Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella LI
Questo testo è incompleto. |
◄ | Parte II - Novella L | Parte II - Novella LII | ► |
Sogliono ordinariamente le donne, còlte a l’improviso, aver secondo i casi le risposte pronte, e in un subito proveder a quanto bisogna; e dando loro questo la natura, non deve esser dubio che più provide e più accorte saranno quelle che più averanno praticato. Ma qual donne praticano più diversità di cervelli de le cortegiane de la corte di Roma? Quivi communemente concorrono tutti i belli e i più elevati ingegni del mondo, essendo Roma commune patria di tutti; quivi d’ogni sorte le buone lettere fioriscono, così latine come greche e volgari; quivi sono iureconsulti eccellenti, filosofi e naturali e morali consumatissimi; quivi pittori si veggiono miracolosi. Ci sono scultori che nel marmo cavano i volti vivi, e i conflatori col metallo gittano ciò che vogliono. Ma per non raccontare d’una in una l’arti, elle in perfezione tutte ci sono, di maniera che in ogni specie di vertù chi vuole farsi eccellente vada ad imparar a Roma. E perciò che, come dice l’ingegnoso sulmonese, avviene assai spesso ch’un medesimo terreno produce la rosa e l’ortica, così anco a Roma ci sono uomini buoni e tristi. Ma lasciando il resto, parlerò de le cortegiane che, per dar qualche titolo d’onestà a l’essercizio loro, s’hanno usurpato questo nome di «cortegiane». Sono per l’ordinario tutte più avide del danaro che non sono le mosche del mèle, e se casca loro ne le mani alcun giovine di prima piuma, che non sia più che avveduto e scaltrito, vi so dire che senza oprar rasoio lo radono fin sul vivo e ne fanno anotomia. Ora ragionandosi in Milano in una onorata compagnia di molti gentiluomini d’alcune cortegiane e dei loro modi che assai sovente usano, il capitano Gian Battista Olivo, uomo molto faceto e gentile, narrò una novelletta a Roma accaduta, la quale avendo io scritta secondo la narrazione da lui fatta, ho voluto che sia vostra. E così ve la mando e dono, essendo tutte le cose mie vostre. State sano.
Chi volesse far il catalogo de le cose che fanno le cortegiane in tutti i luoghi ove si trovano, averebbe per mio giudizio troppo che fare, e quando si crederia d’aver finito, pur alora resteria più a dire che quanto detto si fosse. Ma vegnamo a qualche atto particolare, e narriamo alcuna facezia di quelle che queste barbiere fanno. Tra l’altre che a Roma sono, ce n’è una detta Isabella da Luna, spagnuola, la quale ha cercato mezzo il mondo. Ella andò a la Goletta e a Tunisi per dar soccorso ai bisognosi soldati e non gli lasciar morir di fame; ha anco un tempo seguitata la corte de l’imperadore per la Lamagna e la Fiandra e in diversi altri luoghi, non si trovando mai sazia di prestar il suo cavallo a vettura, pure che fosse richiesta. Se n’è ultimamente ritornata a Roma, ove è tenuta da chi la conosce per la più avveduta e scaltrita femina che stata ci sia già mai. Ella è di grandissimo intertenimento in una compagnia, siano gli uomini di che grado si vogliano, perciò che con tutti si sa accommodare a dar la sua a ciascuno. È piacevolissima, affabile, arguta, e, in dare a’ tempi suoi le risposte a ciò che si ragiona, prontissima. Parla molto bene italiano, e se è punta, non crediate che si sgomenti e che le manchino parole a punger chi la tocca, perchè è mordace di lingua e non guarda in viso a nessuno, ma dà con le sue pungenti parole mazzate da orbo. È poi tanto sfacciata e presuntuosa che fa professione di far arrossire tutti quelli che vuole, senza che ella si cangi di colore. Erano in Roma alcuni nostri gentiluomini mantovani molto vertuosi e gentili, tra i quali v’erano messer Roberto Strozzi, messer Lelio e messer Ippolito Capilupi fratelli. Messer Roberto è in Roma per suo piacere e messer Ippolito v’è tenuto per gli affari del nostro illustrissimo e' 'reverendissimo cardinale di Mantova. Stanno tutti in una casa, ma ciascuno appartatamente vive del suo. È ben vero che il più de le volte mangiano di compagnia, portando ciascuno la parte sua, e così menano una vita allegra e gioiosa. Con loro si trovano assai spesso alcuni altri, perchè sono buon compagni, e nel loro albergo di continovo si suona e canta e si ragiona de le lettere così latine come volgari, e d’altre cose vertuose, di modo che mai non si lasciano rincrescere. Praticava con questi signori molto domesticamente e spesso anco ci mangiava un Rocco Biancalana, il quale aveva nome d’agente d’un illustrissimo e reverendissimo cardinale, il quale, per esser stato lungo tempo in Roma ed esser piacevole e non meno mordace d’Isabella, ogni dì era a romore di parole con lei. D’essa Isabella, la quale anco spesso si trovava con i suddetti signori, era messer Roberto un poco, come si dice, guasto, e volentieri la vedeva. Ma tra Rocco e lei era una perpetua gara, e contendevano tra loro chi fosse tra lor dui più maledico, più calcagno e più presuntuoso, di maniera che sempre erano a le mani. Del che quei signori, veggendo la prontezza del dire di tutti dui e le scommunicate ingiurie che si dicevano, ne pigliavano meraviglioso piacere, e spesso, per più accendergli a dirsi villania, gli aizzavano come si fanno i cani. E insomma tra la Luna a la Lana era crudel nemistà, non potendo Rocco sopportare che una sì publica e sfacciata meretrice, che aveva avute più ferite ne la vita che non sono fiori a primavera, praticasse con quei gentilissimi spiriti, ed assai sovente ne garrì messer Roberto. Ora l’illustrissimo e reverendissimo cardinale che in Roma teneva Rocco, avendo forse da trattar negozii di grandissimo momento, mandò a Roma messer Antonio Romeo, uomo di grandissimo maneggio, e atto a trattar ogni difficil ed intricato affare, quantunque intralacciato fosse. Ed in effetto era il Romeo un compìto uomo, se non avesse avuto una taccherella che tutto lo guastava, perchè era fuor di misura misero ed avaro. Come egli fu venuto a Roma, Rocco mancò alquanto del suo grado, perciò che stava sotto al Romeo, e tanto e non più negoziava quanto gli era da Romeo imposto, di modo che pareva negoziatore del Romeo, non del cardinale, e in casa con lui viveva non come compagno ma quasi come servidore. Ma non era cosa che a Rocco più premesse che la miseria del Romeo, di maniera che ogni picciolo avantaggio che trovato avesse, averia piantato, come si suol dire, il suo cardinale e si sarebbe accordato con altri, ancor che fossero stati privati e senza grado veruno, perciò che esso Rocco teneva forte del parasito e averebbe sempre voluto la tavola piena. In questa sua mala contentezza, egli spesso si ritrovava a desinare e a cena con i suddetti signori, e quivi, dicendo male de la estrema avarizia di messer Antonio, si disfogava; ed ancora che ci fosse Isabella, non se ne curava. Cominciava egli a dire che il pane si comprava tanto duro che non si poteva con i denti masticare nè tagliar con coltello, e che aveva la muffa e che ben ispesso lo faceva biscottare, allegando che asciugava il catarro; che inacquava il vino, prima che venisse a tavola, tanto forte che ne averia potuto bere uno ch’avesse mille ferite in capo; che altra carne non si vedeva che di bue, la quale prima che si finisse aveva fatto tre o quattro brodi; che ci era un gambetto che più di venti volte era stato in tavola nè mai fu da persona tócco, perchè era un osso ignudo senza carne, e che come la tavola era messa, da se stesso saltava in tavola. Diceva che ’l formaggio era tutto roso da le tarme e guasto, e che le frutte si compravano mal mature e venivano in tavola cinque e sei volte. Queste cose diceva egli senza rispetto veruno, nè si curava che da tutti fosse udito. Avvenne un dì che tra lui ed Isabella furono di male parole e vennero sui criminali, di modo che Rocco gli disse che se non fosse stato il rispetto di messer Roberto, le averia detto cose che l’averebbero fatta arrossire. – E che mi' 'puoi tu dire, – soggiunse Isabella, – se non ch’io sono una puttana? Questo già si sa, nè io per questo arrossirò. – Riscaldato Rocco da la còlera, s’offerse di pagar una cena lauta e magnifica, e che oltra l’altre vivande ci fossero duo para di fagiani, ed ella si contentasse che a la presenza sua dicesse tutte quante le poltronerie che di lei sapeva; al che s’accordarono per il giovedì seguente. In quel tempo, ancora che Rocco sapesse assai ribalderie di lei, nondimeno da molti che la conoscevano intese cose assai più che non sapeva e, a ciò che di memoria non gli uscissero, ne scrisse un lungo memoriale di tre fogli di carta. Egli era bello scrittore e tutte le cose aveva con bellissimo ordine scritte. Or giunta la sera che la cena era messa ad ordine, messer Antonio Romeo, che aveva inteso la cosa e si trovava mezzo ammalato, si condusse a casa dei signori mantovani, per prender alquanto di ricreazione de la disputa che si deveva fare. Erano tutti con Isabella in una sala a torno al fuoco. Cacciò mano Rocco al suo libretto e ad Isabella dise: – Puttana sfacciataccia, questa è la volta che non solamente io ti farò arrossire, ma ti farò crepare. – Ella se ne stava alquanto malinconica e diceva: – È egli possibile, Rocco, che tu mi voglia morta? Ceniamo in pace, e dopo cena tu leggerai il tuo processo criminale. – No, no, – rispondeva Rocco, – io ti vo’ far parer la cena più amara che fele. – E veggendo Isabella che egli era pur disposto di legger prima che si cenasse, pregò molto quei gentiluomini che le facessero far grazia che ella fosse quella che leggesse almeno la prima carta di ciò che Rocco aveva scritto, promettendo non partirsi nè straziare o abbrusciare la scrittura, ma letta la prima carta, renderla ad esso Rocco. Parve la domanda non incivile, onde tutti astrinsero Rocco che le compiacesse; il che egli fece. Come ella ebbe in mano la scrittura, ne lesse piano otto o diece linee; poi disse: – Ascoltate, signori, e udirete se mai fu al mondo la più mala lingua di quella di Rocco. – E secondo che deveva leggere il male di se stessa, mostrando non sapere che quivi fosse il Romeo, disse ordinatamente tutte le cose che Rocco aveva in tante volte in vituperio d’esso Romeo, biasimando con agre parole la miseria di quello. Pareva proprio che ella ciò che diceva lo leggesse su la scrittura. E quando ebbe detto assai, serrata la scrittura, disse: – Che vi pare, signori, di questo ribaldo? non vi pare egli che meriti mille forche? Io non conosco questo Romeo, ma io intendo che è gentilissima persona e che in casa sua si vive molto civilmente. E questo ribaldo non si vergogna dir male d’un uomo da bene e d’uno ne la cui casa egli ha il vivere. Pensate se è tristo. – Era Rocco tutto fuor di sè, mezzo stordito, nè sapeva che dirsi. Medesimamente il Romeo, che sapeva esser vere le cose che de la sua miseria s’erano dette, senza prender congedo se n’andò, e il simile fece Rocco; di sorte che nè l’uno nè l’altro assaggiò boccone de la preparata cena, dove si disse che Rocco aveva fatta la zuppa, come si dice, per le gatte. Cenarono quelli che rimasero e con Isabella istessa risero pur assai, che sì bene avesse saputo beffar Rocco e salvar se stessa.
Essendo noi, come sapete, questi dì passati a Casalmaggiore, la valorosa eroina, la signora Antonia Bauzia marchesa di Gonzaga, avendo dal re cristianissimo comprato con danari de la sua dote quel castello, quivi fece le suntuose nozze de la molto gentile sua figliuola la signora Camilla Gonzaga nel marchese de la Tripalda, de l’onorata e real famiglia dei Castrioti che molti secoli ha l’Epiro signoreggiato. Erano quivi i tre fratelli de la sposa, tre veramente magnanimi eroi, il signor Lodovico di Sabioneda, il signor Federico di Bozolo e la bontà ed amorevolezza del mondo, il signor Pirro di Gazuolo, con una onorevole compagnia di molti signori