine non montarebbe
nulla. Ma poi che voi v’ostinate e volete sostenere che le mogli
vostre sono le più belle, le più oneste e le più avvedute di
Roma, ed io affermo che la mia tutte l’altre di bellezza e d'onesta, d’avedimento e d’ogni altra donnesca dote di gran lunga
sormonta, e che ella è la più discreta che sia e la più compita
di tutte quelle parti che al governo d’una casa appartengono,
perché stiamo noi a badare e consumar il tempo con ciancie?
A ciò che manifestamente si veggia chi di noi dice il vero,
facciamo come io vi dirò, e lasciando il contrastare vegniamo
a’ fatti. Noi siamo giovini e per la grazia dei dèi tali che senza
periglio potiamo ogni gran fatica sofferire: ché non montiamo
noi a cavallo e a 1'improviso andiamo a veder le nostre donne
e far gli occhi nostri giudici di quello che disputiamo? Elle
non son troppo lungi e di questa nostra controversia alcuna
cosa non sanno. Noi l’accoglieremo a 1’improviso, e si ve-
derà ciò che elle sono e ciò che sanno fare, di modo che
la bellezza e i costumi loro insiememente senza fuco di simulazione si conosceranno. Alora vederete quanto la mia Lucrezia
le vostre avanzi. — A questo tutti s’accordarono, e senza voler
persona di compagnia tutti quattro, a cavallo montati, si partirono
dal campo e verso Roma a la gagliarda cavalcarono. Giunsero
a Roma ne l’imbrunir de la notte, ove Tito, Aronte e Sesto Tar-
quini le proprie mogli videro insieme con altre donne loro [p. 60modifica]6o
PARTE SECONDA
eguali in giuochi, in feste, in mangiare e bere scherzevolmente
il tempo e in lascivia consumare. Vedute queste, essendo già
notte scura e a cavallo rimontati, verso Collazia ove alora Lucrezia dimorava s’inviarono. Quivi accolsero la bella Lucrezia
che, nel mezzo de la sala tra le sue. donzelle al lume sedendo,
certi lavori di lana faceva che alora s’usavano, e tuttavia lavorando, tra quell'altre che lavoravano, de le cose del campo che
intorno Ardea sedeva domesticamente ragionava. Ella come
vide il marito con i Tarquini, levatasi in piede, si fece loro
incontro e quelli donnescamente con accoglienze a’ gradi loro
convenevoli accolse, e fatto portar da sedere, con onesti e dilettevoli parlari cominciò ad intertenergli. Il perché veduti quei
leggiadri modi con la grata accoglienza, e la divina ed incredibile bellezza di Lucrezia considerata, i tre fratelli di bocca
propria essere da Collatino vinti si confessarono e la lode de la
lor domestica contesa unicamente a Lucrezia diedero. Il vincitore Collatino disse che era tempo di cena, la qual Lucrezia
senza strepito in poco d’ora molto suntuosa e delicata fece
recare. E cosi i tre fratelli con Collatino e Lucrezia cenarono,
ragionando come si costuma di varie e piacevoli cose, di maniera che se prima avevano Lucrezia commendata, avendola
poi più domesticamente praticata, quella per la più compita
d’ogni grazia donna che veduta avessero giudicarono. Quivi,
più che non era convenevole Sesto Tarquinio la somma ed
indicibil beltà di Lucrezia riguardando, di giudice divenne amatore e cosi di quella s’abbarbagliò e fuor di misura accese, che
deliberò far ogni cosa per goder l’amor di lei. Ma perché
chiaro conosceva che le preghiere si spargerebbero indarno e
che il tentarla non averebbe luogo, sapendo quanto d’esser
onestissima era lodata, non avendo rispetto al vincolo de l’ospitalità né del parentado che era tra loro, perseverando nel suo
disonestissimo proposito, pensò di trovar qualche occasione a ciò
che quello con inganno ottenesse che sapeva non poter con
consentimento di lei ottenere. Cenato che si fu, essendo già gran
parte de la notte passata, preso da Lucrezia congedo, tutti di brigata a l’oste intorno di Ardea se ne tornarono. Sesto Tarquinio [p. 61modifica]NOVELLA XXI
non si potendo levar di core l’infinita bellezza di Lucrezia e
mai ad altro non pensando se non come farebbe per adempir
¡1 suo disonesto appetito, e quanto più su questo pensava tanto
più sentendosi di desiderio accendere di goder la cosa bramata,
deliberò, avvenissene ciò che si volessé, meschiando la forza con
l’inganno, giacersi con Lucrezia e di lei amorosamente prender
piacere. Passati adunque alcuni pochi giorni e sempre più sentendosi arder da cosi disonesta voglia, un di sul tardi, senza
far motto ai fratelli né ad altri, si parti dal campo e dritto se
n'andò a Collazia a dismontar in casa di Collatino, ove Lucrezia sua moglie dimorava. La quale veggendo il figliuolo del
re e suo parente, benignamente e con gran cortesia quello raccolse e domesticamente gli fece apprestar la cena. Egli veg-
gendosi avanti agli occhi quella che tanto goder bramava, fu
più volte vicino per forza a saziar il suo sfrenato appetito e prender di lei quel piacere cui senza pareva che viver non potesse.
Nondimeno deliberò aspettar che ciascuno fosse a dormire ed
ogni cosa in casa acquetata. Lucrezia alquanto dopo cena quello
a la camera accompagnò, facendogli tutto l’onor e compagnia
grata che a figliuolo di re era conveniente. Ora poi che Sesto
stimò che il tutto in casa fosse in silenzio, levatosi di letto, se
n’andò chetamente verso la camera ove egli sapeva che Lucrezia
albergava, e l’uscio con suoi ingegni soavemente aperto, al
letto ove ella dormiva s’accostò. Egli aveva in mano una spada
nuda e con quella avvicinatosi al letto, veggendo che Lucrezia
punto non si destava, con la sinistra mano alquanto la scoperse,
e posta la mano sopra il petto di lei, la destò e le disse: — Svegliati, Lucrezia, e taci, ché io son Sesto Tarquinio. Se tu averai
ardire di parlare, io con questa spada che in mano mi vedi
ti segherò le vene de la gola. — Ardeva in camera un picciol
lume, per il cui splendore Lucrezia cosi dormendo a l’innamorato e furioso giovine pareva più bella che veduta già mai per
innanzi l'avesse. Ora come ella si senti metter la mano sovra
il petto, subito si risvegliò e tutta tremante disse: — Oimè, che
cosa è questa? ove son io? chi è là? — Il giovine, che tutto ardeva d’amore, le cominciò a narrare le sue passioni amorose e [p. 62modifica]62
PARTE SECONDA
caramente a pregarla, aggiungendo le lagrime a le preghiere,
che seco a giacersi l’accettasse. Ma egli invece d’una morbida e
delicata donna che trovar si credeva, ritrovò un duro ed alpestre
scoglio, perciò che mai non puoté con lusinghevoli parole, con
larghissime promesse e con terribilissime minacce, né con quanta
paura le sapesse fare, indurla che compiacer gli volesse. Quanto
egli più pregava tanto più ella constante gli resisteva, disposta
prima di morire che mai violar il nodo del santo matrimonio.
Il che veggendo Tarquinio e conoscendo che cosa che egli si
facesse niente di profitto gli recava, pieno di mal talento, con
orgogliosa e minaccevol voce ¡ratamente le disse: — Io veggio,
Lucrezia, che tu prima sei disposta di morire per le mie mani
che a le mie preghiere condescendere, e poi che tanto ostinata
esser vuoi, io con questa tagliente spada che ignuda mi vedi
tener in mano ti anciderò, e poi uno dei tuoi servi, medesimamente da me svenato, appo te nel letto porrò, dicendo publicamente che io t’abbia in disonesto adulterio seco trovata e
tutti dui ancisi, per levar questa macchia dagli occhi di Collatino tuo marito, di maniera che eternamente vituperata restarai. —
A questa voce e a le fiere minacce del superbo giovine di volerle
porre appresso un servo ucciso, come se trovata in adulterio
l’avesse, il generoso ed invitto animo de la castissima Lucrezia
si piegò, non già di sodisfare al libidinoso amante ma, tenendo
sempre fermo il casto suo proposito, lasciargli il corpo in potere,
a ciò che, come giurava di fare, non l’ancidesse a lato un servo
ed il suo chiaro nome con cosi vituperosa infamia dopo la
morte rimanesse. Questa téma fu la tagliente scure che l'indurato ghiaccio del castissimo petto spezzò, non potendo ella
soffrir da pensare che dopo la morte sua simil sceleratezza di
lei fosse detta. Per questo il libidinoso giovine ebbe il corpo
in suo potere e, seco giacendo, quanto volle amorosamente si
trastullò, conoscendo perciò che quasi come con una statua era
con lei giaciuto, ché in atto nessuno né in parole se gli mostrò
pieghevole. Partissi poi il feroce e trascurato giovine, e seco
stesso de la disonestissima sua vittoria gloriandosi, in campo
ad Ardea tutto ridente se ne ritornò, non pensando di quanta [p. 63modifica]NOVELLA XXI
amarezza quel poco piacere gli deveva esser cagione. L’afflitta e
sconsolatissima Lucrezia, levatasi per tempissimo e tutta di panni
negri vestita, piena d'amarissime lagrime, subito mandò un
messo a Roma a suo padre e un altro a l'oste d'Ardea a Collatino suo marito, facendo lor intendere che senza punto tardare
eglino, con i più fidati e cari amici che avessero, a Collazia
devessero venire, ché cosi era necessario di fare, e non perder
tempo, perciò che l’era occorso un’atroce e nefandissima cosa
che dilazione non sofferiva. Il messo, usata ogni diligenzia, trovò
in Roma Spurio Lucrezio padre di Lucrezia, il quale, preso seco
Publio Valerio, uomo d’alto ed animoso core, subito verso Collazia s’inviò. Collatino insieme con Luzio Giunio Bruto venendo a Roma, fu dal messo de la moglie trovato, col quale
verso Collazia se n’andò. Era Bruto figliuolo d’una sorella del re
Tarquinio, il cui ingegno era assai differente da quello che
nel viver di fuor dimostrava, perciò che veggendo i primi e
più nobili de la città ed il suo medesimo fratello dal zio esser
morti, deliberò viver di maniera che di lui il re in modo alcuno
non avesse a dubitare. E fingendo d’esser pazzo e cotali sciocchezze mille volte il di facendo come fanno i buffoni, divenne
in modo in openione di matto che appo i figliuoli del re, più
per dar loro con le sue pazzie trastullo che per altro, era tenuto
caro. Arrivarono il padre ed il marito de la sconsolata Lucrezia
con i compagni a una medesima ora a Collazia, ove Lucrezia
lagrimante e con veste di duolo abbigliata ritrovarono. Il marito subito domandò la moglie se le cose erano salve e come
ella stava. A cui Lucrezia tutta sospirosa e di mala voglia rispose: — Marito mio, le cose mie non potrebbero andar peggio
di quello che vanno. E che cosa può esser in una femina di salvo,
come ella ha perduta la pudicizia? Nel tuo letto, Collatino, sono
impressi i vestigi d’un altro uomo che di te. Gli è ben vero che
questo corpo mio solamente è violato, perciò che mai l’animo mio
a commetter l’adulterio non ha consentito, il che con la morte
mia a tutto il mondo chiaro e manifesto apparirà. — Narrata
dopoi con molti singhiozzi e lagrime ai circostanti tutta l’istoria
del dolente caso occorso, e fatto a lor giurar di farne la debita [p. 64modifica]64
PARTE SECONDA
vendetta, a ciò che nessuna impudica mai per suo essempio
restasse in vita, deliberò se stessa con le proprie mani ancidere.
11 padre, il marito, Bruto e Valerio, sforzandosi di consolarla,
Pessortavano a cacciar da sé si fiero proponimento e pensare
che tutta la colpa era da esser ascritta a Sesto Tarquinio, perciò
che il peccato tanto è peccato quanto è volontario, e la mente sola
è quella che pecca e non il corpo, eleggendo ella far il male.
— Voi vederete — disse Lucrezia — ciò che questo misfatto di
Tarquinio merita e farete quanto vi parrà. Io ben che dal peccato m’assoglia, nondimeno da la pena assolver non mi debbo né
voglio. — E questo dicendo, lasciò cascar il pianto in grandissima abbondanza. Il marito alora quasi piangendo cosi le disse:
— Rasciuga, cara Lucrezia mia, le cadenti lagrime e non ti voler
attristare ed affliggere per la violenza a te fatta, ché assai efficace argomento ci dimostri d’esser stata sforzata, poi che volontariamente, potendo il tutto celare, la cosa come è commessa
da l’adultero manifesti. E chi saputo mai averebbe il successo
del caso se tu dimostrato non l’avessi? Non era egli in arbitrio
tuo di tacere? Questo che l’animo tuo sia mondo e netto ci fa
amplissima fede. La tua passata vita non solamente negli occhi
degli uomini, ma nei più segreti penetrali de la casa è sempre
stata tale, che da tutti il titolo di pudicissima e di castissima
porti. Ti sovvenga, Lucrezia mia, che questi di passati essendo
quello scelerato meco, che non in suoni, non in balli, non
in mangiar o bere, non in altri lascivi giuochi o giovenili trastulli ritrovammo, ma al’improviso ti sovragiungemmo che tu
eri con le tue donzelle occupata nel cucire e far altri lavori donneschi, non aspettando perciò alora né domestici né stranieri.
Quell’ora la vittoria ed il nome a te di pudicizia e castità partorì,
ché avendo noi le nore del re tra mille giuochi • scherzando e
lascivamente motteggiando ritrovate ed in soverchi mangiari
con le compagne loro occupate, tu a quelle fusti superior giudicata e a te la palma di perfettamente compita donna fu data.
Ma discaccia da te il pensiero di morire e sta’ di buon animo,
ché noi col favor dei dèi immortali cotanta ingiuria animosamente vendicaremo. E pensa a vivere, perché tu che per forza [p. 65modifica]NOVELLA XXI
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gli abbracciamenti del superbo e scelerato giovine, mentre egli
da te i nocivi e pestiferi a lui diletti si prendeva, sofTeristi, a
mano a mano la disiata vendetta vederai. Non volere, moglie
mia carissima, col tuo innocentissimo sangue l’animo feroce di
quello saziare al quale, da lui sforzata, il corpo e non la mente
in poter lasciasti. Non t’è oramai chiara ed aperta la fiera crudeltà del superbo re e dei crudeli e sceleratissimi figliuoli? non
ti sovviene il fratello di Bruto nostro, che qui è, esser stato da
questi fieri omicidi morto? E nondimeno egli d’una sorella del
superbo re era figliuolo. Questi che il tuo corpo a mal tuo
grado ha violato, quanti gabini ha egli anciso? quante vergini
e matrone violate? quanti uomini innocenti crudelmente morti?
Se quello fieramente hai in odio, se di core contra lui la vendetta
a par del peccato brami, se cosa che ingrata e noiosa gli sia
far desii, fa’ che tu viva, fa’ che egli intenda che con ogni sollecitudine la sua rovina procuri e che quella largamente aspetti.
Fa’ che, veggendosi a noi, a tutta Roma e a tutti i buoni infame
e a ciascuno odioso, crepi di sdegno e rabbia, e sentendo che
tu il cui corpo ha avuto ardire di violare sei tenuta onestissima, egli se stesso e le sue sceleraggini abomini. Non voler,
Lucrezia mia, me tuo marito cosi miseramente lasciar vedovo,
ed il tuo amato padre che qui lagrimante vedi, lasciar consumar
in doloroso pianto, e ai pargoletti ed innocenti nostri figliuoli
la tanto lor cara madre rapire. Adesso ti deve dilettar e giovar
il vivere, ché vicina sei a veder questo adultero andar in estrema
rovina. E qual più dolce cosa è, qual maggiore contentezza e
qual più desiderata, che di veder punito il nemico tuo? Ragione
trovar non saperai che a la morte indur ti debbia, se con giudicioso discorso il fatto tuo consideri. Io non nego già che altamente
non ti doglia, e a me senza fine duole, sentirti il corpo tuo
imbrattato; ma pensa l’animo tuo esser puro e mondo, il quale
corromper o violar non si puote, se egli volontariamente nel
peccato non consente, come s’è detto. E chi non sa che essendo
tu nel tuo letto ignuda, ove senza sospetto quietamente dormivi,
non hai ad un giovine libidinoso, temerario ed armato avuto
tempo di far resistenza? e tanto più quanto egli venne deliberato
M. Bandello, Novelle.
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parti; seconda
di giacersi teco e, tu noi consentendo, minacciava con un
servo a lato vituperosamente ammazzarti? Averebbe egli come
figliuolo di re, per la giovinezza che in lui fiorisce, con lusinghevoli carezze qualunque altra donna resa a' suoi disonesti
appetiti pieghevole; ma il tuo casto e generoso petto so io che
con qual si voglia arte non ha potuto a’ suoi illeciti piaceri rivolger già mai. Egli solo, ben che seco in letto tu fussi, è stato
quello che sceleratamente l’adulterio ha commesso e solo il peccato commesso; Tu come donna a 1’ improviso còlta, il corpo ne
le forze del nemico sforzatamele hai lasciato, ma l’invitta mente
libera e casta in tuo arbitrio riservasti. Il perché se tu gloria
acquistar brami, qual maggior gloria esser ti può che sapersi che
ad un giovine fervidamente amante e lascivamente i suoi appetiti
saziante, non donna viva ed amorosa sommessa ti sei, ma di
modo egli t’abbia avuto come se una rigida e marmorea statua ne
le braccia tenuto avesse? Ché molte donne ancora che sforzate
siano, nondimeno sentendo i soavi e pien di succo baci, gustando
la dolcezza dei dolci abbracciamenti, e mosse da la lascivia di
molti atti che si fanno, lasciata la prima durezza, a poco a poco
dal diletto sensitivo piegate, volontariamente poi agli sfrenati appetiti consentono. Arrogi a questo, Lucrezia mia, che a l’adultero
consentito non hai per téma del morire, ma per schifar infamia,
perciò che alora il corpo solo a l’assassino lasciasti quando egli
di metterti a canto nel letto uno svenato servo ti minacciò.
Il padre tuo ed io d’ogni colpa ti assolviamo e liberamente
giudichiamo che innocente sei. Né il padre tuo ed io soli pronunziamo questa sentenza, ma Bruto e Valerio e tutti i propinqui
nostri il medesimo affermano, pregandoti che la vita conservi
mentre che ella è degna d’esser conservata. Ché nel vero, se
tu di te stessa micidiale diverrai, non solamente il giudizio
nostro parrà che tu falso stimi, ma la colpa che in te non è,
che tu schifar sommamente disii, farai che ciascuno pensi che
in te sia, e cosi colpevole sarai stimata. Ma dimmi per i dèi
immortali : chi sarà che te innocente reputi, se tu, Lucrezia mia,
te stessa nocente e consapevole fai e con supplicio mortale condanni? Se adunque vuoi quella esser tenuta che sei e che il [p. 67modifica]NOVELLA XXI
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mondo come prima per specchio d’onestà ti riverisca ed onori,
attendi a conservar la vita e deponi questi pensieri malinconici,
il che facendo e te da la non meritata pena ed immatura morte
e noi da eterno cordoglio libererai. — Questo detto, Collatino si
tacque. Lucrezia veggendo che il marito taceva e più oltra non
ragionava, fatto buon viso e rasciugati i begli occhi che di lagrime
erano pregni, valorosamente al marito e a tutti quelli che presenti erano disse: — Non vogliate, padre mio onoratissimo e tu
agli occhi miei più che la luce stessa caro, diletto marito mio,
e voi parenti miei dolcissimi, vietarmi che io me stessa uccida,
perciò che se l’innocente anima col ferro da queste macchiate
membra non caccerò, che io più tosto abbia disiato l'infamia
schifare che la morte, appo il volgo fede non acquisterò già mai.
E chi crederà che il ribaldo e scelerato Tarquinio col minacciar di mettermi uno svenato servo a canto spaventata m’abbia
e che io, che la morte non rifiutava, da quel timore fossi vinta,
se ora esser cosi animosamente non provo? Rimarrà, oimè,
una disonestissima macchia d’eterna infamia al nome mio e tale
che non si potrà tor via. Mai sempre dirassi più tosto Lucrezia
aver voluto adultera vivere che intatta e pudica morire. Non
vedete voi che me non a la vita ma al vituperio conservar
cercate? Attendete pur a la vendetta e fate che l’altre sicuramente possano dormire, e a me non vietate far quello che
meritevolmente son tenuta d’essequire. Pigliate l’arme valorosamente in mano, a ciò che la sfrenata lussuria s’affreni e più
avanti non passi, ché se tepidamente a questa impresa vi metterete, non solamente ne la lontananza dei lor mariti saranno
le sciagurate donne violate, ma negli occhi d'essi consorti; e
negli abbracciamenti loro vederete questi temerari e libidinosi
giovini far de le donne romane quello strazio che gli adirati e
crudeli nemici, quando una città per forza prendeno, sono consueti di fare, non avendo rispetto né a luogo né a sesso né ad
età. E per Dio, qual donna più si potrà assicurare, se Lucrezia
sforzatamente violata si vede? Ma dimmi tu, caro marito mio,
come potrai meco con buon core già mai giacerti, pensando
che non la tua moglie, ma una bagascia di Tarquinio a lato [p. 68modifica]68
PARTE SECONDA
ti sia? E tu da me sempre onorando padre, come figliuola mi
potrai chiamare né nata riconoscermi del sangue tuo, se i santi
ed onestissimi costumi, che appo te e la santissima mia madre
ne !a mia fanciullezza apparai, più esser in me non vedi? Come
potranno questi altri per parente tenermi, poi che cosi infelicemente la mia onestà ho perduta e dai miei avi son tanto
tralignata? Ahi misera me! come averò ardire i miei figliuoli
più riguardare, se il ventre ove essi furono generati è stato da
lo scelerato adultero oppresso? Ma che sarà di me se di quello
sceleratissimo tiranno lo sparso seme, in me gettate le radici,
a far il frutto venisse? Sosterrò io di starmi in vita fin che d’un
figliuolo di cosi superbo e vizioso uomo come è Sesto divenga
madre? E come potrai tu, marito mio, solTerire che in casa tua
nasca un figliuolo d’un tuo cosi crudo e fiero nemico? Tu sopporterai vederti innanzi agli occhi un figliuolo di Sesto Tarqui-
nio, tanto più a te odioso quanto egli di me per adulterio sarà
nasciuto? 11 perché, marito mio, lasciami seguir il mio animo,
che giustamente mi dispone a pigliar quella punizione che si
deve, e non mi voler a la memoria ridurre né metter innanzi
agli occhi il chiaro splendore de la mia vita passata, ché tutto
quello che io in tanti anni affaticata mi sono, onestamente
vivendo, d’acquistare, in una notte per gli adulterati abbracciamenti è ito in fumo. Lassa me, che credendo io in casa un
amico e parente ricevere, ho un fierissimo nemico, un assassino, un corruttore dei casti e geniali letti ricevuto! E come saria
mai possibile che io più allegramente viver potessi? Il disio che
io aveva d’acquistarmi il pregio e titolo d’onestà m’ha fatto
bersaglio di cosi vituperosa ingiuria, ché non la mia bellezza,
se in me beltà si truova, ha cercato il libidinoso giovine godere,
ma ha voluto la castità e pudicizia mia rubarmi e tonni quello
che né per fatica né per oro più si può ricuperare. E se la
continenzia mia cosi fatto frutto ha riportato, perché resta l’adulterio impunito? Voglio io forse mettermi nel numero di quelle che
per ogni picciol prezzo a ciascuno vendono il corpo loro? Come
potrà mai, misera me! l'animo mio puro e castissimo con queste
macchiate e stuprate membra starsi e con loro aver commerzio? [p. 69modifica]NOYEI.LA XXI
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Quale è proporzione tra le tenebre e la luce che a modo nessuno ponno in un medesimo luogo essere, tal ora sarebbe dal
candido animo mio a questo vituperato corpo. Il perché vuol
la ragione che l’uno da l’altro sia separato. Ma per dir il vero,
credete voi che ancora che l'animo mio fosse stimato ai piaceri de l’adultero ritroso e che la ragione non volesse a l’adulterio consentire, che il senso e l’appetito concupiscibile non si
sia in qualche particella dilettato ed abbia tanto o quanto al
piacer consentito? 11 mio peccato non deve in modo alcuno
restar senza punizione. Perdonami, padre mio, e tu, carissimo
marito, non ti turbare; perdonatemi voi, dèi e dèe, a cui la
santa pudicizia è sacrata: poi che la cosa a questo è ridotta e
niente deve esser celato e conviene innanzi a voi il vero manifestare, io il pur dirò. Era ben io ritrosa, era io ostinata contra
l’adultero e disposta a non gli consentire, ma non potei già
tanto attristarmi e tanto dai disonesti abbracciamenti rivocar
l'animo, che il fragile e mobil senso alquanto non si dilettasse
e i mal ubidienti membri qualche poco di piacere non sentissero, ché io non sono di legno né generata fui di pietra, ma
sono donna di carne come I’altre. Quella trista ed ingrata dilettazione, quello qual che si fosse piacere, merita esser con la
mia morte castigato. E certo troppo più potenti si sentono le
forze de la libidine col diletto dei carnali congiungimenti che altri
non pensa. Tolgano i dèi che io con questa macchia viva e
soffra che mai sia mostrata a dito e si dica un adultero esser
meco giaciuto. Sapete non esser cosa al mondo che sia più
mutabile de la femina. Io non vorrei che differendo di darmi il
convenevol castigo, le cose disoneste incominciassero a dilettarmi e a poco a poco mi cangiassi l’animo che ora aver mi
sento. Pertanto lasciate pur che io col ferro passi questo mio
petto, il quale quello scelerato primieramente occupò e dove
de la sua sfrenata lussuria gli incitamenti lascivamente ricercava.
Non vogliate persuadermi d'aver di me misericordia, poi che
degna sono d’essere punita. Se io a la vita mia perdono, non conoscete voi chiaramente che ad una adultera già perdono? E se
a l'adulterio perdono, come posso fuggire di non perdonare a [p. 70modifica]7°
PARTE SECONDA
l’adultero? Perdonando a lo adultero, conviene che l’adulterio
resti senza il debito castigo e che piaccia; e se l'adulterio a me
piacesse, chi dubitarebbe che l’adultero insiememente non mi
fosse caro? Se adunque l’adultero mi fosse grato, come sarei
io quella Lucrezia già da tutta Roma tanto onesta riputata? Perciò
lasciate che io punisca il commesso fallo, a ciò che tutti chiaramente veggiano che io non la morte che il crudel tiranno
minacciava darmi ho temuto, ma ebbi paura de la infamia che
egli diceva di farmi, mettendomi nel letto a lato un morto servo.
Quello che io con altrui testimonio provar non posso e che non
conviene che con le mie sole parole testifichi, col mio sangue farò
certo, ed apertamente dimostrerò non qual si sia morte essermi
stata di spavento cagione, ma solo aver temuto la privazione
de l’onore, cui senza né donna né uomo deverebbe restar in vita,
perciò che perduto che è l’onore, nulla di buono a la persona
resta. Vanne ornai, animo mio incorrotto ed immaculato, e
innanzi al tribunale di Minos e Radamanto a l’innocenzia tua
e al mio buon proposito rendi il debito e vero testimonio, ché
io di qua farò quanto a me appartiene. Innanzi a quei tremendi
e giusti giudici tu, animo mio, Sesto Tarquinio de la mia pudicizia truculentissimo violatore animosamente accuserai. E voi
che qui ho fatti adunare, se nei petti vostri regna punto di spirito romano, tanta sceleraggine non lasciate impunita, e sperate
che i dèi immortali la vostra giusta querela contra i superbissimi e sceleratissimi tiranni favoriranno. — Dette queste parole,
con un tagliente ed acutissimo coltello, che sotto la veste celato
aveva, il casto petto ella sotto la sinistra mamma si percosse
ed il core feri, e sovra la piaga, cadendo ai piedi de li suoi,
subito passò a l’altra vita. II padre ed il marito di lei cominciarono amaramente a piangere. Bruto alora pigliato in mano il
sanguinolente coltello — Per questo — disse — innanzi e da poi
la tarquiniana ingiuria e regai violenza castissimo sangue, io
giuro e tutti voi, dèi, testimoni a questo chiamo, che da me
Luzio Tarquinio con la scelerata moglie e con i superbi e disonesti figliuoli saranno, per quanto io potrò, di Roma cacciati, e
ovunque anderanno, con ferro, fuoco e sangue crudelmente ed [p. 71modifica]NOVELLA XXI
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animosamente perseguitati. Né mai permetterò che essi od altri
regi tengano l’imperio di Roma. — Dopoi, a Lucrezio e Colla-
tino che gridando piangevano ed altresi a Valerio, che di quanto
diceva Bruto si meravigliavano, il sanguigno coltello diede in
mano, e tutti tre del modo che egli aveva giurato fece giurare.
Indi, lasciate le lagrime, a la vendetta s’apparecchiarono. Fatto
poi levar il corpo, quello ne la publica piazza cosi sanguinolente fecero porre. Quivi Bruto, con accomodate parole, di maniera accese il popolo di Collazia che tutti contra i Tarquini
in vendetta di Lucrezia presero l’arme; onde poste a le porte
le guardie a ciò che nessuno al re, che intorno Ardea con i
figliuoli era, la cosa dicesse, verso Roma se n’andarono tutti
di brigata, ove non meno più tumulto Bruto concitò che a Collazia concitato avesse. Ivi ottenne che il popolo levò il reame
a Tarquinio; indi con armata mano verso Ardea s’inviò, lasciato
in Roma Lucrezio a governarla. E intendendo che il re verso
Roma veniva, egli per altra via a l’oste d’Ardea pervenne, di
modo che in un’ora Bruto ad Ardea e Tarquinio a Roma arrivarono. A Tarquinio fur chiuse le porte, essendo già di poco
innanzi la scelerata Tullia sua moglie con grandissimo vituperio
da Roma fuggita. Bruto come Iiberator de la patria lietamente
fu ne l’oste ricevuto, e subito i figliuoli del re dal campo cacciati. Il re con i dui figliuoli maggiori se ne fuggi in Toscana,
e diverse vie tentando di ricuperar Roma, uno dei figliuoli, che
Aronte aveva nome, vide in battaglia esser morto. Sesto, che
l’adulterio aveva commesso, ne la città dei gabini si ridusse,
avendosi scordato le gravi offese a’ gabini fatte: quivi dai nemici suoi crudelmente fu ammazzato. Il re con l’altro figliuolo,
dopo l’aver indarno tentato di racquistar il perduto per le sue
sceleraggini e dei figliuoli reame, a Cume, città non molto lungi
da Napoli, in essiglio si ridusse e quivi miseramente mori. E cosi
fu la morte e l’adulterio de la castissima Lucrezia vendicato, il
cui virile e generoso animo penso io che tanto lodar non si
possa quanto merit