Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XXXVII

Novella XXXVII - Teodoro Zizino, sprezzato dalla sua innamorata, s’ammazza in Raglisi
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[p. 60 modifica]numero d’uomini ne la cittá di Parigi si poteria prevalere che portassero arme, volle che tutti facessero la mostra armati, chi a piedi, chi a cavallo. E di questa mostra diede la commissione al Balva, che ancora non era cardinale, ma solamente vescovo. Il che sentendo monsignor di Cabannes, gran maestro di Franza, se ne turbò forte, conoscendo che questo non era ufficio di vescovo. Tuttavia non volle contradire al re né dirgli che non istesse bene ciò che egli faceva. Ma accostatosi a lui, riverentemente gli disse: – Sere, io vi supplico umilissimamente che sia di vostro piacere di farmi una grazia, che a me sará di grandissimo contento. – E che cosa volete voi, – rispose il re, – che io vi faccia? – Io vi supplico, – soggiunse il gran maestro, – che voi degnate darmi commessione che io vada al vescovado che è di monsignor Balva, a riformare i suoi canonici e visitarli. – Come può esser questo? – disse il re. – La commissione non sarebbe proprio né a voi convenevole, ché non istá bene che un secolare non sacro emendi le persone ecclesiastiche. – Sí, sará, – rispose il gran maestro, – cosí propria e conveniente a me, come è quella che voi commessa avete al vescovo, che vada a far la mostra ed ordinare le genti d’arme. – Piacque al re l’arguzia e rivocò la commissione. Ché forse, quando monsignor Cabannes avesse detto: – Sire cotesto non istá bene; voi nol devete fare: mandateci un commissario de le mostre, – o simil’altre parole, il re, che era capriccioso, si sarebbe adirato e averebbe voluto che la commissione data al vescovo si fosse essequita.


Il Bandello al magnifico e vertuoso
messer Tomaso Pagliearo


Suole il nostro messer Giovanni Figino fare spesso il viaggio da Ragusi a Milano, essendo giá molti anni che a Ragusi tien casa, ove di continovo ha un fondaco di mercanzie d’Oriente. E nonostante che in Milano sia di nobilissima ed antica famiglia e d’oneste ricchezze possessore, nondimeno egli molto profittevole ed onoratamente l’essercizio di mercante fa, e sempre, quando viene, porta a donar agli amici suoi e parenti mille belle cosette, e a me, che certo non mediocremente ama, o porta o manda ogni anno un mazzo di calami di [p. 61 modifica]quelli del Nilo, i quali per iscrivere sono perfettissimi. Ora, essendo questi dí venuto secondo la sua costuma di Levante, e ritrovandosi con molti gentiluomini e gentildonne di brigata in casa de la signora Ippolita Bentivoglia, ella lo domandò che devesse dire qualche cosa di nuovo de le novelle di Ragusi. Onde egli per ubidire rispose che narrerebbe un pietoso caso nuovamente in Ragusi avvenuto, essendo egli lá e conoscendo tutti quelli che ne l’accidente intervennero. Il perché, fatto da la compagnia silenzio, cominciò messer Giovanni a narrare la sua istoria; la quale, finita, empí di meraviglia e pietá tutta la compagnia. Finita che fu, la signora Ippolita mi comandò che io la devessi scrivere ed al numero de le mie novelle aggiungere; il che quell’istesso dí, essendo la novella non molto lunga, feci. Pensando poi a cui io quella devessi donare, voi subito m’occorreste, a cui io tanto sono debitore, sí per l’amore che sempre portato m’avete ed altresí per molti piaceri da voi ricevuti, i quali mi vi rendono eternamente ubligato. Quella adunque degnarete con quell’animo prendere che io al nome vostro l’ho intitolata. Vedranno costoro che cosí leggermente ne l’amorosa pania s’invischiano, quanto perigliose siano queste fiamme d’amore, quando regolatamente non sono governate. E certamente egli è pur un gran fatto cotesto: che tutto il dí veggiamo mille scandali ne le cose amorose, che sono mal governate, accadere, e non ci sappiamo poi ne le nostre concupiscibili passioni regolare. Ma dove io dissi «non ci sappiamo», deveva io dire «non ci vogliamo», perciò che se volessimo, non sarebbe chi ne sforzasse giá mai. Desideriamo adunque che il nostro signor Iddio per sua benignitá ci doni la mente sana in corpo sano. Né piú di questo; ma ascoltiamo ciò che il nostro Figino ci vuol dire di questa sua novella. Feliciti nostro signor Iddio tutti i vostri pensieri.Novella XXXVII

Teodoro Zizimo sprezzato da la sua innamorata
s’ammazza in Ragusa.


Poi che, signora mia eccellentissima, v’è piaciuto comandarmi che io con qualche nuova de le cose di Ragusi insieme con questa bellissima compagnia v’intertenga, ancora che io non sia in narrar novelle essercitato, tuttavia, volendo ai vostri comandamenti quanto per me si può ubidire, dirò brevemente uno strano e [p. 62 modifica]pietoso accidente quest’anno ne la cittá di Ragusi avvenuto. E perché la cosa fu per tutta la contrada publica e notissima, io porrò pure i veri nomi de le persone a cui il caso avvenne. Dicovi adunque che in Ragusi erano dui mercadanti greci, che di continuo se ne stavano insieme e mostravano amarsi molto cordialmente, e le loro faccende e ragioni de la mercadanzia facevano di brigata. Il piú attempato, che perciò non passava trentasei anni, si chiamava Demetrio Lissi, e l’altro, che non arrivava al tregesimo anno, si domandava Teodoro Zizimo. Aveva Demetrio una bellissima giovane per moglie, chiamata Cassandra, la quale, essendo stimata la piú bella donna di tutto il paese, era anco tenuta onestissima; e con tutto questo ella era domestichissima e piacevole, e quella che meglio sapeva intertenere una compagnia che nessuna altra de la contrada. Ora, praticando tutto il dí Teodoro in casa di Demetrio, e veggendo la beltá e i leggiadri costumi e le belle maniere di Cassandra, fieramente di lei s’accese. E come colui che era gentile ed assai discreto e conosceva quanto male a lui si convenisse di far cosa che in danno cedesse o disonore al suo compagno, ardendo miseramente e non osando le sue passioni a la donna scoprire, tutto di giorno in giorno si struggeva. Egli, perdutone il dormire, il mangiare e il bere, divenne magro, malinconico e quasi come una fantasima. Demetrio gli domandò piú volte la cagione di questo suo male, ma egli si scusava dicendo che non sapeva donde venisse. La donna anco gli diceva alcuna volta: – Teodoro, mò che cosa è questa, che tu sei divenuto cosí malinconoso e disfatto, che solevi esser l’allegria del mondo? – Egli, invece di risponderle, fieramente sospirava. Pur un dí, avendo deliberato prima che morisse voler il suo amore a Cassandra discoprire, e dicendoli la donna qual si sentiva, egli cosí le rispose: – Cassandra, io starei assai bene se mi conoscessi aver la grazia tua, senza la quale io mi sento manifestamente perire. – E qui, con quel miglior modo che seppe, le narrò tutto il suo amore, pregandola affettuosamente che di lui volesse aver compassione. La donna, udendo sí fatta ed impensata cosa, agramente lo riprese di questo suo folle amore, e che questa non era la fede che Demetrio in lui aveva. Pertanto che si distogliesse da questa sua openione e non le ne parlasse mai piú, perché s’affaticherebbe indarno, non essendo ella disposta a compiacere del suo amore a persona del mondo, se non al suo consorte. Teodoro, avuta da la donna sua questa risposta: – Or via, sia con Dio! – le disse. – Voi volete ch’io mora, ed io son disposto a morire, conoscendo chiaramente che il tormento che, [p. 63 modifica]amando e non essendo amato, da me si soffre, a lungo andare mi condurrá a morte. Ma egli è pur meglio in un tratto uscir di pena e finirla che mille volte il dí morire. – Cassandra, pensando che egli queste parole dicesse come fanno i giovini, non se ne curò e gli disse che attendesse ad altro, ché queste erano follie da pazzi. E cosí, sovravenendo alcuni, il ragionamento si finí. Restò Teodoro molto di mala voglia e quasi disperato, veggendo che di questo suo amore non era per coglier frutto alcuno. E non si possendo d’amar la donna distorre e talora sperando col tempo renderla pieghevole ai suoi appetiti, andava con false imaginazioni ingannando se stesso ed aspettando un’altra commoditá di poter a Cassandra parlare. Ella, ancor che lo vedesse da quello che esser soleva tutto cambiato, nondimeno non si poteva piegare ad amarlo se non come compagno ed amico del marito. Ora, essendo Demetrio cavalcato fuor de la cittá, Teodoro, pensando che averebbe gran commoditá di ragionar con Cassandra, che era rimasa con una sola fante in casa, se n’andò a trovarla, e la ritrovò che cuciva certi suoi lavori. Quivi postosi a sedere, andando la fante innanzi e indietro per cotali servigi che ne le case le massare fanno, entrò egli a supplicar essa Cassandra che di lui avesse pietá. La donna lo lasciò buona pezza cicalare, senza dirgli motto alcuno. A la fine, mezza adirata, gli disse: – Teodoro, se tu vai dietro a queste tue pazzie, io mi ritirerò ne la mia camera e mai piú non verrò ove tu ti sia, e sarai cagione che Demetrio s’avvederá del poco rispetto che tu gli porti. Lascia queste fantasie e attendi a la mercadanzia come di prima facevi, e farai molto meglio. Io te l’ho detto e di nuovo te lo ridico, ch’io non sono per compiacerti in questi tuoi disonesti appetiti giá mai. Fa adunque pensiero che ciò che io ora ti dico sia il vangelo, e metti il tuo core in pace. – Altre assai parole Cassandra disse, che pur tutte tendevano a questo fine: che Teodoro si levasse da questa impresa e attendesse ad altro. Mentre che Cassandra faceva il suo ragionamento, tutte le parole che diceva erano mortalissime ferite nel core del povero amante, che miseramente lo trafiggevano. Onde, pensando fra sé essergli impossibile a poter piú l’accerbissime sue passioni sofferire, ebro di doglia e da quella accecato, preso un pugnale che a lato portava: – Eccoti, Cassandra, – disse, – il fine de le mie pene, perciò che questo mi trarrá fuori d’ogni tormento. – E col fine de le parole alzando il destro braccio, s’andò a ferire nel petto a la banda del core. Cassandra, veggendo cosí estrema [p. 64 modifica]pazzia, saltò su e gli prese il braccio per vietar che non si ferisse; ma non puoté esser cosí presta, né ebbe tanta forza che egli non si facesse una gran piaga nel petto. Vero è che la ferita fu sotto la poppa destra e andava verso il braccio, di modo che non si profondò troppo nel petto né fu mortale. Il sangue uscí in gran copia; pure si ristagnò in poco d’ora. Corse la fante a questo spettacolo e dicendo: – Oimè, che cosa è questa? – Teodoro, a la presenza di Cassandra, le narrò tutta l’istoria del suo amore, astringendola a pregar la sua padrona che di lui avesse pietade. La fante, che era buona compagna, mossa a compassione del povero ferito, a la sua donna si rivoltò e cominciò a favore de l’infermo a portar gagliardamente i pollastri. Da l’altra banda Teodoro non mancava a se stesso, aiutandosi con la lingua. Ora, che che se ne fosse cagione, parve che Cassandra alquanto s’intenerisse, e cominciò a confortar l’amante, essortandolo a far buon animo e attendere a guarire, e che piú non tardasse d’andare a farsi medicare. Teodoro non si voleva partire se ella non gli prometteva averlo per servidore. Tanto seppe dire, aiutandolo la buona fante, che Cassandra gli promise, come fosse guarito, di compiacergli. Si partí con questa promessa l’amante e lieto a casa n’andò, e ordita certa favola, che la notte precedente era stato ferito, fece venir uno cirugico, dal quale fu diligentemente medicato. E perciò che la piaga non era molto profonda, in poco di tempo guarí. Come fu guarito, ritornò al suo solito essercizio, tentando ogni dí Cassandra che gli volesse attendere quanto promesso gli aveva. Ella che, mossa da pietá e stimolata da la fante, aveva detto quelle buone parole per confortarlo, non giá perché avesse animo di far cosa meno che onesta, si ritrovava tanto di mala voglia che non sapeva ove dar del capo. A la fine, non sapendo che piú farsi, non la cessando mai Teodoro di molestare e la fantesca sempre essortandola a compiacergli, disse un giorno a l’amante: – Teodoro, tu sei pur deliberato non mi lasciar vivere, tanta seccaggine mi dai! Io son certa che se a mio marito dirò questa cosa, che tra lui e te nascerá mortale nemistá, ed io mai piú non sarò lieta. Per Dio, lasciami stare, io te ne prego, e non mi dar piú molestia; altramente tu sarai cagione che io farò cosa per la quale mai piú né tu né io saremo lieti. Io prima sono disposta di morire che macchiar l’onor mio. – Partissi alora Teodoro e, andato al palazzo, prese un notaio ed autenticamente fece libera donazione di quanto aveva a Cassandra, e poi andatosene a casa, con quel pugnale col quale prima s’era ferito, non gli essendo chi l’impedisse, [p. 65 modifica]s’ammazzò. Divolgatasi poi la cosa per via de la fante, Demetrio, conosciuta l’onestá di Cassandra, volle che ella rinonziasse a la donazione e la donasse ad un picciolo fanciullo, figliuolo d’un fratello di Teodoro; il che ella fece molto volontieri. Di questo fu Demetrio molto da tutti lodato, e Cassandra restò appo ciascuno in grandissima fama di bella giovane e d’onesta.


Il Bandello al reverendo padre
fra Francesco Silvestro da Ferrara
maestro generale de l’ordine di san Domenico


Si legge, padre mio osservandissimo, ne le croniche mantovane dal Platina composte, che Sordello Vesconte da Goito, il quale contra quell’immanissimo e crudelissimo tiranno Ecelino da Romano cosí magnificamente diffese la cittá di Mantova, fu uomo di picciola statura e d’aspetto non molto liberale, ma altrimenti di bellissimo ingegno e di forze corporali a’ suoi tempi senza pari. Onde essendo la fama de le sue prodezze per tutta Europa grandissima, capitò ne la corte del re di Francia, al quale, facendo riverenza, disse che era Sordello Vesconte. Il re, che dei fatti mirandi di Sordello aveva inteso cose assai e s’aveva imaginato ne l’animo suo che devesse esser uomo di grande statura, non puoté credere che persona sí picciola e tanto difforme fosse valente. E per questo non gli fece molta accoglienza, anzi quasi lo disprezzò. Del che il buon Sordello avvedutosi, disse: – Sire, non fate ancora giudicio di me fin ch’io vado in Italia e meno in qua testimonii a farvi fede che io sono Sordello del quale avete udito ragionar tanto. Ma se prima ch’io parta, v’è alcuno di questi vostri baroni che non creda che io sia Sordello, facciasi avanti e provi le sue forze con le mie in quel modo che meglio a lui piacerá. – Era un franzese quivi molto grande di corpo e d’aspetto assai bello, che in corte era tenuto il piú valente giostratore che ci fosse. Costui, udendo la bravata di Sordello e ne l’aspetto poco prezzandolo, disse che farebbe seco un colpo di lancia e che poi giocarebbe di stocco. Accettò Sordello l’invito e s’armò, e cosí a la presenza del re