Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella LII

Novella LII - Maomet africano signore di Dubdù vuol rubare a Saich re di Fez una città, e il re l’assedia in Dubdù, e gli usa una grandissima liberalità
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[p. 294 modifica]Rocco che le compiacesse; il che egli fece. Come ella ebbe in mano la scrittura, ne lesse piano otto o diece linee; poi disse: – Ascoltate, signori, e udirete se mai fu al mondo la più mala lingua di quella di Rocco. – E secondo che deveva leggere il male di se stessa, mostrando non sapere che quivi fosse il Romeo, disse ordinatamente tutte le cose che Rocco aveva in tante volte in vituperio d’esso Romeo, biasimando con agre parole la miseria di quello. Pareva proprio che ella ciò che diceva lo leggesse su la scrittura. E quando ebbe detto assai, serrata la scrittura, disse: – Che vi pare, signori, di questo ribaldo? non vi pare egli che meriti mille forche? Io non conosco questo Romeo, ma io intendo che è gentilissima persona e che in casa sua si vive molto civilmente. E questo ribaldo non si vergogna dir male d’un uomo da bene e d’uno ne la cui casa egli ha il vivere. Pensate se è tristo. – Era Rocco tutto fuor di sè, mezzo stordito, nè sapeva che dirsi. Medesimamente il Romeo, che sapeva esser vere le cose che de la sua miseria s’erano dette, senza prender congedo se n’andò, e il simile fece Rocco; di sorte che nè l’uno nè l’altro assaggiò boccone de la preparata cena, dove si disse che Rocco aveva fatta la zuppa, come si dice, per le gatte. Cenarono quelli che rimasero e con Isabella istessa risero pur assai, che sì bene avesse saputo beffar Rocco e salvar se stessa.


Il Bandello al gentilissimo signore il signor Angelo dal Bufalo


Essendo noi, come sapete, questi dì passati a Casalmaggiore, la valorosa eroina, la signora Antonia Bauzia marchesa di Gonzaga, avendo dal re cristianissimo comprato con danari de la sua dote quel castello, quivi fece le suntuose nozze de la molto gentile sua figliuola la signora Camilla Gonzaga nel marchese de la Tripalda, de l’onorata e real famiglia dei Castrioti che molti secoli ha l’Epiro signoreggiato. Erano quivi i tre fratelli de la sposa, tre veramente magnanimi eroi, il signor Lodovico di Sabioneda, il signor Federico di Bozolo e la bontà ed amorevolezza del mondo, il signor Pirro di Gazuolo, con una onorevole compagnia di molti signori [p. 295 modifica]e gentiluomini. E per esser il caldo grandissimo, dopo che si fu desinato, essendo tutti in una gran sala terrena assai, secondo la stagione, fresca, o almeno de l’altre stanze assai men calda, s’entrò in un bellissimo ragionamento de la liberalità e magnificenza d’alcuni grandissimi prencipi, e massimamente di quelli che, avuti i proprii nemici ne le mani, non solamente loro avevano perdonato e donatogli la vita, ma gli avevano rimessi nei regni e dominii già perduti o datogli aiuto a ricuperargli. Dagli antichi si venne ai moderni e fu con general lode da tutti sommamente lodato Filippo Maria Vesconte, terzo duca di Milano, il quale, avendo ne le mani per prigioni Alfonso di Ragona con altri re e tanti prencipi, baroni e signori, non solamente non fece lor pagare riscatto alcuno, ma onoratamente fece albergar ciascuno secondo il grado che aveva, e con lauti e luculliani conviti molti dì festeggiò, dando loro di feste e giuochi ogni trastullo che fosse possibile. Poi liberamente tutti lasciò ritornar a casa, ed aiutò Alfonso a ricuperar il regno di Napoli. Fu anco meravigliosamente celebrato il magno Lorenzo Medici, padre di Lione decimo, sommo pontefice, il quale fu moderatore e capo sapientissimo de la republica fiorentina, e quella con tanta riputazione sempre resse. Aveva Ferrando vecchio di Ragona, re di Napoli, con papa Sisto quarto fatta collegazione per levar in ogni modo Lorenzo de’ Medici dal governo di Firenze. E messosi un grosso essercito insieme col quale fu assalita la Toscana, ed avendo già occupate molte terre e castella del dominio dei fiorentini, Alfonso duca di Calabria, con astuzia e favore d’alcuni cittadini, era con parte de l’essercito entrato in Siena, tuttavia guerreggiando i fiorentini. Lorenzo, che si vedeva abbandonato da’ veneziani, e da Milano non isperava poter esser soccorso per la morte del duca Galeazzo Sforza e discordia dei governatori del pupillo, poi che molti pensieri ebbe fatto per liberar la patria, deliberò, poi che i nemici dicevano non ricercar altro se non che Lorenzo non governasse, andar egli in persona a Napoli a ritrovar Ferrando. E messo in Firenze quell’ordine che gli parve il meglio, andò giù per l’Arno a Pisa, ove, preso un bregantino, navigò a Napoli. Giunto quivi con prospera navigazione e smontato in terra, se n’andò di lungo, senza dar indugio al fatto, a trovar nel castello il re Ferrando, al quale, trovatolo in sala con i suoi baroni, fece la convenevol riverenza e gli disse: – Sacro re, io son Lorenzo de’ Medici, venuto al tuo cospetto come a tribunale giustissimo, e ti supplico che degni prestarmi grata udienza. – Ferrando si riempì d’estremo stupore al nome di Lorenzo Medici, e non poteva imaginarsi come egli fosse stato oso venirgli a l’improviso, senza salvocondutto nè [p. 296 modifica]sicurezza veruna, ne le mani. Tuttavia, mosso da non so che, lo ricevette umanamente e, ritiratosi ad una finestra, li disse che parlasse quanto voleva, chè pazientemente l’ascolterebbe. Era il magno Lorenzo non solamente di varie scienze dotato, ma era bel parlatore ed eloquentissimo. Di tale adunque maniera propose il caso suo al re, e sì bene gli seppe le ragioni sue dimostrare, che avendo poi più volte insieme le cose de l’Italia discorse e disputato Lorenzo degli umori dei prencipi italiani e dei popoli, e quanto si poteva sperar ne la pace e temer ne la guerra, Ferrando si meravigliò molto più che prima de la grandezza de l’animo e de la destrezza de l’ingegno e de la gravità e saldezza del buon giudizio d’esso Lorenzo, e quello stimò essere de le segnalate persone d’Italia. Il perchè conchiuse tra sè esser più tosto da lasciar andar Lorenzo per amico che da ritenerlo per nemico. Così, tenutolo alcun tempo appo sè, con ogni generazione di beneficio e dimostrazione d’amore se lo guadagnò, che fra loro nacquero accordi perpetui e commune conservazione degli stati loro. E così Lorenzo, se da Firenze s’era partito grande, vi tornò grandissimo. In questi ragionamenti siccome il duca Filippo e Ferrando furono lodati, fu per lo contrario notato di poca liberalità Ludovico decimosecondo che usò contra Ludovico Sforza, che egli in prigione lasciò morire. Era a questi ragionamenti presente messer Bartolomeo Bozzo, uomo genovese, il quale a proposito di ciò che si parlava narrò una bella istoria a’ giorni nostri avvenuta. E perchè mi parve degna di memoria e poco tra i latini divolgata, io la scrissi. Pensando poi a cui donar la devessi, voi subito a la mente mi occorreste, come uno dei cortesi e liberali gentiluomini che io mi conosca a questi tempi. E perchè vi conosco, per la lunga pratica che insieme abbiamo avuto, uomo nemico de le cerimonie, non vi dirò altro. L’istoria adunque al nome vostro dedico e consacro, cominciando con effetto a riconoscer le molte cortesie e piaceri da voi ricevuti.

Maomet affricano signore di Dubdù vuol rubare a Saich re di Fez una città, e il re l’assedia in Dubdù e gli usa una grandissima liberalità.


M’hanno mosso, signori miei, i vostri ragionamenti a raccontarvi, al proposito de le cortesie del duca e del re, una istoria avvenuta in Affrica nel tempo che io in quelle bande trafficava. Io per tutte quelle provincie affricane e regni ho praticato venti [p. 297 modifica]anni almeno, e credo che ci siano poche città che vedute non abbia, ed annotati molti lor costumi. E tra l’altre cose che ci ho trovate, con isperienza ho conosciuta una grandissima cortesia e lealtà in quei mercadanti affricani. Medesimamente è sicurissimo il praticare con i gentiluomini del paese, con ciò sia cosa che per l’ordinario sono buone persone, costumate, e vivono molto civilmente e vestono, a la foggia loro, politamente. Io confessar vi posso d’aver trovato in luoghi assai de l’Affrica vie più d’amorevolezza e carità che – e mi vergogno a dirlo – non ho trovato tra’ cristiani. Essi servano la legge loro maomettana molto meglio che non facciamo noi cristiani la nostra, e sono per lo più grandissimi elemosinieri e reali osservatori di tutti i contratti che con loro si fanno. E quello che parlo, lo dico per la più parte, perchè anco tra loro se ne trovano di giuntatori e tristi, e massimamente chi s’avviene con gli arabi, che per tutto sono dispersi. Ora, venendo a quello che narrarvi ho deliberato, vi dico che non molto lunge dal gran regno di Fez è una città che gli affricani chiamano Dubdù, città antica e posta sopra un alto monte che molto è abondevole di freschissimi fonti, che per la città a commodo e utile degli abitanti discorrono. Di questa città è lungo tempo che ne furono signori alcuni gentiluomini de la casa dei Beni Guertaggien, che fin adesso la possedono. Quando la casa di Marino, che perdette il regno di Fez, fu quasi distrutta, gli arabi fecero ogni sforzo per occupar Dubdù; ma Musè Ibnù Camnù, che ne era signore, valorosamente si diffese, di modo che costrinse gli arabi a far alcune convenzioni e più non offender quella città nè altri suoi luoghi. Lasciò Musè dopo la morte signore di Dubdù un suo figliuolo chiamato Acmed, di costumi e di valore al padre assai simile, che in grandissima pace conservò il suo stato insino a la morte. A Acmed successe nel dominio, per non aver figliuoli, un suo cugino nomato Maomet, giovine invero d’alto core, il quale ne la milizia fu molto eccellente e prode de la sua persona. Acquistò costui molte città e castella ai piè del monte Atlante, verso mezzogiorno, nei confini di Numidia. Egli adornò pur assai Dubdù di bellissimi edificii e la ridusse a più civilità di quello che era. Dimostrò tanta liberalità e cortesia agli stranieri e a quelli che passavano per la sua città, onorando tutti secondo quello che valevano e facendo le spese ad infiniti, che la fama de le sue' 'cortesie volava per tutti quei contorni. Io in compagnia d’alcuni gentiluomini di Fez una volta ci capitai e fui alloggiato nel suo palazzo con i compagni, dove fummo tanto onoratamente trattati quanto dir si possa. E [p. 298 modifica]perchè intese che io era cristiano e genovese, parlò buona pezza meco de le cose d’Italia e del modo nostro di vivere, usando sempre tanta umanità verso tutti che era cosa mirabile. A me in particolare fece molte offerte. Ora perchè l’uomo assai spesso non sa vedere nè conoscer il suo bene e ne la prospera fortuna da sè s’acceca, e nessuna maggior peste è ne le corti dei signori come è l’adulazione, venne voglia a Maomet d’occupare Tezà, città vicina al monte Atlante circa cinque miglia, che era del re di Fez. Communicò questo suo pensiero con alcuni dei suoi, i quali, non considerata la potenzia e grandissimo dominio del re di Fez, al quale in modo veruno Maomet non era da esser agguagliato, con sue vane adulazioni il persuasero a far l’impresa. E perchè ogni settimana a Tezà si costuma di far un solenne mercato di frumento, ove concorrono assai popoli e massimamente montanari, indussero Maomet che si disponesse in abito da montanaro d’andar al mercato e che essi, con gente che meneriano seco, assalirebbero il capitano di Tezà, e che senza dubio prenderiano la città, perchè di dentro egli aveva una gran parte del popolo che in suo favore, udito il nome di Maomet e vedutolo presente, si levaria. Ma che che si fosse, questo trattato pervenne a le orecchie a Saich, de la famiglia di Quattas, re di Fez e padre del re che oggidì regna. Saich, inteso il pericolo, di subito fece metter soldati a la guardia di Tezà e, congregato un grosso essercito, andò ai danni di Maomet. Ed ancora che egli fosse còlto a l’improviso, sostenne nondimeno animosamente l’assedio ed assalto dei soldati del re. Come v’ho già detto, Dubdù è posta sul monte e molto forte per il sito; onde fu una e due volte la gente del re da quelli de la città, con la morte molti di quei di fuori, ributtata. Ma il re rinforzò il suo campo di molti balestrieri ed archibugeri, e molto danno dava a la città, deliberato di non partirsi da quell’assedio se prima non se ne impadroniva e pigliava Maomet prigioniero. Si facevano assai sovente de le scaramuccie, e per l’ordinario quelli di dentro avevano il peggio. Il che veggendo Maomet e meglio considerando i casi suoi, s’avvide d’aver commesso un grandissimo errore a voler mover guerra a Saich re di Fez, al quale in conto veruno non si poteva parangonare. E pensando e ripensando mille e mille modi per mezzo dei quali si potesse da la presente guerra disbrigarsi ed in buona amicizia restar col detto re, a la fine non gli parendo trovarne nessuno che profitto a’ casi suoi potesse recare, restava molto discontento. A la fine, dopo infiniti discorsi, gli cadde in animo un mezzo, sperando con quello aver ritrovata [p. 299 modifica]la via de la sua salute; e questo era che egli si mettesse in mano di Saich ed isperimentasse la cortesia e misericordia di quello. Fatta cotale tra sè deliberazione, scrisse una lettera al re Saich di propria mano e, vestitosi in abito di messaggiero, andò egli medesimo come messo del signor Dubdù, sapendo che il re non lo conosceva. E passando per l’oste del nemico, s’appresentò al padiglione reale, e a la presenza del re fu introdutto. Quivi, fatta la debita riverenza al re, gli appresentò la sua lettera, la quale era credenziale. Il re, presa la lettera, quella ad un suo segretario porse, commettendogli che la leggesse. Letta che quella fu a la presenza di quelli che presenti erano, il re rivolto a Maomet, pensando che fosse messaggiero, gli disse: – Dimmi, che ti pare del tuo signore, che tanto s’è insuperbito che ha preso ardire di volermi far guerra? – A questo rispose Maomet: – Invero, o re, che il mio signore m’è paruto un gran pazzo a cercar d’offenderti, devendo sempre tenerti per amico. Ma il diavolo ha potere d’ingannare così i grandi come i piccioli, ed ha levato il cervello al mio signore, e sforzato a far questa sì gran pazzia. – Per Dio,' '– soggiunse il re, – se io lo posso aver ne le mani, come senza dubio l’averò, perchè non mi può scappare, io gli darò sì fatto castigo che a tutto sarà in essempio di non prender l’armi contra il vicino senza giustizia. Io ti prometto che a brano a brano gli farò spiccare le carni di dosso e lo terrò più vivo che potrò, per maggior suo tormento. – Oh! – replicò Maomet, – se egli umilmente venisse ai tuoi piedi, e prostrato in terra ti chiedesse perdono de le sue pazzie, e ti supplicasse che gli avessi pietà, come lo trattaresti tu? – A questo disse il re: – Io giuro per questa mia testa che, se egli in total maniera dimostrasse riconoscimento del suo folle errore, non solamente gli perdonerei l’ingiurie a me fatte, ma oltra il perdono farei seco parentado, dando due mie figliuole per mogli ai dui suoi figliuoli che intendo che ha, e lo confermarei nel suo stato, dandogli anco quella dote che al grado mio convenisse. Ma non mi posso persuadere che egli mai sofferisca d’umiliarsi, così è superbo ed impazzito. – Non tardò Maomet a rispondere, e disse: – Egli farà il tutto, se tu l’assicuri di mantenergli la tua parola in presenza dei maggiori de la tua corte. – Io penso, – seguitò il re, – che gli possano bastare questi quattro che tra gli altri sono qui, cioè il mio maggior segretario, l’altro il mio general capitano de la cavalleria, il terzo che è mio suocero ed il quarto il gran giudice e sacerdote di Fez. – Udito questo, Maomet si gettò ai piedi del re e con lagrimante voce disse: – Re, ecco che io sono il peccatore che a la tua clemenza ricorro. – Il re alora [p. 300 modifica]lo sollevò ed amorevolmente, con accomodate parole, abbracciò e basciò. Poi, fatte venir le sue due figliuole e Maomet i figliuoli, si fecero le nozze con grandissima solennità. Ebbe dapoi Saich sempre per parente ed amico Maomet, e oggidì fa il medesimo il figliuolo d’esso Saich, che è successo al padre suo nel reame di Fez.


Il Bandello al molto illustre ed eccellente signore il signor Galeazzo Sforza di Pesaro


Se le trascuraggini e disordini che tutto il dì nascer si veggiono dal pestifero morbo de la gelosia, non fossero a tutto il mondo manifesti e massimamente a voi, che così copiosamente nei passati giorni ne parlaste, quel dì che desinaste con il signor Alessandro Bentivoglio e con la signora Ippolita Sforza sua consorte nel lor giardino di porta Comasca, io mi sforzarei con più lungo dire di fargli aperti e chiari. Ma perchè voi gli sapete e conoscete manifestamente di quanto male la gelosia sia cagione, e come assai sovente il marito indebitamente ingelosito fa che la moglie, piena di stizza e di dispetto, diviene in tanta disperazione che si delibera di far de le cose che prima non averia pensato già mai, io per or non ne dirò troppe cose. Voglio bene che chi ha moglie a lato, tenga aperti gli occhi e consideri le azioni di quella, e misuri destramente i passi e gli atti che gli vede fare, e con giudizioso occhio misuri e consideri il tutto, da ogni passione alieno, e che sovra il tutto metta mente che per sua dapocaggine e tristi portamenti non le dia occasione di far male. Deve anco considerare, sì come voi saggiamente alora diceste, che essa moglie non gli è data per ischiava nè per serva, ma per compagna e per consorte. E, veramente, tutti i mariti che questa considerazione averanno e la metteranno in opera, potranno notte e dì sicuramente attendere agli affari loro, senza temere che le moglieri gli mandino a Corneto. E ragionandosi variamente dei mali che pervengon da la sfrenata gelosia, messer Venturino da Pesaro vostro soggetto, che de la lingua volgare si diletta, poi che voi in camera

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