Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XXXVIII

Novella XXXVIII - Il Perotto mantovano, essendo in Modena, è dalle donne per Giudeo beffato, per la sua poca ed abietta presenza
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[p. 65 modifica]s’ammazzò. Divolgatasi poi la cosa per via de la fante, Demetrio, conosciuta l’onestá di Cassandra, volle che ella rinonziasse a la donazione e la donasse ad un picciolo fanciullo, figliuolo d’un fratello di Teodoro; il che ella fece molto volontieri. Di questo fu Demetrio molto da tutti lodato, e Cassandra restò appo ciascuno in grandissima fama di bella giovane e d’onesta.


Il Bandello al reverendo padre
fra Francesco Silvestro da Ferrara
maestro generale de l’ordine di san Domenico


Si legge, padre mio osservandissimo, ne le croniche mantovane dal Platina composte, che Sordello Vesconte da Goito, il quale contra quell’immanissimo e crudelissimo tiranno Ecelino da Romano cosí magnificamente diffese la cittá di Mantova, fu uomo di picciola statura e d’aspetto non molto liberale, ma altrimenti di bellissimo ingegno e di forze corporali a’ suoi tempi senza pari. Onde essendo la fama de le sue prodezze per tutta Europa grandissima, capitò ne la corte del re di Francia, al quale, facendo riverenza, disse che era Sordello Vesconte. Il re, che dei fatti mirandi di Sordello aveva inteso cose assai e s’aveva imaginato ne l’animo suo che devesse esser uomo di grande statura, non puoté credere che persona sí picciola e tanto difforme fosse valente. E per questo non gli fece molta accoglienza, anzi quasi lo disprezzò. Del che il buon Sordello avvedutosi, disse: – Sire, non fate ancora giudicio di me fin ch’io vado in Italia e meno in qua testimonii a farvi fede che io sono Sordello del quale avete udito ragionar tanto. Ma se prima ch’io parta, v’è alcuno di questi vostri baroni che non creda che io sia Sordello, facciasi avanti e provi le sue forze con le mie in quel modo che meglio a lui piacerá. – Era un franzese quivi molto grande di corpo e d’aspetto assai bello, che in corte era tenuto il piú valente giostratore che ci fosse. Costui, udendo la bravata di Sordello e ne l’aspetto poco prezzandolo, disse che farebbe seco un colpo di lancia e che poi giocarebbe di stocco. Accettò Sordello l’invito e s’armò, e cosí a la presenza del re [p. 66 modifica]corsero tutti dui e ruppero gentilmente le lancie. Misero poi mano agli stocchi, ma a le tre bòtte Sordello gittò lo stocco di mano al suo avversario, e poi, avventatosegli a dosso, lo levò da cavallo e lo portò innanzi al re, come il lupo si porta l’agnello, e disse: – Sire, eccovi un testimonio che io sono Sordello, e se altri vuol testimoniare, venga egli avanti. – Il re, conosciuto che gli uomini non si misurano come il panno a canne o palmi, s’avvide che s’era ingannato e molto umanamente lo raccolse e, fin che stette in corte, lo trattò molto bene, ove Sordello, senza venir in Italia a prender testimoni, fece molte altre prodezze che del suo valore diedero chiara fede. Nei nostri tempi poi, sotto il re Lodovico decimosecondo, essendo mandato dai signori veneziani ad esso re cristianissimo un ambasciatore, avvenne che un dí, non essendo vestito molto riccamente, andò per dire alcune cose al re; e volendo entrar in camera, gli usceri, non guardando se non a le vesti, gli serrarono due e tre fiate l’uscio sul viso, lasciando entrar quelli che pomposamente erano vestiti. Del che accortosi l’avveduto ambasciatore, se ne ritornò a l’alloggiamento e si pose un saio di velluto morello di grana, con una veste in dosso con le maniche a la ducale, che era di velluto carmesino alto e basso, e cosí riccamente abbigliato rivenne in corte. Picchiò a la porta, e come gli usceri lo videro, il lasciarono liberamente entrare, facendogli anco nel passare una gran riverenza. Andò dinanzi al re l’ambasciatore e, fattogli il conveniente onore, si pigliò la veste e la mise in terra e le fece tre gran riverenze. Meravigliavasi ciascuno di questo atto, veggendosi un uomo di quella gravitá, a la presenza di tanto re, essersi spogliato e far quelle cerimonie, e attendevano pure a che fine questo fatto riuscisse. L’ambasciatore dopo le riverenze ringraziò pur assai la sua veste del favore che essa gli aveva fatto, e indosso se la pose, e poi disse: – Sire, io era venuto per parlar con voi d’alcune lettere che mi scrive la mia serenissima Signoria, e veniva vestito di panno, cosí a la carlona. Ma i vostri uscieri due e tre volte m’hanno serrata la porta de la vostra camera su gli occhi. Onde andai a mutarmi e vestirmi del modo che vedete, e col favore de la veste sono entrato. Per questo mi sarebbe paruto commetter errore, se io non l’avessi fatto onore e ringraziata del beneficio da lei ricevuto. – Ora mi potreste dire, padre mio osservandissimo, a qual fine io v’ho narrate queste istorie. Dirollovi, per venir a la mia novella. E’ si suol dire che «chi Dio fece bello non fece povero». I lombardi poi dicono: «Vestisi un pal, che parrá un cardinal». E certamente [p. 67 modifica]l’esser bello di corpo e ben vestito apportano grandezza ed accrescono la reputazione, cosí come per lo contrario la bruttezza e l’abito fanno talora disprezzare le persone di grado e qualitá. Il che manifestamente apparve questi dí, come ci narrò ben a lungo fra Gian Battista Cavriuolo, contando una novella che al Peretto a Modena avenne. La quale, perché mi parve per molti rispetti degna di memoria, avendola scritta, a voi la dono, che tanto sète fuor di cascar nel pericolo del Peretto, quanto che la natura v’ha dotato d’aspetto graziosissimo, di consuetudine affabile e dilettevole, e di buone lettere greche e latine quanto altro che ci sia, ché de la filosofia e teologia non parlerò, avendo voi in queste facultá pochi pari. State sano.Novella XXXVIII

Il Peretto mantovano, essendo in Modena, è da le donne
per giudeo beffato per la sua poca ed abietta presenza.


Essendo la stagione, per gli estremi caldi che fanno, alquanto agli uomini noiosa, poi che s’è sodisfatto al culto divino, non mi par disdicevole con qualche onesto e piacevol ragionamento passar quest’ora del giorno favoleggiando, sapendo che i piacevoli parlamenti hanno non picciola forza a sollevar la noia de la mente ed anco d’alleggerir i fastidii del corpo. Sapete, padri miei onorandi, che del mille cinquecento venti fu celebrato il capitolo generale de la congregazione nostra, molto solenne e con sodisfazione grandissima di chiunque vi fu, ne la piacevole cittá di Modena, ove quel popolo con infiniti segni dimostrò la grande affezione che a l’ordine nostro porta, sí nel provedere abondantemente il vivere per molti dí a tanti frati, come anco nel frequentare continovamente gli uffici divini, le salubri predicazioni e le acutissime disputazioni che tutto ’l dí dottamente si facevano. E nel vero noi eravamo piú di quattrocento frati e tutti fummo benissimo trattati, e tanto piú fu mirabile la magnificenza dei modenesi quanto che, sapendo le nostre constituzioni non permetter che si mangi carne se non per infermitá, ci providero largamente di pesci ed altri cibi al viver nostro conformi. Studiava in quei dí ne la cittá di Bologna negli studii filosofici messer Giovan Francesco dal Forno, cittadino modenese, giovine di bellissimo ed elevato ingegno, il quale, essendo desideroso di mostrar ne la patria sua che non aveva a Bologna speso danari e il tempo indarno, cercò con istanzia grandissima ottenere dai [p. 68 modifica]nostri padri una catedra, per poter disputar certo numero d’alcune sue conchiusioni in logica e filosofia; e prese per mezzo a conseguir questo suo intento il molto valoroso ed illustre signor conte Guido Rangone, sapendo quanto esso signor conte era in riputazione appo i nostri padri, e che non gli averebbero cosa alcuna negata. Ottenne il signor conte Guido ciò che domandò, e al Forno fu assegnato un giorno, nel quale nessuno fuor che egli sosterrebbe conchiusioni né disputarebbe. Il Forno, avuta la grazia del determinato dí, mandò a Bologna un suo uomo con lettere a messer Peretto Pomponaccio, ne le cose di filosofia suo maestro ed in quei dí assai famoso filosofo, supplicandolo che per ogni modo egli degnasse di venir a Modena, sí per onorare il suo filosofico conflitto, come anco per essergli scudo contra quegli argomenti, se qualche uno gliene fosse fatto, che egli forse non sapesse cosí ben disciorre. Il Peretto si scusò, allegando che non poteva venire per alcune sue occupazioni; ma il Forno, che senza il maestro disputar non voleva, montò a cavallo e, giunto a Bologna, tanto seppe dire che condusse il Peretto a Modena. Venuto il giorno de la disputazione, salí in catedra il giovine filosofo e molto galantemente le sue conchiusioni propose. Quei nostri frati che gli argomentarono contra, perché era ne la chiesa nostra, non la volsero intendere troppo per minuto, non argumentando ad altro fine se non per onorarlo. Vi furono degli altri assai di varie religioni e secolari, che contra gli argomentarono a la meglio che seppero, a tutti i quali il Forno accomodatamente rispose, e si diportò di sorte che fu da tutti sommamente commendato, perciò che dottamente le sue conchiusioni sostenne ed ingegnosamente gli intricati nodi degli altrui argomenti disciolse, mostrando in ogni cosa ingegno e memoria. Finita la disputazione, fu il Forno a casa onoratamente condotto, ove a tutti quelli che l’accompagnarono diede una magnifica collazione. Il Peretto, che voleva il dí seguente tornarsene a Bologna, disse al Forno: – Messer Gian Francesco, voi con qualche mio disconcio m’avete condutto a Modena, e sonci venuto volentieri per onorarvi e veder come vi sareste portato nel combattere. Il tutto è andato bene e con vostro grande onore e consolazione dei vostri amici e parenti, del che vosco me n’allegro. Ora che cosa mi mostrarete voi di bello in questa vostra cittá? – Fu risposto e dal Forno e da altri, che erano lá di brigata, che in Modena ordinariamente v’erano di molte belle ed aggraziate donne, il palazzo del signor conte Guido Rangone e fratelli, alcune belle sepolture, bei lavori, una bella torre [p. 69 modifica]e quella cosa che ciascuno sa e sí spesso si nomina, chiare e freschissime fontane. Ultimamente disse uno che ci era un assai bel tempio dei monachi di santo Benedetto, edificato a la moderna. – Or andiamo fin lá, – disse il Peretto. E cosí in compagnia di molti, che per onorarlo andavano seco, s’inviò verso San Pietro. Farò qui un poco di digressione a ciò che maggior piacere de la novella possiate prendere. Era il Peretto un omicciuolo, molto picciolo, con un viso che nel vero aveva piú del giudeo che del cristiano, e vestiva anco ad una certa foggia che teneva piú del rabbi che del filosofo, e andava sempre raso e toso; parlava anco in certo modo che pareva un giudeo tedesco che volesse imparar a parlar italiano. Ora tornando ove lasciai, poi che ebbero il tempio assai a bastanza contemplato, usciti di quello, cominciarono a venir per la strada dritta che conduce al convento dei frati carmelitani; e giunti al mezzo di detta contrada, furono veduti da due assai belle e festevoli donne, che per iscontro l’una a l’altra a dui balconi stavano a pigliar fresco e ragionare. Una di loro, veduto venire il Peretto con sí gran compagnia, disse a la compagna, credendo fermamente ciò che diceva: – Compagna, non vedi Abraam giudeo, come ne viene in qua ben accompagnato? Egli deve oggi aver fatto banchetto, o che fa qualche gran festa a la ebrea, che ha tanta gente seco. – Sí certamente, – rispose l’altra, – egli deve nel vero aver fatto nozze. Mira come ne viene con gravitá – S’appressava tuttavia il Peretto e veniva sotto le finestre ove erano le due donne, le quali fermamente credevano lui esser Abraam giudeo, cosí d’aspetto e di vestire il simigliava. Il perché una de le donne, alquanto piú baldanzosa de la compagna, come il Peretto fu dinanzi a loro, festevolmente ridendo gli disse: – In buona fé, Abraam, se tu ci avessi invitate a coteste tue nozze o sia banchetto che fatto hai, che noi in compagnia de le tue giudee ci saremmo volentieri venute. Noi diciamo bene a te, messer Abraam, che vai cosí gonfio e sul tirato con questi nostri modenesi. – A queste parole il Peretto turbatissimo, alzata la testa, le disse: – Che diavolo dite voi? che diavolo è questo? Sono forse io reputato giudeo da voi, donne modenesi? Che venga fuoco del cielo che tutte v’arda! ché in vero sète animali tanto stolti e goffi e in tutto pazzi, che il savio Platone sta in gran dubio se voi donne deve porre tra gli animali razionevoli o tra le bestie. E di noi piú saggi assai sono i turchi, i quali non permetteno che in cosa civile né criminale a testimonio di donna si debbia dar fede, se bene fossero tutte le donne di Turchia insieme. – Le donne, udendo queste pappolate [p. 70 modifica]e nel viso al Peretto meglio guatando, s’accorsero ch’erano errate e si ritirarono dentro, non si lasciando piú vedere. Ora tutti quelli che accompagnavano il Peretto non si poterono tanto contenere che non si risolvessero in un grandissimo riso de le donne ingannate e del lor filosofo beffato. Egli, tutto pien di corruccio e di mal talento contra le donne modenesi, ne disse tutti quei mali che seppe e puoté, e giurò che mai piú Modena nol vederebbe. Ora non solamente era facil cosa che in poca distanza il Peretto paresse a chi lo vedeva Abraam, e Abraam il Peretto; ma anco secondo che Abraam era intento a l’ingiusto guadagno del bene del prossimo con la voragine de le sue usure, il Peretto altresí mostrava creder poco la immortalitá de l’anima, che è fondamento di tutta la legge cristiana. E forse che nostro signor Iddio permesse che quelle donne profetassero. Ma, sia come si voglia, io credo che piú siano ubligati a la natura quelli che di generoso e liberal aspetto sono dotati, che non quelli i quali, privati di bella presenza, piú tosto mostri che uomini sembrano.


Il Bandello al molto magnifico signore
il signor Gasparo Maino


Aveva il signor Prospero Colonna, l’ultima volta che in Lombardia venne, ove anco passò a meglior vita, tra molti gentiluomini che in corte teneva, un catelano, giovine di grazioso e liberal aspetto e molto prode de la persona, il quale da tutti era chiamato il signor Valenza. Ora quel dí che il signor Lucio Scipione Attellano, compagno ed amico vostro singolare, fece quel suntuoso e luculliano pasto al detto signor Prospero con altri signori e donne di Milano, essendo ne l’ora del merigge un drappello di belle e piacevoli donne con alcuni cortesi giovini a l’ombra dentro il giardino, e narrandosi di molte cose, il signor Valenza, che era di brigata con loro, narrò un atto molto ardito e segnalato che don Giovanni Emanuel fece in Ispagna a la presenza de la sempre memoranda reina Isabella. E perché voi quel dí non vi trovaste a questo pasto, perché eravate in letto con febre terzana, la novella che il signor Valenza raccontò, essendo da me stata scritta, vi mando