Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XXXIX
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e nel viso al Peretto meglio guatando, s’accorsero ch’erano errate e si ritirarono dentro, non si lasciando piú vedere. Ora tutti quelli che accompagnavano il Peretto non si poterono tanto contenere che non si risolvessero in un grandissimo riso de le donne ingannate e del lor filosofo beffato. Egli, tutto pien di corruccio e di mal talento contra le donne modenesi, ne disse tutti quei mali che seppe e puoté, e giurò che mai piú Modena nol vederebbe. Ora non solamente era facil cosa che in poca distanza il Peretto paresse a chi lo vedeva Abraam, e Abraam il Peretto; ma anco secondo che Abraam era intento a l’ingiusto guadagno del bene del prossimo con la voragine de le sue usure, il Peretto altresí mostrava creder poco la immortalitá de l’anima, che è fondamento di tutta la legge cristiana. E forse che nostro signor Iddio permesse che quelle donne profetassero. Ma, sia come si voglia, io credo che piú siano ubligati a la natura quelli che di generoso e liberal aspetto sono dotati, che non quelli i quali, privati di bella presenza, piú tosto mostri che uomini sembrano.
Aveva il signor Prospero Colonna, l’ultima volta che in Lombardia venne, ove anco passò a meglior vita, tra molti gentiluomini che in corte teneva, un catelano, giovine di grazioso e liberal aspetto e molto prode de la persona, il quale da tutti era chiamato il signor Valenza. Ora quel dí che il signor Lucio Scipione Attellano, compagno ed amico vostro singolare, fece quel suntuoso e luculliano pasto al detto signor Prospero con altri signori e donne di Milano, essendo ne l’ora del merigge un drappello di belle e piacevoli donne con alcuni cortesi giovini a l’ombra dentro il giardino, e narrandosi di molte cose, il signor Valenza, che era di brigata con loro, narrò un atto molto ardito e segnalato che don Giovanni Emanuel fece in Ispagna a la presenza de la sempre memoranda reina Isabella. E perché voi quel dí non vi trovaste a questo pasto, perché eravate in letto con febre terzana, la novella che il signor Valenza raccontò, essendo da me stata scritta, vi mando e dono, a ciò voi anco di quella giornata e dei suoi piaceri siate, leggendola, participevole. Ché se l’infermitá vi levò di poter partecipare dei cibi, non vi leverá giá ella che voi non gustiate quei piaceri che l’anime gentili cibano. Curate di sanarvi.Novella XXXIX
Don Giovanni Emanuel fu cavaliero molto nobile, ed appo il re Ferrando e la famosa reina Isabella, i quali acquistarono il reame di Granata, di grande stima e molto da loro amato. Era egli innamorato d’una damigella de la reina e le faceva una gran servitú, armeggiando per lei ed altre cavallerie facendo, come sogliono tutto il dí questi giovini cavalieri per le loro innamorate fare. Ma ella mostrava assai poco gradire la servitú di don Giovanni, o che ella fosse di qualche altro cavaliero innamorata, o che don Giovanni non le piacesse, o che altro se ne fosse cagione. Era don Giovanni molto altero, prode de la sua persona, liberale, magnifico, cortese, gentile, umano ma non molto bello e di statura mediocre. Egli, veggendo la sua servitú non esser grata a colei che sovra ogni cosa amava, si trovava il piú mal contento cavaliero che fosse nei regni di Spagna, e tutto il dí mai non cessava supplicar la sua donna che degnasse accettarlo per servidore e comandargli e far prova di lui, a fine che ella si potesse certificare che egli sovra tutte le donne del mondo la riveriva ed amava. Leonora, – ché cosí la damigella si chiamava, – o per levarsi questa seccaggine de le spalle o pur per far prova de l’amore e fede di don Giovanni, gli disse: – Cavaliero, io non posso cosí di leggero credere che voi tanto mi amiate quanto tutto il dí mi dite, perciò che voi uomini sapete troppo ben dire la vostra ragione e molte volte per ingannar le semplici donne fingete ferventissimamente amare ed ardere in mezzo a grandissime fiamme, e nondimeno sète piú freddi che gelata neve e punto non amate. Ond’io assai dubito che voi non siate uno di quelli che tante n’amano quante ogni dí ne vedono, e vorriano ognora cangiar pasto. Egli sará meglio che voi vi troviate in questa corte un’altra damigella che vi creda, perché io, a dirvi il vero, non sono molto disposta a darvi cosí facil credenza. – Don Giovanni, sentendo cotali ragionamenti, che tutti gli erano acutissimi dardi nel core, non sapeva altro che risponderle se non che ella, per assicurarsi di quanto egli le diceva, gli comandasse tutto quello che piú le era a grado e che da lui si potesse mandare ad essecuzione, assicurandola che tutto quello che uomo par suo far potesse, egli farebbe, o moriria ne l’impresa. Leonora, mossa da cotale leggerezza feminile, cosí gli disse: – Cavaliero, se tu vuoi che io creda che tu m’ami e che il tuo amore sia cosí fervente come tu dici, va e recami cinque teste di mori, che tu da uomo valente abbi a singular battaglia vinti ed uccisi; e alora io crederò esser da te sommamente amata. – Io non so ciò che di questa donna vi dica, in comandando cosí disonesta cosa e perigliosa, e meno quello che io mi debbia pensare di don Giovanni, che ad ubidirla si dispose. Lascerò il giudicio a voi, signore e signori, che qui ora m’ascoltate. Avuto questo sí fatto comandamento, don Giovanni a la donna rispose: – Ed io molto volentieri vi ubidirò. – Né volendo al fatto suo dar troppo indugio, dato ordine a’ fatti suoi, ordinando le cose sue di Spagna, trovate certe sue scuse che a passar in Affrica lo movevano, essendo alora tra i nostri re cattolici e tra i mori litorali una gran tregua, ed il commerzio tra l’una e l’altra gente sicurissimo, con tre servidori, ben fornito di danari, passò lo stretto di Gibilterra e si mise a praticare per quelle terre e regni con i quali era la tregua. Stette colá poco piú d’un anno, e sí bene seppe condurre i fatti suoi, che non solamente cinque volte, ma sette si condusse ne lo steccato e a singolar combattimento ammazzò sette mori, i cui capi serbati, facendoli impir d’erbe a ciò appropriate e di soavi odori, e di sale condire e confettare, con quelli a Medina di Campo, ove alora era la corte, rivarcato felicemente lo stretto, se ne rivenne. Quivi fece intendere a la sua nemica che egli era tornato, avendo molto piú di quello, che ella commesso gli aveva, essequito. Ed in fede del tutto mostrava lettere patenti di tutti i signori e governatori di quei luoghi, ove egli valentemente aveva combattuto. La donna, che forse credeva che don Giovanni mai piú non devesse rivenire, udito quanto egli le mandava a dire, si trovava molto di mala voglia, parendole pure che il cavaliero da dovero l’amasse; né sapeva che si fare, come quella che in effetto non l’amava. Nondimeno raccolse il cavaliero assai graziosamente, ma non si curò molto di vedere quei capi che egli portati aveva. Il fatto per la corte si divolgò, e la reina Isabella volle il tutto intendere e veder le teste, ed agramente riprese don Giovanni che a sí fatto rischio ad istanza d’una donna si fosse senza alcuna ragione posto. Il cavaliero si scusò gettando la colpa in Amore, e cosí come da prima seguitava la sua mal avventurata impresa. Leonora, piú per vergogna che per amore che in lei fosse, faceva assai buon viso a don Giovanni e talora gli faceva di quei favori che publicamente ne le corti da le damigelle a’ loro innamorati si fanno. Ma egli averebbe voluto di quei favori secreti e da dovero, dei quali Leonora glien’era scarsissima. Fu molte fiate il cavaliero ripreso dagli amici suoi con dirgli che egli s’era messo in luogo a lui non convenevole, perciò che la giovane non era di molto nobile schiatta, e che era pazzia la sua in seguir cotal impresa. Ma egli o non voleva o non sapeva o forse non poteva ritirarsi, e tutto il dí a la sua nemica diceva: – Che cosa volete voi, signora mia, che io faccia, per assicurarvi che unicamente v’amo? – Ella, cosí freddamente, gli rispondeva che de l’amor di lui era certa e sicura, e che egli era da lei sovra ogn’altro amato, e in questi parlari andavano passando il tempo. Ora avvenne che essendo la corte in Siviglia, ove il re faceva in certo luogo nodrire alcuni lioni, che la Reina con tutte le sue donne e molti cavalieri andò a vedere essi lioni ne l’ora che il loro governatore dava loro a mangiare. Quivi stando sovra il «corrale» e tuttavia don Giovanni ragionando con Leonora ella, o che non se n’avvedesse o pur che a diletto il si facesse, si lasciò cadere uno dei suoi guanti profumati dentro il cortile dei lioni; poi tutta di mala voglia disse, quasi lagrimando: – Oimè, Dio! chi mi recherá il mio guanto che m’era sí caro? ora conoscerò chi mi vuol bene. – Alora don Giovanni scese a basso e, fattasi aprire la porta, con la cappa al sinistro braccio avvolta e la spada ignuda ne la destra, entrò animosamente nel cortile ove i lioni ancora erano, e senza ricevere da loro nocumento alcuno, con infinito stupore di tutti, pigliò il guanto ed uscí fuori. Poi montato in alto, e a la Leonora fatta una riverenza e baciato il guanto, a quella lo porse. E tutto ad un tratto alzata la mano, le diede su le guancie un grande buffettone e le disse: – Questo, signora, hovvi io dato, a ciò che un’altra volta impariate a non metter i cavalieri miei pari in periglio, – e si partí. La reina, adirata che in presenza di lei una de le sue damigelle fosse stata battuta, fece bandire da la corte il cavaliero per qualche tempo, biasimando la sciocchezza di quello che tra i leoni si fosse posto e poi avesse avuto ardire di batter una sua damigella.
Vi deve sovvenire che quando eravamo a Gibello con il signor Cesare Fieramosca, luogotenente de l’illustrissimo signor Prospero Colonna, nostro commune padrone, e che condannaste a le forche quel siciliano che il cavallo ginnetto aveva rubato, come astretto fuste a rivocare la sentenza e liberarlo. Aveva lo scaltrito siciliano con sí sottil arte trasfigurato il cavallo e di modo fatto parer un altro, che il proprio padrone con difficultá grandissima a pena lo poteva conoscere, sí maestrevolmente con acque forti ed altri suoi mescolamenti cangiò il colore e pelo al cavallo. Il che intendendo il signor Prospero, volle il cavallo vedere, e veduta quella mirabilissima trasformazione, non puoté, ancor che pieno fosse d’ammirazione, contener le risa. E volendo voi che il ladro andasse a dar dei calci al vento, esso signor Prospero disse che altre volte aveva inteso che appo gli spartani era quella cosí divolgata legge: che chi altrui rubava, se era scoperto, fosse strangolato; ma se il furto non si scopriva dopo le debite inquisizioni, e che il ladro fosse ito ad accusarsi, era publicamente lodato e, come ingegnoso, al primo magistrato vacante eletto. Per questo volle il signor Prospero che il siciliano fosse liberato, soggiungendo che gli spartani, che erano severi ed acerbamente i vizii punivano, non intendevano per cotale legge lodar il furto, ma volevano che ogni atto d’ingegno e d’industria e sagacitá fosse rimeritato. E cosí per commissione di detto signor Prospero il siciliano ebbe la vita. Io non vo’ ora disputare se questa legge fu ben fatta o no, parendomi che ci siano argomenti per la parte affermativa e per la negativa, che forse cosí di leggero non si potrebbe sciogliere. Bene si vede oggidí che quando alcun ladro scioccamente ruba e pare che a posta il faccia per essere scoperto, che ciascuno dice che merita morire; ma se uno sottilmente e con ingegno ruba e per disgrazia sia scoperto e preso, la morte di cotestui a tutti duole. Ma tornando al siciliano, variamente de la liberazione sua tra’ soldati ragionandosi, il nostro gentilissimo Girolamo Gargano narrò un furto fatto in Calabria, dicendo che se il Caruleio si fosse