Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella LIII
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lo sollevò ed amorevolmente, con accomodate parole, abbracciò e basciò. Poi, fatte venir le sue due figliuole e Maomet i figliuoli, si fecero le nozze con grandissima solennità. Ebbe dapoi Saich sempre per parente ed amico Maomet, e oggidì fa il medesimo il figliuolo d’esso Saich, che è successo al padre suo nel reame di Fez.
Se le trascuraggini e disordini che tutto il dì nascer si veggiono dal pestifero morbo de la gelosia, non fossero a tutto il mondo manifesti e massimamente a voi, che così copiosamente nei passati giorni ne parlaste, quel dì che desinaste con il signor Alessandro Bentivoglio e con la signora Ippolita Sforza sua consorte nel lor giardino di porta Comasca, io mi sforzarei con più lungo dire di fargli aperti e chiari. Ma perchè voi gli sapete e conoscete manifestamente di quanto male la gelosia sia cagione, e come assai sovente il marito indebitamente ingelosito fa che la moglie, piena di stizza e di dispetto, diviene in tanta disperazione che si delibera di far de le cose che prima non averia pensato già mai, io per or non ne dirò troppe cose. Voglio bene che chi ha moglie a lato, tenga aperti gli occhi e consideri le azioni di quella, e misuri destramente i passi e gli atti che gli vede fare, e con giudizioso occhio misuri e consideri il tutto, da ogni passione alieno, e che sovra il tutto metta mente che per sua dapocaggine e tristi portamenti non le dia occasione di far male. Deve anco considerare, sì come voi saggiamente alora diceste, che essa moglie non gli è data per ischiava nè per serva, ma per compagna e per consorte. E, veramente, tutti i mariti che questa considerazione averanno e la metteranno in opera, potranno notte e dì sicuramente attendere agli affari loro, senza temere che le moglieri gli mandino a Corneto. E ragionandosi variamente dei mali che pervengon da la sfrenata gelosia, messer Venturino da Pesaro vostro soggetto, che de la lingua volgare si diletta, poi che voi in camera vi ritiraste, narrò una ridicola novella ma piacevole, la quale avendo scritta, ora vi mando e al vostro nome consacro in memoria de la mia servitù verso di voi. State sano.
Io ho conosciuti pochi mariti gelosi che a la fine non siano per l’estreme lor pazzie stati trattati come meritavano, perciò che le mogliere, quando si veggiono a torto esser dai loro mariti garrite e prive di quella onesta libertà che loro si deve dare, ricercono, con quei mezzi che ponno, appiccargli il vituperoso cimiero di Cornovaglia. Dirò bene che tutte le donne meritano biasimo le quali, o ben trattate dai mariti che siano o male, cercano quegli svergognare, perciò che mai non lece a la donna maritata far del corpo suo copia, dal marito in fuori, a chi si sia. Ma poi dirò anco che, se vi si mette mente, trovarete il più de le donne che dànno il corpo a vettura, essere a ciò indutte dai pessimi trattamenti che in varii modi le fanno i mariti loro, i quali si vogliono prender troppa libertà di fare l’ufficio del cuculo e tener le mogli come prigioniere, di maniera che le fanno venir voglia di gettarsi a la strada e fare di quelle cose che non pensarono già mai. Onde conformandomi a quanto s’è ragionato di questa ribalda gelosia, io vo’ narrare una piacevole e non molto lunga novelletta, che questi dì passati avvenne in un castello de la Marca, il quale io per convenienti rispetti non voglio altrimenti nomare, e meno anco dirvi il nome de le persone che ne la novella intervengono, ma gli nomerò secondo che i nomi a caso in bocca mi veranno. Fu adunque, non è molto, in un castello de la Marca, situato suso una montagna, Giacomino Bellini, montanaro assai ben agiato di casa e mobili, il quale tra gli altri suoi traffichi che faceva, avendo un assai gran bosco, tagliava spesso de le legna, e quelle portava a la città ed altrove a vendere. Aveva egli per moglie pigliato una fresca giovane ed assai appariscente, de la quale il buon uomo senza alcuna cagione sì fieramente ingelosì, che a la donna il sofferire i fastidiosi modi del marito era grandissima pena, perchè per casa faceva sempre il bizzarro e l’adirato, e non andava al bosco senza la Mea, chè così aveva nome la moglie. Ma questo era un piacere, perchè ella v’andava volentieri e s’affaticava in far dei fasci de le legna e legarle. Il peggio poi era che, quando Giacomino andava a città od altrove, chiudeva la Mea in casa e dentro la chiavava; e, quando a casa ritornava, la garriva e spesso ancora, se ella era osa di rispondergli una minima paroluccia, le dava de le busse a buona derrata. Sostenne la povera giovane molti dì questa penosa vita pazientemente, sperando pure che il marito devesse cangiar modi e costumi. Ma la cosa andava di mal in peggio, e il male, come dir si suole, s’incancheriva; onde a la fine la Mea si mise la pazienza sotto ai piedi e tra sè deliberò di dargli di quello che andava cercando. Era nel castello un giovine contadino di ventisei in ventisette anni, d’assai buon aspetto ed avveduto molto, che si chiamava Lippo. Aveva egli un pezzo di bosco congiunto a quello di Giacomino, ed avendo inteso la pessima vita che la Mea faceva, le aveva una gran compassione, e fu vicino molte volte a sgridarne Giacomino: pur si ristette, ed ogni volta che vedeva la Mea, in atto se le appresentava mostrandole che dei mali trattamenti, che il marito le fa, molto a lui ne rincresca. Ma la Mea, che era da bene, non vi metteva mente. Ma non possendo più sopportare d’esser così maltrattata, e gli occhi aprendo ai pietosi modi di Lippo, sentì destarsi il concupiscibil appetito di provare chi era più valente, od egli od il marito; onde quando lo vedeva facevagli un buono ed allegro volto, e gli mostrava che de l’amore di lui era non mezzanamente accesa. Di che Lippo, che non aveva gli occhi ne le calcagna, se le scopriva meravigliosamente lieto in vista. E così cominciò con più diligenza a seguitarla, per veder se poteva parlarle ed aver mezzo di trovarsi di secreto con lei; il che di modo faceva che Giacomino non se ne potesse accorgere. Ma tanta era la gelosia de lo sciocco marito che mai non l’abbandonava, che Lippo era di questa impresa mezzo disperato. Tuttavia con infinita sollecitudine, giorno e notte a questo attendendo; li venne pure due o tre volte in destro di poterle favellare e scoprirle l’amor che le portava. Trovò Lippo la Mea dispostissima a compiacergli ogni volta che il modo stato ci fosse, e che questo non meno di lui desiderava. Avvenne un dì che Lippo vide Mea col marito andar al bosco con una lor giumenta per caricarla di legna; onde egli andò loro dietro, più per veder la Mea che per speranza che avesse di venir ad effetto veruno amoroso. Come Giacomino fu al bosco, egli legò la giumenta ad un arbuscello, e con la moglie si mise a tagliar in qua e in là de le legna secondo che più li pareva a proposito, ed assai da la bestia sua s’allontanò. Lippo che stava a la posta appiattato in un luogo e vedeva il tutto, levatosi di là chetamente, slegò la giumenta, la quale come si sentì libera cominciò ad annitrire e prender la via verso il castello. Giacomino ciò sentendo, come vide andar la bestia verso casa, raccomandato le legna tagliate a la moglie, si mise con frettoloso passo a seguir la giumenta. Veduto il buon Lippo riuscir il suo disegno, si discoperse a la Mea, e non ci fu bisogno di troppe preghiere. Onde di commune concordia, assisi su l’erba, si cominciarono a basciare, e dai basci vennero agli abbracciamenti amorosi ed a trastullarsi insieme. Ed avendo Lippo scaricata la balestra da tre volte in su con grandissima contentezza di tutte due le parti, sentirono e videro tornar Giacomino. Lippo destramente di macchia in macchia al suo bosco si ridusse. Giacomino, legata ben forte la giumenta chè più non fuggisse, pieno di caldo e di stracchezza s’assise a lato a la moglie, dicendo che voleva alquanto riposare. Quivi scherzando con lei, gli venne posta una de le mani sotto a’ panni de la Mea, sovra la possessione di quella, e la trovò ancora molle e bagnata, e le disse: – Mogliema, cotesto che vuol dire che tu sei bagnata? – Ella subito rispose: – Ahi, marito mio! io non ti veggendo così tosto ritornare, dubitai che la bestia fosse smarrita, e piangeva. Il che sentendo la mia sirocchia, anco ella meco dolcemente ha pianto. – Lo sciocco se lo credette, e dissele che la confortasse chè non piangesse più.
Ritornando questi dì da visitar il famoso tempio di Nostra Donna di Loreto, passando per Bologna e intendendo la signora vostra nipote, la signora Gostanza Bentivoglia già moglie del signor conte Lorenzo Strozzo, esservi, andai in compagnia del gentilissimo messer Francesco Elisei a farle riverenza, da la quale fummo graziosamente e cortesemente accolti. Ed essendo qualche dì che non ci eravamo veduti, ragionammo assai de le cose di Milano, perchè ella curiosamente di molte mi domandò. Mentre che noi ragionavamo, sovravennero alcuni gentiluomini e gentildonne, e lasciando il nostro parlamento, ella con grate accoglienze raccolse ciascuno secondo il grado suo. Essendo poi tutti di brigata in un cerchio assisi, diversamente tra