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avviluppò. Il perchè il vincitor da la vinta, il signore da la sua serva fu vinto e preso. Indi con tremante voce così le rispose: – Pon fine, o Sofonisba, al largo pianto e caccia da te la tèma che hai, chè non solamente a le mani del popolo romano non verrai, ma se a te piace io per legitima moglie ti prendo ed accetto, in modo che non prigionera ma reina viverai. – E dette queste parole, lei lagrimante abbracciò e basciò. Ella al volto, ai cenni, ai gesti e a le interrotte parole de l’amante nuovo comprendendo l’animo del numida esser di ferventissimo amore acceso, per più infiammarlo con un atto di pietade che i ferini cori de le ircane tigri averebbe intenerito e d’ogni fierezza spogliato, di nuovo se gli lasciò cader a’ piedi, e quelli così armati basciando e con caldissime lagrime irrigando, dopo molti singhiozzi ed infiniti sospiri, essendo da lui sollevata, disse: – O gloria ed onore di quanti regi mai furono, sono e saranno, e di Cartagine mia infelice patria, mentre ella ne fu meritevole, sicurissima aita e ora presente e terribilissimo spavento, se la mia fortuna dopo sì gran rovina può rilevarsi, qual maggior grazia, qual cosa in tutta la vita mia più lieta e fortunata mi può accadere che esser da te chiamata tua moglie? O me più d’ogn’altra felice di tanto e sì famoso consorte! O veramente aventurosa e felicissima mia rovina, o fortunatissima mia disgrazia, se così glorioso e senza fine da deversi desiderar matrimonio m’era apparecchiato! Ma perchè i dèi a me son contrarii e il debito fine de la mia vita è giunto, cessa ormai, signor mio caro, di raccender la mia ammorzata anzi spenta speranza, perciò che in tal stato mi veggio che indarno contra il voler dei dèi ti affatichi. Assai gran dono ed in vero grandissimo riputerò da te ricevere se morir mi farai, a ciò che per tuo mezzo o con le tue mani, chè molto più grato mi fia, morendo esca de la tèma di servir ai romani e venir in poter loro, e questa anima libera ai Campi Elisi se ne vada. L’ultimo termine dei miei prieghi e tutto quello che io da te desio e ch’io supplico è il fuggir le forze romane e non esser a quelle soggetta. Questa è la meta e il fine dei preghi miei e d’ogni mia domanda. L’altre cose che tu, la tua mercè, mi offeri, io non ardirei non dico chiederle ma desiarle, chè a dir il vero lo stato adesso de la mia fortuna tanto alto salire non presume. Prego bene l’eterno Giove con tutti gli altri dèi che il tuo buon animo verso me riguardando, lungamente l’acquistato regno godere ed a maggior termini quello ampliar ti lascino. Io poi quelle grazie che per me si ponno maggiori ti riferisco. – Furono sì efficaci queste parole che Masinissa non puotè mai