Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella XXIV

Novella XXIV - Il Gonnella fa una piacevole beffa al marchese Niccolo da Este signor di Ferrara e suo padrone
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[p. 366 modifica]Spesso poi di questo accidente risero tra loro dui e attesero lungo tempo con gran piacere a godere li loro amori.


Il Bandello al molto gentile e leale mercatante


genovese messere Antonio Sbarroia salute


Se io volessi rendervi le convenevoli grazie del vostro magnifico dono, che mandato mi avete, de le olive spagnuole confettate in succhio di limoni, e di tanta grossezza che io le maggiori non vidi già mai, perchè sono grosse a par d’uno ovo nato di una polla giovane, io potrei bene forse cominciare, ma non so come poi sapesse finire, chè in vero il dono era da fare a uno grandissimo personaggio e non a uno par mio. Tuttavia io ve ne rendo quelle grazie le maggiori che per me si ponno, confessando restarvene sempre ubligatissimo. Così nostro signore Iddio mi conceda che mi venga una buona occasione, ove il potere sia uguale al mio buono volere, perchè io vi farò chiaramente conoscere quanto sia il desiderio mio di servirvi, acciò che veggiate che non avete a fare con uomo a veruno modo ingrato. Ora sovengavi che, essendo una onorata compagnia di alcuni gentiluomini ne l’amenissimo orto de l’eccellente dottore mescer Gieronimo Archinto, e ragionandosi di varie cose, fu uno che mise in campo le piacevolezze fatte dal Gonnella; e si disse che se egli fosse stato al tempo del Boccaccio, che non meno di Bruno e Buffalmacco egli parlato ne averia, essendo le cose piacevoli fatte dal Gonnella tanto argute e festevoli quanto quelle di que’ pittori. Al Gonnella non è mancato se non uno Boccaccio, ben che messer Bartolomeo de l’Uomo, ferrarese, abbia in prosa con stile molto elegante scritto la vita di esso Gonnella. Perciò non sia chi mi condanni se io in questo basso mio dire ho descritto alcuna de le sue piacevolezze. Sarà forse chi mi dirà che io non sono mica il Boccaccio, la cui eloquenzia può ogni novella, ben che triviale e goffa, far parer dilettevole e bella. A questo io dico ingenuamente che non sono così trascurato che non conosca apertamente che io non sono da esser, non dirò agguagliato, ma nè pure posto nel numero di quelli cui dal cielo è dato potere esprimere l’ombra del suo leggiadro stile. Ma mi conforta che la sorte di questi accidenti non potrà se non dilettare, ancora che fosse iscritta [p. 367 modifica]in lingua contadinesca bergamasca. Onde, avendo la signora Isabella da Casate, a la presenza de la magnanima eroina la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, narrata una beffa di esso Gonnella fatta a uno suo signore, quella ho descritta e al nome vostro dedicata, in testimonio de la nostra amicizia e di tanti piaceri da voi ricevuti. Ricevetela adunque con quello animo che io ve la mando, e state sano.

NOVELLA XXIII


Il Gonnella fa una piacevole beffa al marchese Nicolò da Este,


signor di Ferrara e suo padrone.


Fu il Gonnella per origine fiorentino, figliuolo di uno mastro Bernardo, che teneva una bottega ne la quale faceva guanti, borse e stringhe e simili altre cose di cuoio, e per essere uomo di lodata vita, era spesso eletto rettore dei laudesi di Santa Maria novella. E non avendo altro figliuolo che il Gonnella, lo mandava a la scola a imparare e il nodriva molto costumatamente. Era il fanciullo di bonissimo e perspicace ingegno, e imparava grammatica molto bene; ma era grandemente inclinato a fare de le beffe piacevoli a questi e quelli, di modo che per le sue piacevolezze era a tutti carissimo. E non li piacendo la stanza di Firenze, e meno l’arte esercitata da suo padre, essendo già di cerca venti anni, senza prender congedo dal padre se ne venne a Bologna; ma poco vi dimorò, chè, udendo la fama del marchese Nicolò, si deliberò farsi cortegiano di quello. E così si ridusse a Ferrara, ove seppe sì ben governare i casi suoi, che si acconciò per camerieri col marchese Nicolò con buono salario. Nè guari in corte dimorò che, con le sue piacevolezze e berte che faceva, acquistò l’amore di ciascuno, di maniera che il marchese cominciò non volgarmente ad amarlo e monstrare con molti segni che l’aveva carissimo. E dimesticandosi con esso lui familiarissimamente, in poco di tempo crebbe tanto l’amore suo verso il Gonnella, che pareva che senza quello vivere più non sapesse. Era il Gonnella aveduto, scaltrito e ricco ne li parlari di pareri e di propositi; e ciò che proponeva, sempre con alcuna apparente ragione confermava. Era poi eloquentissimo col suo parlar toscano, di maniera che persuadeva ogni cosa a chi voleva. E come mi soviene assai volte avere udito dire a mio avo, che diceva essere stato dimestico del Gonnella quando ancora egli era cortegiano, devete sapere che le buffonerie e piacevolezze che [p. 368 modifica]faceva non procedevano nè da pazzia nè da poco cervello, ma nascevano da la vivacità, acutezza e sublimità de l’ingegno che in lui era, perciò che il tutto faceva pensatamente; e come si deliberava fare alcuna galanteria, considerava la natura di quelli che beffar voleva e il piacer che ne poteva conseguire il signor marchese. E di molte che a diversi tempi fece, io ve ne vuo’ dire una che a esso marchese da lui fu fatta. Era di natura sua molto pensoso esso Gonnella; per questo, come si trovava solo, sempre chimerizzava e si imaginava alcuna piacevolezza, e tra sè prima la ordiva tre o quattro volte avanti che le mani mettesse in pasta. Onde, avendosi imaginato di farne una al signor marchese, si mise uno giorno a una fenestra del palazzo, che risponde su la piazza verso la chiesa episcopale. Avea egli uno coltellino in mano, e spesso alzando gli occhi al cielo, faceva con la punta del coltellino certe ziffere e caratteri sopra il muro. Sovravenne in questo il marchese, e, mostrando pure il Gonnella non si accorgere di lui, attendeva tuttavia a fare li suoi caratteri, alzar gli occhi al cielo e con le mani fare mille bagattelle e atti, che parea bene che profondamente immerso si trovasse in pensieri importantissimi. Poi che il marchese stato fu buona pezza a mettere mente a quelle bizzarrie, disse al Gonnella: – Che cosa è questa ove tu farnetichi adesso? – Come egli sentì il marchese, fingendo non si essere di lui prima aveduto, disse: – Che trenta diavoli andate voi a questa ora bazzicando in questi luoghi? – E mostrando essere molto adirato: – Io pagherei una bella cosa, – soggiunse, – se voi ora non mi avessi sviato, perciò che sono passati via infiniti istanti del corso del cielo cerca una cosa che io astrologava e ci vorrà del tempo avanti che io pervenga ove era. Andate per l’amor di Dio, non mi rompete il capo. Questa è una gran cosa, che non possa avere due ore il giorno per fare ciò che mi ven voglia. – Ove è il Gonnella? dimanda qui il Gonnella. Fa che venga tosto. – Quando poi vengo, trovo che non ci è nulla. – Il marchese allora: – Oh vedi bello tratto! Questo è uno de li tuoi tratti che sai fare. Che ghiribizzi hai tu nel capo? che farnetichi? che astrologhi? Questa sarà ben bella se vorrai darmi ad intendere che tu t’intenda di astrologia. Qui la tua vanga non intrerà nel mio terreno. – Orsù, – soggiunse il Gonnella, – io mi troverò pure uno picciolo luogo ove voi non verrete a disturbarmi, chè se voi sapessi ciò che io faceva, non mi avereste rotta la fantasia. – Crebbe allora il maggiore desiderio del mondo al marchese di spiare e intendere che cosa fosse questa, e instantissimamente cominciò pregarlo che volesse manifestarli ciò che faceva. Poi che si ebbe [p. 369 modifica]lasciato pregare e ripregare assai, disse il Gonnella: – Io faceva adesso una figura astrologica e quasi era finita, ma voi con la venuta vostra mi avete guasto il tutto, chè Dio sa quando io mi troverò disposto a sgrammaticare queste chimere astronomiche. – Oh oh! – disse il marchese – io dico bene che queste sono de le tue filostocche e de le baie che non vagliano nulla. Dimmi, ove hai tu apparato astrologia? certo tu farnetichi, pazzarone che sei. – Io lo dico, dissi e dirò tuttavia, – rispose il Gonnella, – che dimorerò vosco cento anni, e ancora non saperete la millesima parte de le mie vertù. Andate, andate, e non mi date noia. Fareste ben meglio ancora voi a imparare questa bellissima e dilettevole scienza, che vi potrebbe ancor giovare assai, ed è molto facile a impararla. E io mi obligo in poco spazio di tempo a insegnarvela. – Si partì il marchese senza fare altro motto. Cominciò poi il Gonnella ogni dì fare caratteri e segni, ora con la penna in carta e ora col coltellino su per lo muro, e si ingegnava mettersi in tale parte che il marchese il potesse vedere. Esso marchese veggiendo questo, si deliberò pure di voler vedere a che fine questa cosa devesse reuscire. Sapeva il Gonnella il nome de li pianeti e conosceva molte stelle in cielo; onde uno giorno, parlando a la presenza del marchese col medico di esso signore, disse alcune cose, che non so dove apparate se l’avesse, che appertenevano a la astrologia giudiciaria, di modo che il medico, che non devea perciò essere il più dotto del mondo, giudicò che il Gonnella fosse uno perfetto astrologo, e li disse: – Gonnella, Gonnella, tu mostri di essere buffone, ma tu mi pari uno eccellente astrologo. – Rivoltosi poi al marchese, disse: – Signore, cotestui ha il diavolo addosso. Egli è altro che noi non crediamo. Signore mio, egli ora ha tócco certi punti che ne la astrologia giudiciaria sono di recondita dottrina. – Per le parole di messer lo medico, che devea essere stretto parente di mastro Simone da Villa, il marchese cominciò prestar fede a le fole del Gonnella. Del che avedutosi il Gonnella, ordinò una trama per meglio adescarlo e darli piacere: fare che il medico fosse il beffato, fatto cavaliere bagna, come fu mastro Simone. Udite adunque come. Suole quasi per l’ordinario in Ferrara, presso la loggia che è sotto il gran palazzo de la corte, essere assai fiate su la publica strada di molte some portate dagli asini, di pentole, scudelle, boccali, olle, pignatte e altri simili vasi di terra cotta, che quivi si vendeno per uso de le case. Onde il Gonnella, con uno de li pentolai convenutosi, gli ordinò che il tale giorno con una soma di vasi se ne venisse, per quella vietta stretta che conduce in [p. 370 modifica]piazza, verso la bottega de le bollette. E perchè l’asino, che era assueto spesse fiate fare quello camino, di lungo se ne anderebbe per scaricarsi ove era uso diporre la soma, che esso il cacciasse per la piazza lungo la facciata de la chiesa maggiore, e come fosse per iscontro la porta del tempio, che facendo il cruccioso e bizzarro rompesse i vasi e ammazzasse l’asino, e subito se ne andasse via, nè mai palesasse, a persona che si fosse, chi a far questo l’avesse indutto, sotto pena de la disgrazia del signore. Era il Gonnella in Ferrara a’ grandi e piccioli notissimo, e ciascaduno sapeva quanto egli era grato al marchese. Il perchè il pentolaio, bene pagato a gran derrata de li vasi e de l’asino, eseguì al tempo a lui prefisso molto galantemente quanto il Gonnella gli aveva ordinato. Ora il giorno avanti che l’effetto de l’asinicidio si facesse, si pose il Gonnella a la solita sua finestra con li soliti suoi stromenti; e non istette molto che sovravenne il marchese e se gli accostò. Faceva il Gonnella molto l’ammirativo de quello che mostrava comprendere a li segni e caratteri che fatti avea; onde, inverso il marchese rivoltato, in questo modo li disse, fingendo insiememente dolore, ammirazione e non so che di tristizia: – Signore mio, avertite bene a le parole che ora vi dico e non le lasciate cascar in terra, perciò che tosto le troverete con effetto reuscire vere, se l’arte mia a questa volta non m’inganna. Dimane su questa vostra piazza io veggio farsi una gran mischia tra due persone, e nel menare de le mani veggio seguire la morte di una di loro con larga effusione di sangue per molte ferite. Ma ancora non ho potuto comprendere l’ora nè fermarla, ma so bene per ogni modo seguirà dimane. – Udendo il marchese così affirmativamente parlare il Gonnella e determinare il dì che la questione si devea fare, rispose al Gonnella: – Di qui a dimane non ci è gran tempo. Noi vederemo pure questi tuoi miracoli, e se cicali senza sapere ciò che parli, o se dici il vero. E se quanto profetato hai non aviene, io ti voglio a suono di trombe farti publicare per tutto lo stato mio per lo maggiore bugiardo che viva, e che publicamente tu ti confessi che sei uno ignorantone e che nulla sai. – Soggiunse allora il Gonnella dicendo: – E se, signore mio, voi troverete che io sia veridico, la ragione vorrà pure che io sia rimunerato. – A cui rispose il marchese: – Se tu mi averai detto il vero, io ti farò coronare astrologo laureato con bellissimi privilegi. – Venne il seguente giorno, e, secondo l’ordine messo, il pentolaio comparve, e dopo avere rotto tutti li vasi e date tante busse a l’asino quante volle e quello ferito in molti luoghi, con uno tagliente [p. 371 modifica]coltello miseramente lo svenò; e lasciatolo morto in terra, se ne andò per li fatti suoi. Si levò la piazza a romore e tutti corsero a lo spettacolo veggendo colui come ubriaco o forsennato, dare bastonate da orbo. Nè vi fu persona che mai osasse approssimarsi a lui nè sgridarlo, per tèma che egli loro non desse che le busse. Fu subito rapportato il caso al marchese, il quale, rivolto al Gonnella che seco era, sì gli disse: – Per mia fè, tu sei pure a questa volta stato il magro astrologo, chè invece di avere predetto una gran mischia e morte di una persona, la cosa si è convertita in la morte di messer l’asino. – Il Gonnella, mostrandosi meravigliare, disse: – Signore mio, uno minimo punto che nel calcolare si erri è cagione di questi falsi giudicii. Ma io voglio tornare a calcolare di nuovo, per vedere ove consiste il fallo. – E quantunque la cosa non si risolvesse come avea predetto il Gonnella, pensò perciò quello devere essere molto dotto, e deliberò mettersi a la prova per vedere se poteva imparare questa arte di indovinare, e ne tenne proposito col Gonnella. Il quale, veggendo il suo aviso andare di bene in meglio, disse: – Signore mio, a me dà l’animo, avanti che passino quindeci giorni, darvi tale principio, che poi per voi stesso con alcuni precetti che vi darò, saperete indovinare. Ma bisogna per questi quindeci dì che io dorma in camera vostra, e meco verrà il vostro medico che parlò tanto bene di me. – Si contentò il signore; onde di notte facea messer lo Gonnella levare su il marchese e il medico, e li mostrava ora la stella di Giove, ora di Venere e degli altri pianeti, col Carro e altri segni. Imparò benissimo il marchese in pochi dì queste cose. Il medico sputava tondo, e li pareva che il Gonnella fosse uno grande astrologo. Si avea da uno speziale il Gonnella fatto fare cinque pillole che risolvesseno il corpo senza nocumento, e, parendoli tempo dar fuoco a la bombarda, le prese tutte cinque una sera, le quali cerca la mezza notte cominciarono a movergli il corpo. Onde, sentendo che il medico dormiva con la panza in su e sornacchiava a bocca aperta, si levò cheto cheto, e rivoltato il culiseo su la faccia del medico, con un gran ribombo di ventre gli scarricò il mal tempo su il viso, e più di sette dramme gliene cadêro in bocca. Il povero medico, tutto impastato in quella lordura, si destò, e volendo gridare, fu sforzato ingozzarne parecchie oncie, di modo che, borbottando, destò il marchese. Il quale, sentendo tanta puzza e il rammarico del medico, disse: – Che diavolo fate voi? chi ha caccato? – Il Gonnella, che già era uscito di letto, disse: – Marchese, vedete che io ho sodisfatto al debito mio e vi ho fatto astrologo; chè a mezzanotte, a l’improviso, senza [p. 372 modifica]lume e senza calcolare, avete il vero indovinato a la prima, perchè il medico è tutto pieno di merda. – Chiamati poi alcuni servitori, si fece menar via il medico con le lenzuola, e il marchese disse: – Gonnella, Gonnella, questa è bene stata una de le tue; ma la puzza troppo. – E si tornò a dormire.


Il Bandello al magnifico e strenuo soldato


messer Tomaso Ronco da Modena luogotenente


del colonnello del valoroso signor


conte Annibale Gonzaga di Nuvolara salute


Sono alcuni uomini, in diversi paesi, che per lo più di loro hanno certe nature molto differenti dagli altri; e dove vi corre il guadagno di uno quattrino, non conosceno amico nè parente, attendendo solamente al profitto loro particolare. Altri, se bisogna che vivano a le proprie spese, se si metteno per caminare da luoco a luoco, non ti credere che vadano troppo a l’osteria, ma compreranno uno pane e uno bicchiero di vino, e la menano più stretta che sia possibile. Di questa sorte sono communemente bergamaschi e spagnuoli, dico gente del contado, perchè ho conosciuti molti gentiluomini de l’una e l’altra nazione che vivano splendidamente e invitano questi e quelli a mangiare con loro. Vanno bergamaschi per tutte le parti del mondo, ma non faranno spesa di più di quattro quattrini il giorno, nè troppo si corcano in letto e se ne vanno a dormire su la paglia. Che dirò io di que’ spagnuoli plebei che chiamano «bisogni», che vengono in Italia con le scarpe di corda? Molti di loro non hanno in Ispagna nè casa nè possessione, e se hanno pane e ravanelli con acqua, trionfano; ma come sono in Italia, tutti sono signori, e vogliono cibi eletti e del migliore vino che trovar si possa. Li tedeschi sono molto facili da contentare: dà loro buono vino, e il tutto starà bene. Francesi, ancora che siano contadini, tutto ciò che guadagnano lo mangiano a l’osteria, e sono cortesi, e largamente invitano ciascuno a bere. Li gentiluomini tutti il dì sono su il banchettare e onorare gli stranieri. Ragionandosi questi dì in Pinaruolo di simile materie in una buona compagnia, e particolarmente dicendosi di certo soldato bergamasco