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se ne accorgendo adunque, egli sì fieramente di lei s’accese che mai più non arse sì cocente fiamma qual si fosse amoroso core. Onde fattole animo e da terra levandola, quella essortò a seguire il suo parlare, la quale così disse: – Se a me tua prigionera e serva lece, o signor mio, pregarti, io umilmente ti prego e ti supplico per la regal maestà ne la quale poco avanti eravamo ancora noi come tu al presente sei, e per il nome numidico stato a te e a Siface commune, e per i dèi tutelari e padroni di questa città, i quali con miglior fortuna e più lieti successi e prosperi in quella ti ricevano che fuor Siface non mandarono, che tu di me pietoso esser ti degni. Nè pensare che io gran cosa voglia. Usa l’imperio tuo e quello che la ragion de la guerra vuole sovra di me. Fammi se vuoi in dura prigione macerare o quella morte con quelli tormenti che più ti aggradano patire. Che sia la morte che io soffrirò quanto si voglia acerba, fiera e crudele: a me più cara assai sarà che la vita, perciò che io nessuna morte rifiuto, pur che io non venga a le superbe mani ed arbitrio crudelissimo dei romani. Quando io altra non fossi che stata consorte di Siface, tuttavia d’un numida e meco in Affrica nato voglio più tosto la fede esperimentare che d’uno degli stranieri. Io so che tu conosci ciò che una cartaginese e figliuola di Asdruballe debbia fermamente da’ romani aspettare e da la superbia di quelli temere. Se tu, signor mio, hai sorelle, pensa che in tale sì trista ed avversa fortuna potrebbero cadere, quale è questa ove io mi ritrovo. Così fatta è la rota de la fortuna, la quale ogni dì veggiamo instabile, volubile e varia, che ora pace ora guerra, ora bene ora male ne apporta, ora lieti ed ora di mala voglia ne fa essere, ed ora ne leva in alto ed ora al profondo de l’abisso ne fa tornare. Ti sia Siface un vivo e chiaro essempio dinanzi agli occhi che fermezza sotto al globo de la luna non si può avere. Egli era il più potente e ricco re che in Affrica regnasse, ed ora è il più misero ed infelice che si truovi in terra. Nè per questo voglio io esserti presaga nè indovina d’alcun futuro male, anzi santamente tutti i dèi prego che te e tutti i descendenti tuoi nel regno de la Numidia felicemente regnar lascino. Degnati adunque liberarmi da la servitù dei romani, e se altrimenti non puoi se non con la mia morte, io ti dico che quella mi sarà gratissima. – Dicendo queste parole prese la destra mano del re e quella più volte dolcemente basciò; e già i preghi cominciavano in lusinghevoli e lascive carezze a voltarsi, di modo che non solamente l’animo de l’armato e vincitor giovine a misericordia e pietà mosse, ma stranamente ne l’amorose reti lo