Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella XXIII
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male. Il marito, che fore di misura amava la moglie e del suo amico non poteva credere male, commandò a sua madre e a suo fratello che più di quella materia non li facessero motto, dicendo che voleva che il suo amico potesse di giorno e di notte venire in casa e starsi in camera sua con la moglie, perchè bene li conosceva e sapeva che di loro poteva liberamente fidarsene. Avendo poi preso alcune lepri, due ne mandò a l’amico suo già detto a donare. Il mattino seguente, essendo insieme con il suo detto galante compagno, li disse quanto gli era stato detto, ma che certamente a loro niente credeva. Al che egli rispose che molto senza fine di core lo ringraziava, e che di lui si poteva fidare come di fratello suo proprio; ma poi che sua madre e il fratello aveano contra di lui a torto sì mala openione di lui, che egli più per lo avenire non pratticheria in casa. Allora ser non so che mi dire entrò in còlera, e che voleva che come prima ci pratticasse. Non vi pare egli, signore mie e voi signori, che la moglie l’avesse bene acconcio e saputolo galantemente farselo suo? Ma poi che egli così voleva, non fu meraviglia se gli amanti si seppero dare buono tempo.
Il Bandello al nobile e cortesissimo
messer Gioanni Comino salute
Veramente il nostro molto festevole e gentilissimo Boccaccio deveva ottimamente sapere ciò che diceva quando egli ci lasciò, ne la novella di Rinieri lo scolare e di monna Elena, scritto che la cattivella non sapeva che cosa fosse mettere in aia con gli scolari. Ci sono alcune donne che più del devere presumeno del fatto loro e poco conto tengono degli scolari, perchè, veggendogli andar in abito quasi da prete, si pensano che siano uomini fatti a l’antica, e di loro si beffano, perchè vorrebbero di que’ giovani bravi che portano sovra la berretta il cervello e la spada in traverso, che con la punta menaccia a la stella di Marte, e spesso bravano in credenza. Ma se elleno conoscessero ciò che vagliono gli scolari e quello che sanno fare, giovami di credere che non scherzarebbero con esso loro. Sono per l’ordinario gli scolari buoni compagni, aveduti, scaltriti, e sanno vie più di quello che la brigata non pensa, e hanno più malizie sotto la coda che non ha fiori primavera. Ma chi con loro amichevolemente prattica li trova sempre cortesi, umani e gentilissimi. E per dire il vero, in una cosa non bisogna fidarsi di loro, che è cerca la prattica de le donne, onde l’appiccherebbero a chi si sia, pur che le possano godere. E in quelle case ove dimorano, se donne ci sono, guardale quanto tu vuoi, chè se tu avessi più occhi che Argo, te la accoccheranno. Sono poi liberali, dico in pagare quelli che a lor fanno alcuna ingiuria, perchè li pagano a buona derrata, dando cento per uno, come il buono Rinieri fece a monna Elena. Di queste cose me ne parlò assai lungamente uno nobilissimo giovane mio compagno, scolare in Pavia. Ma io porto acqua al mare a dire queste cose a voi, che meglio di me le sapete, e già lungo tempo in Parigi in quella grande università sète stato scolare. Però, avendo questi giorni in Parigi scritto una novella, che in una onorata compagnia, ove io mi ritrovai, narrò il gentilissimo scultore di gemme Matteo dal Nansaro, così caro e dimestico del cristianissimo di questo nome re Francesco primo, quando madama Fregosa era in Parigi, e pensando cui donare la devesse, voi mi occorreste; onde, al nome vostro avendola dedicata, resterà testimonio al mondo de la amicizia nostra. Vi pregherei molto volentieri che fussi contento mostrar questa novella al nostro da me amato e riverito filosofo eccellentissimo, il magnifico messer Francesco Vicomercato; ma non ardisco quello rivocare da le altissime e profonde speculazioni filosofiche a queste basse e triviali lezioni. Tuttavia giova molto spesso mescolare tra le cose gravi, per allegrare l’animo, alcuna cosa piacevole e bassa. State sano.
NOVELLA XXII
Subita astuzia di uno scolare in nascondersi, essendo
con l’innamorata e volendo il marito intrar in camera.
Parigi, come tutti avete potuto vedere, è molto grande e populosa città, ne la quale da tutti si afferma trovarvisi per l’ordinario più di trenta millia scolari, mettendovi i fanciulli piccioli che imparano la grammatica con gli artisti, e quelli che dànno opera a la teologia. Sapete bene come gli studenti sogliono menar le mani con le donne, acciò che quando si hanno per lungo spazio lambicato il cervello sovvra i libri, possano poi con le donne destillare li mali umori. Non è dunque molto che uno giovane italiano venne a studio a Parigi, e una camera prese a pigione in casa di uno stampatore, il quale aveva per moglie una franciosina di ventitrè anni, che era molto bella e gentile, fresca e lieta oltra modo, la quale sempre averia voluto scherzare e dare il giambo altrui e anco pigliarlo. Molte fiate il marito di lei disinava la mattina a la stampa, di modo che lo scolare solo disinava con la donna; onde fecero insieme una gran dimestichezza, la quale a poco a poco cominciò convertirsi in amore. Lo scolare, conoscendosi essere mezzo innamorato de la donna e veggiendola assai bella, deliberò tentare la fortuna e vedere se il suo disegno li reusciva. E perchè aveva gran commodità di parlar con lei senza interpreti, seppe così ben dire il caso suo e fare l’appassionato, che la donna, che non era di pietra nè di bronzo, cominciò a dargli orecchie e parlare con quello più che volontieri, parendole il giovane piacevole e discreto; nondimeno stava alquanto ritrosetta. A la fine, pure consigliatasi con la sua fante, che era quella che faceva il mangiare per loro, non ci essendo altre persone in casa, essendo adunque uno voler di tutti dui de venire a le strette e godere de l’amore l’uno de l’altro, non tardarono molto a dare compimento ai loro appetiti amorosi. Alloggiava l’innamorato scolare in una camera che era sovra quella ove lo stampatore con la moglie dormiva. Esso stampatore soleva ogni mattina a l’alba levarsi e andare a la stamparia e lasciar la moglie sola nel letto. Onde, acciò che la buona donna, restando sola, non avesse paura de la fantasma, lo scolare soleva andare a tenerle compagnia e bene coprirla, perchè ella non si raffreddasse. Come il marito era uscito di casa, la donna, con la pertica che al capo del letto teneva, solea percuotere nel solaro due e tre percosse. Il che come lo scolare sentiva, si levava e, a basso disceso, andava a corcarsi con lei; e calcava molto bene la facenda de la donna, acciò che ella non avesse invidia al marito, che in quella, forse, ora calcava quella de la stampa. E così insieme si trastullavano buona pezza, perchè il marito non solea venire a casa sino a ora di desinare. Avenne il giorno dedicato a santo Gioanni innanzi a la porta Latina, che è la festa degli stampatori parigini, che essendo levato il marito secondo il consueto e ito fore, che la donna diede il solito segno a lo scolare, il quale a basso discese e a lato a quella si mise e amorosamente con lei giocava a le braccia. Aveva quella mattina smenticatosi il marito la borsa sotto il capezzale del letto, ed essendo ito a la stampa ove erano gli altri compagni, volendo dar ordine di fare una grossa e grassa collazione insieme, accortosi il buono uomo che non aveva seco la borsa, disse a li compagni: – Oimè, io mi ho scordata la borsa in casa, onde egli mi convien gire per essa, e subito sarò di ritorno. – Ritornò adunque, e arrivato in casa, andò di lungo a la camera, e, trovatala chiusa perchè lo scolare fermata l’aveva, cominciò picchiare a l’uscio. La donna, che in braccio avea il suo amante e stretto teneva, disse, mostrando essere mezza sonnacchiosa: – Chi è là? olà! – Il marito rispose: – Apri, apri, chè io sono tuo marito. – La donna allora disse pian piano a lo scolare: – Oimè, vita mia, come faremo noi, che mio marito vuole intrare? – Non era luoco in camera ove lo scolare nascondere si potesse. E tardando ella ad aprire l’uscio, il marito tuttavia gridava che ella aprisse. Ella teneva pur detto che egli aveva la chiave e che poteva da se stesso aprire; e ben che dicesse così, sapeva perciò ella come la chiave era in camera. – Io non ho la chiave, – rispose il marito, e disse: – Apri tu, se vuoi e non me far più tardare. – Lo scolare, da subito consiglio aiutato, disse a la donna: – Anima mia, mettimi dentro la arca che è qui dirimpetto. – E così dentro con li suoi panni vi intrò, e vi si distese, acconciando il coperchio acciò potesse respirare. Teneva pur replicato il marito che ella aprisse, ed ella diceva: – Aspettate uno poco che io prenda una camiscia di bucato, – e presa una camiscia di bucato, senza altrimenti vestirsela, con una mano se la pose dinanzi a la fontana di Merlino e poi aperse l’uscio. Era già levato il sole e per le vitriate de la finestra allumava tutta la camera. Il perchè il buon marito, che vedeva la sua moglie nuda, che era come una nieve bianca e le carni aveva morbidissime e di nativo ostro maestrevolmente colorite, si sentì movere la conscienza, e cominciò baciare la moglie e abbracciare per cacciar il diavolo in inferno, che si era fieramente destato. Ma la donna, che era stata assai bene pasciuta dal suo amante, da sè con le mani lo respigneva, dicendogli: – Oh bella cosa, che oggi, che è la vostra festa, voi non possiate contenervi! so bene che non devete ancora essere stato a messa. – Insomma tanto disse e fece che il buon castrone si partì. E come egli fu partito, lo scolare uscì da l’arca e fece a la donna, intrati in letto, ciò che il marito fare voleva. Commandò dapoi la donna a la fante che ogni volta che il marito usciva di casa, che ella chiavasse la porta de la casa. La sera, essendo il marito con la moglie e lo scolare a tavola a cena, esso marito narrò a lo scolare quanto con la moglie gli era la matina accaduto. Del che ridendo, il giovane disse: – Voi mi devevate chiamare, perchè io con la sferza la averei bene gastigata e costretta a compiacervi. – Spesso poi di questo accidente risero tra loro dui e attesero lungo tempo con gran piacere a godere li loro amori.
Il Bandello al molto gentile e leale mercatante
genovese messere Antonio Sbarroia salute
Se io volessi rendervi le convenevoli grazie del vostro magnifico dono, che mandato mi avete, de le olive spagnuole confettate in succhio di limoni, e di tanta grossezza che io le maggiori non vidi già mai, perchè sono grosse a par d’uno ovo nato di una polla giovane, io potrei bene forse cominciare, ma non so come poi sapesse finire, chè in vero il dono era da fare a uno grandissimo personaggio e non a uno par mio. Tuttavia io ve ne rendo quelle grazie le maggiori che per me si ponno, confessando restarvene sempre ubligatissimo. Così nostro signore Iddio mi conceda che mi venga una buona occasione, ove il potere sia uguale al mio buono volere, perchè io vi farò chiaramente conoscere quanto sia il desiderio mio di servirvi, acciò che veggiate che non avete a fare con uomo a veruno modo ingrato. Ora sovengavi che, essendo una onorata compagnia di alcuni gentiluomini ne l’amenissimo orto de l’eccellente dottore mescer Gieronimo Archinto, e ragionandosi di varie cose, fu uno che mise in campo le piacevolezze fatte dal Gonnella; e si disse che se egli fosse stato al tempo del Boccaccio, che non meno di Bruno e Buffalmacco egli parlato ne averia, essendo le cose piacevoli fatte dal Gonnella tanto argute e festevoli quanto quelle di que’ pittori. Al Gonnella non è mancato se non uno Boccaccio, ben che messer Bartolomeo de l’Uomo, ferrarese, abbia in prosa con stile molto elegante scritto la vita di esso Gonnella. Perciò non sia chi mi condanni se io in questo basso mio dire ho descritto alcuna de le sue piacevolezze. Sarà forse chi mi dirà che io non sono mica il Boccaccio, la cui eloquenzia può ogni novella, ben che triviale e goffa, far parer dilettevole e bella. A questo io dico ingenuamente che non sono così trascurato che non conosca apertamente che io non sono da esser, non dirò agguagliato, ma nè pure posto nel numero di quelli cui dal cielo è dato potere esprimere l’ombra del suo leggiadro stile. Ma mi conforta che la sorte di questi accidenti non potrà se non dilettare, ancora che fosse iscritta