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Cartagine, ben che il padre di lei capitano dei nemici non vedessimo, bisognarebbe mandar a Roma e il tutto a l’arbitrio del senato e popolo romano lasciare. Non sai che Sofonisba con le sue ciancie ha il re Siface nostro confederato alienato da noi e fatto prender contra noi l’arme? Vinci l’animo tuo, Masinissa, e guarda che tu non macchi molte altre buone parti che riguardevole ti fanno con un vizio solo, e che tu non guasti tanti meriti e la grazia di quelli con maggior colpa che non è la cagion de la colpa. – Masinissa udendo queste agre e vere riprensioni non solamente arrossì per vergogna, ma amaramente piangendo disse che era in poter di Scipione. Tuttavia quanto più poteva caldamente il pregava che se era possibile gli lasciasse la data scioccamente fede osservare, perciò che a Sofonisba giurato aveva che viva non anderebbe in poter de’ romani. Dopo altre cose dette partì Masinissa ed al suo padiglione andò, ove tutto solo con caldi e frequentissimi sospiri, con dirotte ed amarissime lagrime e pianti di maniera alti che dai circonstanti al padiglione erano uditi, tutto il dì piangendo dimorò non sapendo che fare, e de la notte anco buona pezza stette, ed ora una cosa ed ora un’altra pensando, più che mai confuso non puotè mai dormire. Cadevagli in animo, passate le colonne de lo stretto da Ercole poste, di navigar a l’isole Fortunate con la moglie. Pensava d’andarsene con lei a Cartagine e in aita di quella città mettersi contra i romani. Deliberava talora col ferro, col veleno, col laccio o in altro modo la vita e i tanti suoi dolori finire. Fu più volte vicino ad ammazzar se stesso, ma non per tèma de la morte, ma per non macchiar la sua fama si tenne. Si gettò sovra il letto ed or qua or là dimenandosi luogo di quiete non trovava. Ardeva il misero amante come negli aperti campi la stipa dal fuoco si consuma, e non trovando a le sue pene conforto, così a dir cominciò: – O Sofonisba mia cara, o vita de la mia vita e a me assai più che la luce degli occhi miei amabile e dolce, che sarà di noi? Oimè, più concesso non mi sarà veder il tuo vago ed amoroso viso, le bionde chiome, quei begli occhi che mille volte hanno fatto invidia al sole, e sentir la soave armonia de le parole, la cui dolcezza può a Giove nel maggior furore, quando irato le folgoranti saette vibra, l’arme tor di mano. Ahi, che più non mi sarà lecito queste braccia gettarti al collo, la cui candidezza di convenevol rossore sparsa avanza le matutine rose. Ma non voglia Iddio senza te ch’io viva, chè tanto viver senza te potrei quanto un corpo può senza spirito in vita stare. Siami, o Giove, da te concesso che ambidui un sepolcro