Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte I/Novella XLI
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a legger nei Trionfi la bella istoria di Masinissa e Sofonisba, la quale tutta piena di compassione quasi ci tirò le lagrime sugli occhi. Alora fu da voi pregato il signor Giorgio Santa Croce che volesse la detta istoria, per contentezza del signor ambasciatore e mia, narrare in quel modo che un’altra volta dicevate che narrata vi aveva, essendo tutti dui con molti signori e gentiluomini a diportarvi sovra il lago di Bolsena. Il che egli disse di fare. E così a la presenza vostra e di molti gentiluomini che quivi avevano desinato egli ci narrò la pietosa istoria. Onde avendomi voi imposto che volessi scriverla, vi promisi di farlo. Per questo, essendo a Cortona alcuni giorni dimorato, l’ho scritta come meglio ho saputo e sotto il vostro nome collocata come sotto un forte scudo, a ciò che se alcuno mi mordesse che avendola io sentita recitare ad un eloquentissimo romano l’abbia con parole non romane scritta, possiate scusarmi che ho fatto quanto ho potuto. State sano.
Dapoi che il caldo del mezzogiorno comincia a pigliar crescimento pur assai, ed ora non ci accade faccenda che importi, e voi, signor mio, volete che in questo freschissimo luogo io narri l’infelicissimo esito degli amori del re Masinissa e de la sua reina Sofonisba, io vi dico che egli fu figliuolo di Gala re dei massezuli, i quali son popoli numidici; e militando con i cartaginesi ne la Spagna contra i romani, avendo prima combattuto onoratamente contra il re Siface ne la Numidia, avvenne che Gala suo padre morì, onde il regno fu da altri occupato. Il perchè sofferendo con animoso core l’avversa fortuna e variamente con i nemici suoi combattendo, ed ora parte del regno acquistando ora perdendo e talvolta Siface e i cartaginesi molestando, fu spesso vicino ad esser morto o preso. Con questi suoi travagli, non cedendo mai a fatica, riuscì molto famoso, di modo che appo quei popoli affricani s’acquistò chiaro nome di valente e prode soldato e d’avveduto e provido capitano. Era poi generalmente da’ soldati molto amato, perciò che con loro non da figliuolo di re o come prencipe viveva, ma da guerriero privato e compagno con loro conversava, nomando ciascuno per proprio nome ed accarezzando e onorando ciascuno secondo che meritava, servando però tuttavia un certo decoro di superiore. Aveva già egli per mezzo di Sillano, essendo in Spagna, fatta privatamente amicizia con quello Scipione che poi fu chiamato Affricano e che alora con imperio proconsolare gloriosamente in quella provincia i cartaginesi debellava. Fece lega poi con i romani, e santissimamente, fin che visse, l’amicizia del popolo romano osservò e quella ai figliuoli e nipoti lasciò ereditaria. Cominciata adunque la guerra ne l’Affrica dai romani, egli subito con quelle genti che puotè avere venne a trovar il suo Scipione. Non dopo molto essendo Siface rotto e preso, andò Masinissa con Lelio a pigliar le città del reame che già fu di Siface, e al capo de la provincia, che era la città di Cirta, indirizzò l’essercito. Era in quella Sofonisba moglie di Siface e figliuola di Asdruballe di Giscone, la quale aveva alienato l’animo del marito dai romani con i quali era collegato, e mediante le suasioni di quella s’era messo per diffender i cartaginesi. Sofonisba sentendo che i nemici erano già entrati in Cirta e che Masinissa dritto al real palazzo se ne veniva, deliberò andargli incontra e veder d’esperimentare la benignità e clemenza di lui. Onde ne la calca de’ soldati che già nel palazzo erano entrati, animosamente si mise, e andando innanzi quinci e quindi si rivolgeva, risguardando se fra tanta moltitudine poteva a qualche segnalata cosa conoscer Masinissa. Ella in questo vide uno il quale a l’abito e a l’arme che indosso aveva e al rispetto che da ciascuno gli vedeva usare, giudicò quello senza dubio veruno esser il re. Il perchè dinanzi a quello inginocchiata, in questa maniera pietosamente a parlar cominciò: – Poi che la tua vertù e la felicità insieme con il favore degli dèi hanno permesso che tu abbia ricuperato il tuo antico regno, vinto e preso il tuo nemico, e che tutto quello che più t’aggrada tu di me puoi fare, io però da la tua mansuetudine e clemenza confortata prenderò ardire con supplichevoli voci pregarti e prima basciarti le vittrici mani. – E detto questo, postasi in ginocchione dinanzi a quello e le ginocchia di lui abbracciando e le mani basciandogli, disse molte parole piene di compassione. Ella era sul fiore de la sua età e in quei tempi la più formosa, leggiadra e bella giovane che l’Affrica avesse. E tanto di vaghezza il pianger l’accresceva quanto a molte soglia l’allegria ed il soave e moderato riso aggiungere; di maniera che Masinissa essendo giovine e secondo la natura dei numidi molto facile ad irretirsi nei lacci de l’amore, veggendosi tanta beltà innanzi, non si poteva saziare con occhio ingordo e a fiamme amorose pieghevole di rimirarla e vagheggiarla. Non se ne accorgendo adunque, egli sì fieramente di lei s’accese che mai più non arse sì cocente fiamma qual si fosse amoroso core. Onde fattole animo e da terra levandola, quella essortò a seguire il suo parlare, la quale così disse: – Se a me tua prigionera e serva lece, o signor mio, pregarti, io umilmente ti prego e ti supplico per la regal maestà ne la quale poco avanti eravamo ancora noi come tu al presente sei, e per il nome numidico stato a te e a Siface commune, e per i dèi tutelari e padroni di questa città, i quali con miglior fortuna e più lieti successi e prosperi in quella ti ricevano che fuor Siface non mandarono, che tu di me pietoso esser ti degni. Nè pensare che io gran cosa voglia. Usa l’imperio tuo e quello che la ragion de la guerra vuole sovra di me. Fammi se vuoi in dura prigione macerare o quella morte con quelli tormenti che più ti aggradano patire. Che sia la morte che io soffrirò quanto si voglia acerba, fiera e crudele: a me più cara assai sarà che la vita, perciò che io nessuna morte rifiuto, pur che io non venga a le superbe mani ed arbitrio crudelissimo dei romani. Quando io altra non fossi che stata consorte di Siface, tuttavia d’un numida e meco in Affrica nato voglio più tosto la fede esperimentare che d’uno degli stranieri. Io so che tu conosci ciò che una cartaginese e figliuola di Asdruballe debbia fermamente da’ romani aspettare e da la superbia di quelli temere. Se tu, signor mio, hai sorelle, pensa che in tale sì trista ed avversa fortuna potrebbero cadere, quale è questa ove io mi ritrovo. Così fatta è la rota de la fortuna, la quale ogni dì veggiamo instabile, volubile e varia, che ora pace ora guerra, ora bene ora male ne apporta, ora lieti ed ora di mala voglia ne fa essere, ed ora ne leva in alto ed ora al profondo de l’abisso ne fa tornare. Ti sia Siface un vivo e chiaro essempio dinanzi agli occhi che fermezza sotto al globo de la luna non si può avere. Egli era il più potente e ricco re che in Affrica regnasse, ed ora è il più misero ed infelice che si truovi in terra. Nè per questo voglio io esserti presaga nè indovina d’alcun futuro male, anzi santamente tutti i dèi prego che te e tutti i descendenti tuoi nel regno de la Numidia felicemente regnar lascino. Degnati adunque liberarmi da la servitù dei romani, e se altrimenti non puoi se non con la mia morte, io ti dico che quella mi sarà gratissima. – Dicendo queste parole prese la destra mano del re e quella più volte dolcemente basciò; e già i preghi cominciavano in lusinghevoli e lascive carezze a voltarsi, di modo che non solamente l’animo de l’armato e vincitor giovine a misericordia e pietà mosse, ma stranamente ne l’amorose reti lo avviluppò. Il perchè il vincitor da la vinta, il signore da la sua serva fu vinto e preso. Indi con tremante voce così le rispose: – Pon fine, o Sofonisba, al largo pianto e caccia da te la tèma che hai, chè non solamente a le mani del popolo romano non verrai, ma se a te piace io per legitima moglie ti prendo ed accetto, in modo che non prigionera ma reina viverai. – E dette queste parole, lei lagrimante abbracciò e basciò. Ella al volto, ai cenni, ai gesti e a le interrotte parole de l’amante nuovo comprendendo l’animo del numida esser di ferventissimo amore acceso, per più infiammarlo con un atto di pietade che i ferini cori de le ircane tigri averebbe intenerito e d’ogni fierezza spogliato, di nuovo se gli lasciò cader a’ piedi, e quelli così armati basciando e con caldissime lagrime irrigando, dopo molti singhiozzi ed infiniti sospiri, essendo da lui sollevata, disse: – O gloria ed onore di quanti regi mai furono, sono e saranno, e di Cartagine mia infelice patria, mentre ella ne fu meritevole, sicurissima aita e ora presente e terribilissimo spavento, se la mia fortuna dopo sì gran rovina può rilevarsi, qual maggior grazia, qual cosa in tutta la vita mia più lieta e fortunata mi può accadere che esser da te chiamata tua moglie? O me più d’ogn’altra felice di tanto e sì famoso consorte! O veramente aventurosa e felicissima mia rovina, o fortunatissima mia disgrazia, se così glorioso e senza fine da deversi desiderar matrimonio m’era apparecchiato! Ma perchè i dèi a me son contrarii e il debito fine de la mia vita è giunto, cessa ormai, signor mio caro, di raccender la mia ammorzata anzi spenta speranza, perciò che in tal stato mi veggio che indarno contra il voler dei dèi ti affatichi. Assai gran dono ed in vero grandissimo riputerò da te ricevere se morir mi farai, a ciò che per tuo mezzo o con le tue mani, chè molto più grato mi fia, morendo esca de la tèma di servir ai romani e venir in poter loro, e questa anima libera ai Campi Elisi se ne vada. L’ultimo termine dei miei prieghi e tutto quello che io da te desio e ch’io supplico è il fuggir le forze romane e non esser a quelle soggetta. Questa è la meta e il fine dei preghi miei e d’ogni mia domanda. L’altre cose che tu, la tua mercè, mi offeri, io non ardirei non dico chiederle ma desiarle, chè a dir il vero lo stato adesso de la mia fortuna tanto alto salire non presume. Prego bene l’eterno Giove con tutti gli altri dèi che il tuo buon animo verso me riguardando, lungamente l’acquistato regno godere ed a maggior termini quello ampliar ti lascino. Io poi quelle grazie che per me si ponno maggiori ti riferisco. – Furono sì efficaci queste parole che Masinissa non puotè mai le lagrime affrenare, ma per pietà de la donna lagrimante piangendo, ultimamente così le disse: – Lascia, reina mia, questi tuoi pensieri e rasciugando il pianto metti fine al dolore e sta di buon animo, chè questa fortuna a te così noiosa ed avversa cangerà stile e i dèi con meglior successo il rimanente de la vita tua perseguiranno. Tu moglie mia sarai e reina, e di questo la fede mia chiamando li dèi in testimonio ti obligo ed impegno. Ma se per caso, (o Giove, nol consentire!), io mi vedessi astretto a darti a’ romani, vivi sicura che in poter loro viva non andarai. – Con queste promesse, in segno de la fede egli diede la destra a Sofonisba e con lei ne le stanze interiori del regal palazzo entrò. Quivi poi pensando Masinissa tra sè come la promessa fede a la donna serbasse, da mille pensieri combattuto e quasi la sua rovina palese veggendo, da temerario e mal sano amore consegliato, quell’istesso giorno publicamente per moglie la sposò e le nozze tumultuarie fece, come se Sofonisba più non devesse esser in arbitrio de’ romani poi che da lui era sposata. Venne dopo questo Lelio, il quale avendo inteso queste nozze se ne turbò fortemente e si sforzò mandar Sofonisba come preda romana insieme con Siface a Scipione. Ma dai prieghi e da le lagrime di Masinissa vinto, che il giudicio del tutto rimetteva a Scipione, mandò Siface con gli altri prigioni e preda, e attese insieme con Masinissa a la recuperazione degli altri luoghi del regno, per non ritornar in campo se la provincia non veniva tutta in mano dei romani. Aveva ben prima esso Lelio minutamente del successo del matrimonio avvisato Scipione, il quale intendendo queste cose e la celebrazione di così precipitate nozze si turbò molto forte ne l’animo suo, meravigliandosi che Masinissa non avesse prima aspettato Lelio, e che quel dì che entrato era in Cirta avesse fatte queste mal consegliate nozze. E tanto più il fatto di Masinissa a Scipione dispiaceva quanto che egli era da simili disconvenevoli e disonesti amori in tutto alieno, di modo che in Spagna non s’era da bellezza nè leggiadria di donna lasciato piegare dal suo onesto e lodevole proposto già mai. Pertanto giudicava l’atto di Masinissa esser stato fuor di tempo, poco onorato, e degno d’esser biasimato da qualunque persona lo sapesse. Tuttavia come savio ch’egli era e prudente, dissimulava ciò che nel core aveva, aspettando l’occasione di por rimedio a tutto. Ora devendo insieme con Lelio Masinissa ritornar in campo, quali egli ragionamenti con Sofonisba facesse, quante lagrime spargesse, quanto sospirasse, se io volessi narrare averei troppo che fare e mi mancherebbe il tempo. Egli due o tre notti, che furo a tanti desiri brevi e scarse, a pena era seco giacciuto e già sapeva che Lelio quella come prigionera richiedeva. Il perchè di grandissima angoscia pieno e varii pensieri facendo, da lei si partì e in campo se ne ritornò. Scipione onoratamente l’accolse e vide, e a la presenza de l’essercito e lui e Lelio lodando, quanto fatto avevano molto commendò. Poi nel suo padiglione menandolo gli disse: – Io penso, Masinissa mio, che l’openione che de le mie vertù avuta hai, primieramente ti conducesse in Ispagna col mezzo del mio prode Sillano a far meco amicizia, e poi indutto t’abbia qui in Affrica e te e le cose tue metter ne le mie mani. Ma pensando io qual sia quella vertù che a ciò mosso t’abbia, essendo tu d’Affrica ed io di Europa, tu numida ed io latino e romano di varii e diversi costumi e idioma differentissimi; pensando, dico, che cosa fosse in me che di ricercarmi spinger ti devesse, giudico io fermamente la temperanza e l’astinenza dai piaceri venerei, le quali in me vedute hai e per cui io più che di cosa che in me sia mi apprezzo e stimo, esser state quelle che ad amarmi ed unirti meco indutto ti abbiano. Queste virtuti vorrei io, Masinissa, che tu a l’altre tue buone doti, e ai beni che in te sono da la natura creati e con l’industria tua fatti megliori, aggiungessi. Pensa ben bene che tanto non deve la nostra giovenil età gli armati esserciti dei nemici temere, quanto le sparse d’ogn’intorno delicatezze e le voluttuose delettazioni, e massimamente il periglio che a noi sovra sta de le carezze feminili. Onde colui che l’amorose passioni temperatamente affrena o doma, e a le lascivie il petto chiude, e tra queste sirene con gli orecchi serrati passa, assai maggior gloria acquista che noi acquistato non abbiamo ne la vittoria contra Siface. Annibale, il maggior nemico che mai avessimo noi romani, uomo fortissimo e capitano quasi senza pari, da le delizie e feminili abbracciamenti d’alcune donne effeminato, non è più quel virile e gagliardo imperadore che esser soleva. Le cose che in mia lontananza ne la Numidia valorosamente fatte hai, la tua sollecitudine, la prontezza, l’animosità, la fortezza ed il valore, la celerità e tutte l’altre tue buone parti di vera lode meritevoli, volentieri ricordo e di commendarle mai non mi sazio. Il resto più caro averò che teco stesso pensi, a ciò che io dicendolo, non ti sia di vergognarti cagione. Come tu sai, Siface è stato dai nostri soldati preso; il perchè egli, la moglie, il reame, i campi, le terre, le città e gli abitatori, e insomma tutto quello che fu del re Siface è preda del popol romano; e il re e la consorte sua, ben che non fosse cittadina di Cartagine, ben che il padre di lei capitano dei nemici non vedessimo, bisognarebbe mandar a Roma e il tutto a l’arbitrio del senato e popolo romano lasciare. Non sai che Sofonisba con le sue ciancie ha il re Siface nostro confederato alienato da noi e fatto prender contra noi l’arme? Vinci l’animo tuo, Masinissa, e guarda che tu non macchi molte altre buone parti che riguardevole ti fanno con un vizio solo, e che tu non guasti tanti meriti e la grazia di quelli con maggior colpa che non è la cagion de la colpa. – Masinissa udendo queste agre e vere riprensioni non solamente arrossì per vergogna, ma amaramente piangendo disse che era in poter di Scipione. Tuttavia quanto più poteva caldamente il pregava che se era possibile gli lasciasse la data scioccamente fede osservare, perciò che a Sofonisba giurato aveva che viva non anderebbe in poter de’ romani. Dopo altre cose dette partì Masinissa ed al suo padiglione andò, ove tutto solo con caldi e frequentissimi sospiri, con dirotte ed amarissime lagrime e pianti di maniera alti che dai circonstanti al padiglione erano uditi, tutto il dì piangendo dimorò non sapendo che fare, e de la notte anco buona pezza stette, ed ora una cosa ed ora un’altra pensando, più che mai confuso non puotè mai dormire. Cadevagli in animo, passate le colonne de lo stretto da Ercole poste, di navigar a l’isole Fortunate con la moglie. Pensava d’andarsene con lei a Cartagine e in aita di quella città mettersi contra i romani. Deliberava talora col ferro, col veleno, col laccio o in altro modo la vita e i tanti suoi dolori finire. Fu più volte vicino ad ammazzar se stesso, ma non per tèma de la morte, ma per non macchiar la sua fama si tenne. Si gettò sovra il letto ed or qua or là dimenandosi luogo di quiete non trovava. Ardeva il misero amante come negli aperti campi la stipa dal fuoco si consuma, e non trovando a le sue pene conforto, così a dir cominciò: – O Sofonisba mia cara, o vita de la mia vita e a me assai più che la luce degli occhi miei amabile e dolce, che sarà di noi? Oimè, più concesso non mi sarà veder il tuo vago ed amoroso viso, le bionde chiome, quei begli occhi che mille volte hanno fatto invidia al sole, e sentir la soave armonia de le parole, la cui dolcezza può a Giove nel maggior furore, quando irato le folgoranti saette vibra, l’arme tor di mano. Ahi, che più non mi sarà lecito queste braccia gettarti al collo, la cui candidezza di convenevol rossore sparsa avanza le matutine rose. Ma non voglia Iddio senza te ch’io viva, chè tanto viver senza te potrei quanto un corpo può senza spirito in vita stare. Siami, o Giove, da te concesso che ambidui un sepolcro chiuda, acciò che il vivere che qui teco m’è negato mi sia tra l’ombre concesso. E quale, o Dio buono, sarà nei Campi Elisi tra quegli spiriti più di me beato, se io teco potrò per l’ombrose selve degli odorati e verdi mirti andarmene spaziando? Quivi i nostri amari e dolci amori insieme senza impedimento niuno più volte raccontaremo, rammentando le cose passate, gioiendo del diletto e sospirando de la pena. Quivi non sarà già il rigido e severo di marmo Scipione, che le passioni amorose non cura e per questo a le mie acerbe pene non ha compassione, non avendo mai provato cosa sia amore. Egli alora con le sue troppo crudel parole non verrà già a persuadermi che io ti lasci o che io ne le mani dei romani ti metta e sia cagione de la tua miserabile durissima servitù. Egli non mi garrirà già che io sì ferventemente ti ami. Noi staremo pure senza sospetto di lui o d’altri che ne possano separare e la nostra dolcissima compagnia dividere. Deh, avessero voluto gli immortali dèi che egli ne l’Affrica non fosse passato già mai, ma che sempre in Sicilia, in Italia e ne le Spagne dimorato si fosse. Ma che dico io, smemorato e pazzo che sono? Se egli in Affrica navigato non fosse e fatta la guerra contra Siface, come averei io mai veduto la bella Sofonisba, la cui bellezza ogn’altra bellezza avanza, la leggiadria è senza pare, la grazia indicibile ed inestimabile, i modi rari ed incomparabili e il tutto che è in lei non si può con parlar umano agguagliare? Se Scipione qui venuto non fosse, come ti averei, o mia cara speme ed ultimo termine dei miei desii, conosciuta? Certamente nè tu mia moglie saresti, nè io tuo marito divenuto sarei. Almeno sarebbe questo, che tu ora non saresti in tanti affanni come ti ritruovi, sapendo che la vita tua degnissima di lungo e felice termine è su la bilancia, se viva dèi restare o no; anzi è pur conchiuso che se tu viva resti, che a’ romani in preda sii data. Ma tolgano gli immortali dèi che tu del popolo romano diventi preda. E chi potrà creder già mai che Scipione in una medesima cosa a me doni la vita e di quella mi spogli? Non mi donò egli la vita essendomi stato la verissima cagione di farmi andar a Cirta, ove la vita mia che è la bellissima Sofonisba ritrovai? E senza lei, lasso me, che fòra starmi in questa angoscia e penace vita? Ma, misero me, non mi spoglia egli de la vita e la morte mi dona volendo Sofonisba in suo potere? Oimè, perchè subito dopo che Siface fu preso non andò egli in Italia, od almeno perchè non si ridusse in Sicilia? Perchè non menò egli Siface a Roma a presentar così glorioso spettacolo del re de la Numidia al suo popolo romano? Se Scipione qui non fosse, tu, Sofonisba, liberamente mia rimarresti, perciò che con Lelio averei trovato mezzo di salvarti. Ma certamente, se Scipione vedesse una volta Sofonisba e un poco piegasse gli occhi a la sua incredibil bellezza, io non dubito punto che egli di lei e di me non si movesse a compassione e non giudicasse che ella meritasse restar reina non solamente di Numidia ma d’ogn’altra provincia. Or che so io se egli la vedesse che di lei non s’innamorasse e per sè quella togliesse? Egli è pur uomo come gli altri, ed impossibil mi pare che a sì fatta beltà non intenerisse quella durezza de l’animo suo. Ma oimè, che parlo? che vaneggio? Veramente io m’avveggio bene che, come proverbialmente si dice, io canto a’ sordi, e a’ ciechi voglio insegnar che cosa siano i colori e come distinti, ed eglino che son nati ciechi come impareranno? Misero me e dei miseri il più misero! Ecco che Scipione domanda Sofonisba come cosa appartenente a lui, perciò che disse quella esser preda e parte de le spoglie dei soldati romani. Che debbo fare? darò io Sofonisba a Scipione? Egli la vuole, egli mi costringe, egli essorta e mi prega; ma io so bene quanto in me ponno l’essortazioni sue e sotto le preghiere che cosa giace. Adunque io Sofonisba in sue mani metterò? Ma prima il sommo Giove le sue fiammeggianti saette in me dirizzi e nel profondo de l’inferno mi folgori; prima s’apra la terra e m’inghiotta, prima sia il corpo mio a brano a brano in mille pezzi stracciato e divenga cibo di fere selvagge ed èsca di corbi ed avoltori, che io mai tanta e sì empia sceleraggine commetta e rompa la fede che con giuramento ho promessa. Oimè, che dunque farò io? Egli pur ubidir mi conviene, e a mal mio grado far ciò che l’imperador de l’essercito comanda. Lasso, che a questo pensando io moro. Adunque per minor male e per serbarti quanto t’ho promesso, o mia Sofonisba, tu morirai e col mezzo del tuo caro marito fuggirai il giogo de la vera servitù romana, perchè così al crudo Giove piace e mi astringono i miserabili cieli che io del mio male sia il ministro. Così, o vita mia, quanto per me si fa, solamente è fatto per mantenerti la fede che ultimamente ti confermai. – E pensando mandarle il veleno, venne di nuovo in tanta furia, e tanto lo sdegno in lui s’accese che pareva forsennato, e come se Sofonisba dinanzi avuta avesse, così seco parlava, così le diceva le sue passioni e con lei si lamentava. Piangendo poi buona pezza dirottamente, in parte sfogò il suo dolore, non perciò che totalmente restasse libero. Onde cominciò di nuovo a far chimere e farneticare. Quando io penso a tanto uomo come era Masinissa, che in vero fu un segnalato e nobilissimo re, che con tanta prudenza gli acquistati e recuperati reami governò e che così costantemente perseverò ne l’amicizia del popolo romano, io prego Dio che gli amici miei e me insieme non lasci entrare in così intricato amoroso labirinto come egli si trovava, ma concederne che più temperatamente amiamo. Pertanto io vi essorto, signor Rinuccio, che ora che voi sète sul fiorir de la vostra bellissima fanciullezza vi guardiate da cotesti amori così poco regolati, e che tanto innanzi ne la pania amorosa non mettiate il piede che in quella siate astretto ognora più impaniarvi. Ma ritornando al nostro afflitto Masinissa, vi dico che egli diceva: – Adunque io manderò il veleno a la mia vita? Tolgano li dèi che questo sia già mai. Io più tosto la menerò ne l’ultime parti de l’incognita ed arenosa Libia, ove tutta la contrada è di serpenti piena. Quivi più sicuri assai che in qual si voglia luogo saremo, perciò che il crudele ed inesorabil Scipione non ci verrà, e i serpenti veggendo la rara e divina bellezza de la mia bellissima Sofonisba raddolciranno i lor amari veleni e a me per rispetto di lei non noceranno. Moglie mia dolcissima, io delibero che noi ce ne fuggiamo a ciò che tu possa schivar la servitù e la morte. E se non potremo nosco portar oro e argento, non ci mancherà modo di vivere, essendo molto meglio viver con pane ed acqua che restar in servitù. E teco vivendo che povertà potrò io sentire? A l’essilio e a la povertà io sono avvezzo, perciò che cacciato fuor del mio reame, assai sovente ne l’oscure caverne mi son riparato e con le fiere visso. Ma tu, moglie mia cara, che in tante delicatezze e vezzi sei nodrita e sei solita in piaceri e regalmente vivere, come farai? So che il core non ti daria di seguirmi. E se pur venir tu volessi, ove ho io adesso modo di navigare? In mare è l’armata romana che ogni passo ci chiude. In terra Scipione con i suoi soldati tutte le vie occupa e de la campagna è signore. Che farò adunque, misero me e sfortunatissimo? Io pur vaneggiando vo con gli accerbi miei pensieri e non m’accorgo del fuggir de l’ore, chè a quel ch’io veggio a mano a mano ne verrà il sole, perchè l’alba comincia a biancheggiare. Già mi par veder il messo del capitano che Sofonisba voglia ne le mani. Il perchè necessario è o darla od ucciderla. Ella più tosto elegge la morte che la servitù. – Onde deliberato mandarle il veleno, cascò in terra tramortito dal soverchio dolor preso. Tornato poi in sè, maledicendo la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco, il cielo e li dèi de l’inferno e i celesti, dopo un acerbo e lagrimoso strido chiamò a sè un suo fidatissimo servo che secondo la costuma di quei tempi serbava sempre il veleno, e gli disse: – Piglia la mia coppa de l’oro e porta questo veleno a Cirta a la reina Sofonisba, e le dirai: io più che volentieri il marital nodo averei servato e la prima fede a lei data, ma che il signor del campo in poter di cui io sono me lo vieta. Io ho tentate tutte le vie possibili per far che mia consorte e reina restasse, ma il comandatore e i comandi sono stati sì duri e forti che forzato sono d’offender me stesso e d’esser del mio mal ministro. Il veleno le mando con così dolenti pensieri come io so bene ed ella il crede e tu in parte veduto hai. Questa sola via le resta a servarsi da la servitù romana. Dille che ella pensi al valor del padre, a la degnità de la sua patria e a la maestà reale dei dui regi stati suoi mariti, e che faccia ciò che più convenevole a lei pare. Va e non perder tempo per via. – Partissi il servo e Masinissa come un battuto fanciullo piangendo si rimase. Gionto il messo a la reina e a quella la fiera ambasciata esposta e datole la coppa con il veleno, attese ciò che ella li direbbe. Pigliò la reina la coppa e il veleno e al messo disse: – Come io averò in questa coppa d’oro bevuto il veleno, tornerai al tuo signore e gli dirai che io volentieri accetto il suo dono, poi che altro non ha potuto il marito a la moglie mandare; ma molto meglio morta sarei innanzi a queste funebri nozze. – Nè altro al messo dicendo, prese la coppa e dentro il veleno vi distemperò, e quella a la bocca postasi, intrepidamente tutta la bebbe, e bevutola al messo essa coppa rese, salendo sovra un letto. Quivi quanto più onestamente puotè le vestimenta sue a torno a sè compose, e senza lamentarsi o mostrar segno alcuno d’animo feminile animosamente la vicina morte attendeva. Le sue damigelle che a torno le stavano tutte dirottamente piangevano, di maniera che per il regal palazzo il pianto si sentì e il romor si levò grandissimo. Ma poco stette Sofonisba che vinta da la vertù del veleno se ne morì. Il messo ritornò a Masinissa con questo sì fiero annunzio, il quale pianse assai e fu spesse fiate vicino, se stesso con le proprie mani occidendo, a seguitar l’anima de la sua infinitamente da lui amata Sofonisba. Ma intendendo queste cose, il valoroso e saggio Scipione, a ciò che il feroce e pien di passione suo Masinissa contra se stesso non incrudelisse o altro disordine non facesse, quello a sè chiamato, con dolcissime parole quanto più puotè consolò, e poi amichevolmente riprese che così poca fede in lui avuto avesse. Il seguente giorno poi a la presenza de l’essercito sommamente il lodò, e il regno de la Numidia gli donò, dandogli di molti ricchi doni e di molta stima appresso i romani. Il che il senato e il popolo de la città di Roma approvò, e con amplissimi privilegi confermò, nomando Masinissa re di Numidia ed amico dei romani. Cotal fine adunque ebbe l’infelice amore del re Masinissa cotanto dal nostro divinissimo Petrarca lodato.
Io credo che siano pochi giorni ne l’anno nei quali gli uomini non facciano qualche beffa a le donne e che altresì le donne non ingannino gli uomini, e parmi che la cosa stia bene quando quale dà l’asino ne la parete tal riceve. È ben vero che per il più de le volte gli uomini fanno de le vendette che a le donne non è così lecito fare, non per altro se non che l’uomo si prende più di libertà e cerca sempre tener la donna soggetta che per compagna da Dio gli è data. Onde un di questi giorni a Diporto, ove madama illustrissima di Mantova, come sapete, suole tutta la state diportarsi per l’aria ch’assai temperata gli spira e per la comodità de le sue belle ed agiate stanze che ella ci ha fatto, di questa materia ragionandosi e varii casi dicendosi, la gentil e discreta madrona madonna Leonora Buonavicina e Malchiavella verso madama rivolta disse: – Egli mi pare, madama, che tutto il dì questi uomini si prendano piacere d’ingannare le semplici donne, e come l’hanno fatta qualche truffa non cessano mai fin che a tutto il mondo narrata non l’hanno, parendo loro di trionfare. E se talora per sorte vien loro da donna qualche beffa fatta, maravigliosamente s’attristano e con tutte le forze s’ingegnano di vendicarsi. Dove, pur che la vendetta non sovramontasse l’offesa, si potrebbe passare; ma eglino di picciola vendetta non si contentano, come infinite volte s’è veduto. Perciò non si deveno meravigliare se talvolta le donne gli rendono a doppio la pariglia, come ho inteso per lettere del nostro dotto e vertuoso messer Carlo Agnello, che da Napoli questi dì mi scrisse esser in Ispagna accaduto. – E così la Buonvicina narrò un meraviglioso accidente, il quale avendo io scritto, ho voluto che sotto il vostro nome tra le mie novelle sia veduto. Degnatevi adunque quello accettare con quella vostra innata umanità, sapendo per vera esperienza quanto il Bandello è vostro e del valoroso signor vostro consorte. Feliciti nostro signor Iddio di tutti dui i pensieri. State sana.
Valenza, quella dico di Spagna, è tenuta una gentile e nobilissima città dove, sì come più volte io ho da mercadanti genovesi udito dire, sono bellissime e vaghe donne, le quali sì leggiadramente sanno invescar gli uomini, che in tutta Catalogna non è la più lasciva ed amorosa città. E se per aventura ci capita qualche giovine non troppo esperto, elle di modo lo radeno che le siciliane non sono di loro megliori nè più scaltrite barbiere. Quivi è la famiglia dei Centigli, in quella città sempre stata molto famosa e d’assai ricchi ed onorati cavalieri piena, ne la quale non sono ancor molt’anni fu un cavaliero molto ricco, d’età di ventitrè anni, che si chiamava Didaco. Egli in Valenza aveva il nome del più liberal e cortese cavaliero che ci fosse e che più onoratamente ai giuochi de le canne, a l’ammazzar tori e a l’altre feste comparisse. Costui veduta un giorno una giovanetta di basso legnaggio, ma molto bella e sovra modo avvenente e costumata, di lei fieramente s’innamorò. Aveva la giovane la madre e dui fratelli che erano orefici, ed ella lavorava di sua mano su tele bellissimi lavori. Il cavaliero sentendosi de l’amor di costei tanto acceso che non aveva bene o riposo se non quando di lei pensava o la vedeva, cominciò assai sovente a passarle per dinanzi la casa e con ambasciate e lettere sollecitarla. Ella a cui sovra modo piaceva l’esser vagheggiata dal primo cavaliero de la città, nè in tutto dava orecchie a le domande del cavaliero nè in tutto le rifiutava, ma tenevalo così tra due. Egli che d’altro aveva voglia che d’esser pasciuto di parole e sguardi, e d’ora in ora più di lei s’invaghiva e sperava con san Giovanni bocca d’oro incarnar il suo dissegno, ebbe modo di fare che ella fosse contenta di ridursi con lui a parlamento ove più le piacesse, impegnandole quanta fede aveva che da lui non riceverebbe ingiuria nè forza alcuna. La giovine communicò il tutto