Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XVI
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al quale egli appiccò la scala, in alto la tirai, e quella accomandata di modo che non poteva dislegarsi, feci cenno a messer Aloise che su salisse. Ma come la sua e mia sventura volle, senza pur potermi toccar la mano, in terra con mio inestimabil dolore precipitò. Il perchè rivochi la confessione che d’esser ladro ha fatto, e dica pur il fatto come fu, poi che io di confessarlo non mi vergogno. Eccovi le lettere che egli tante mi scriveva ricercandomi di parlare, e sempre chiedendomi per moglie. Ecco la scala, che fin ora sempre è rimasa in camera mia. Ecco la mia fante, che ad ogni cosa m’è stata mezzana ed aiutrice. – Messer Aloise, domandato da quei signori, confessò la cosa come era. Onde medesimamente fu da quei signori assoluto, e volle la sua cara amante sposar per legitima sposa. Il prencipe molto lo commendò. Andarono adunque tutti i parenti de le parti a casa di madonna Gismonda, ove con general piacer di tutti, solennemente la sposò, e si fecero le nozze sontuose ed oltra modo onorevoli, e messer Aloise con la sua sposa lungamente in santa pace visse. Madonna Luzia e madonna Isotta al tempo loro partorirono dui belli figliuolini maschi. Il che non poco accrebbe il piacer dei padri loro, che vissero con le madri tranquillamente, e tra lor dui come fratelli, più volte de le beffe loro saggiamente da le mogli fatte ridendo. E per Vinegia il savio parer del prencipe fu da tutti senza fine commendato e molto accrebbe la fama de la sua prudenza. Chè in vero fu prencipe prudentissimo, e molto col suo sapere e col conseglio aggrandì il dominio de la sua Republica, la quale ne l’ultimo, senza che meritato lo avesse, molto poco grata se gli dimostrò, deponendolo da la sua degnità ducale perchè era troppo vecchio.
Il giorno dopo che io partii da Mantova e venni a Gazuolo, il vostro e mio gentile ed ufficiosissimo messer Paris Ceresaro con un suo servidore mi mandò la vostra lettera, che voi da Milano mi avete scritta, la quale se mi fu grata oltra modo non potrei dirvi, chè in vero mi fu, se dir lice, più che gratissima. E perchè io in breve sarò in Milano, ove mi fermerò per qualche tempo, non vi risponderò altrimenti a l’ultima parte di essa lettera, perchè quando saremo insieme io sodisfarò molto meglio a bocca a quanto desiderate che per me si faccia che ora non farei con lettere; e mi rendo sicuro che il tutto senza difficultà nessuna otterremo, e tanto più facilmente quanto che colui dal quale voi devete esser servito ha bisogno del favore dell’illustrissimo monsignor di Lautrecco, il quale leggermente da voi gli sarà impetrato, non ricercando egli se non cosa giusta ed onesta, e voi appresso il detto monsignor potendo molto, come la fedele ed assidua vostra servitù e le vostre rare vertuti meritano. Or tornando a la lettera vostra, pensate se poteva in meglior luogo e tempo trovarmi che in Gazuolo. Come ella fu da me letta, io la diedi in mano al nostro cortesissimo signor Pirro Gonzaga, dicendogli queste precise parole: – Se io ora in Mantova o altrove mi ritrovassi, al ricever di questa lettera me ne montarei a cavallo e verrei a ritrovarvi ovunque voi vi ritrovassi, per servir il signor Francesco. Pensate mò quello che io farò essendo qui a la presenza vostra. – Alora egli lesse la lettera, e ridendo mi disse: – To’ la tua lettera, e non mi dir parola, chè io non farò cosa di che mi parli, ma farò ben quanto il signor Francesco ti scrive. – Poi soggionse come egli si mette in ordine per andar a la corte del re cristianissimo, e passerà per Milano ove tutto ciò che bramate averete. E forse che di compagnia verremo. Restami a la terza parte de la lettera vostra rispondere, ove voi mi pregate ch’io voglia farvi copia d’alcune mie novelle. Io era d’animo d’aspettar fin che io venissi a Milano, ma sovvenutomi poter al presente sodisfarvi, ve ne mando una avvenuta non è molto in Mantova, che io questi dì scrissi, essendo stata recitata a Diporto, a la presenza di madonna Isabella da Este marchesana di Mantova, da messer Alessandro Orologio, segretario dell’illustrissimo e reverendissimo signor Gismondo Gonzaga cardinal di Mantova. Questa adunque vi mando e voglio che vostra sia in testimonio de l’amor nostro. A Milano poi ve ne mostrerò molte altre, da me a diversi amici e signori miei donate, per non aver io altro con cui possa mostrarmivi grato. State sano.
La cosa di cui il valoroso messer Lodovico Guerrero da Fermo, poco è, ha parlato, m’ha fatto sovvenire, madonna eccellentissima, d’una novella che nel verno passato in questa città di Mantova avvenne. E poi che da lei sono astretto a novellare, ancor che mia professione non sia, io pure per ubidire dirò quanto mi occorre. Sì come tutti noi che qui siamo abbiamo veduto e sentito, fece questa vernata un freddo tanto grande ed eccessivo che io per me non mi ricordo averne maggior sentito già mai. E ancora che per tutta Lombardia le nevi fossero in grandissima abondanza e i freddi di strana maniera facessero tremar ciascuno, in Mantova nondimeno, che a freddissimi venti è sottoposta, fu il freddo sì intenso e le nevi in terra tanto durarono, che qualunque persona v’era restava stupidissima. Il nostro limpidissimo lago, che la città abbraccia e con le sue acque cinge, tutto in cristallina pietra era converso. Il piacevolissimo ed onorato Mincio, che per i nostri lieti campi discorrendo suole agli abitanti graziosissima vista porgere, in durissimo ghiaccio congelato, pareva che tutto di puro vetro fosse divenuto. Ma che diremo del nominatissimo re dei fiumi? Il superbissimo Po, affrenando il suo rapidissimo corso e tutto di marmo fatto, non solamente aveva l’acque condensate con la virtù restringente del freddo, ma in molti luoghi del suo largo letto faceva sicurissimo ponte a chi trapassarlo il voleva. Di che, eccellentissima madonna, voi ne potete far amplissima fede, perciò che a Borgoforte su le sue congelate acque discendeste ed a piede a l’altra ripa il passaste, facendovi compagnia molti dei nostri gentiluomini e la più parte di queste belle damigelle che qui sono. Era per questo a tutte le navi interdetto il poter navigare, nè per il Po nè per il lago, e meno per il Mincio, di modo che i nostri mantovani che hanno le possessioni loro di là dal Po, non si potevano de le vettovaglie e de le robe dei loro poderi prevalere. Sapete poi come i veneziani con l’aita dei francesi avevano assediata Verona, a la cui diffesa era da Massimigliano Cesare, sotto il cui imperio i veronesi dimoravano, stato messo il valoroso e nobilissimo signor Marco Antonio Colonna, uomo per le vertù sue e per la prodezza ne la milizia molto stimato e famoso. Ora, tanto che durò l’assedio, che alcuni mesi durò, i soldati francesi e i veneziani molte de le nostre ville saccheggiarono ed anco alcune ne arsero, e tutto il dì, quanto in campagna trovavano che fosse per il viver degli uomini o dei cavalli, rubavano e portavano al campo. Non si potendo adunque prevaler de le robe di là dal Po, e l’altra parte dei nostri campi verso Verona essendo d’ogni cosa spogliata, nacque in Mantova una carestia grandissima, e quello di che più bisogno si aveva era il viver de le bestie, perciò che per danari non si trovava nè fieno nè paglia nè biada da cavalli. Ora essendo la città nostra in questi termini, avvenne che uno dei nostri gentiluomini, giovine di buone lettere e dei beni de la fortuna onestamente dotato, che aveva le sue possessioni di là dal Po, si trovava aver tre cavalcature in stalla, e non sapeva come si fare, essendogli in tutto mancato il viver dei cavalli. Onde andando un giorno a spasso per la città, cominciò con i suoi famigli a ragionare del modo che tener si deveva per nodrire i cavalli, non essendo più strame in casa, nè fieno nè biada, e ne la terra non se ne trovando per danari. E ragionando egli di questo, un servidor gli disse: – Padrone, io ho veduto condurre, non è un’ora, una lezza di fieno ne la tale strada, la quale fu dal bovaro fermata dinanzi a la casa del tale. Egli ve ne potrebbe o prestare o vender una parte, fino che da la villa possiate far menar del vostro. Oramai comincia a rimetter in qualche parte il gran freddo ed il Po comincerà a farsi navigabile. – Il giovine udendo questo deliberò per via di qualche suo amico fargliene richiedere, perciò che egli con il padrone del fieno non parlava, per rispetto che avendo fatto il servidore a la moglie di colui ed accortosi di questo il marito, ne era divenuto geloso e non guardava di buon viso il nostro giovine. Mentre che di tal cosa ragionavano, prese egli la via verso la strada ove era il fieno, e veggendo che l’ora era tarda, chè era su l’imbrunire de la notte, e che la lezza non si scaricava, pensò che si starebbe fin al matino a scaricarla. Onde disse ai suoi servidori: – Io credo che per questa notte la lezza dimorarà su la strada; pertanto se vi dà l’animo, come siano le cinque o le sei ore, noi verremo qui e ne empiremo alquanti sacchi e li portaremo a casa. – Promisero i famigli di far il tutto. Venuta adunque l’ora determinata, quivi con i sacchi se n’andò, dicendo: – Iddio me lo perdoni, perchè il bisogno mi stringe, e più assai che non vale il fieno io ne rimborserò con bel modo il padron di quello. Le mie cavalcature per sei o sette giorni averanno da mantenersi, ed in questo mezzo qualche cosa ci aiuterà, tanto che elle non sì tosto morranno. – Era la notte la più oscura del mondo, e persona per la contrada non si sentiva. Il perchè, parendogli d’aver agio a far ciò che dissegnato aveva, cominciò con quattro servidori che seco erano, con quanta più frettolosa segretezza poteva, a far empire i sacchi del mal governato fieno. Or ecco, mentre che tutti erano al rubare intenti, sentirono per la strada uno che per quella veniva a la volta loro. Il perchè dietro al fieno ritirandosi, cheti dimoravano. Era colui che veniva un gentiluomo innamorato d’una bella giovane, moglie del padron del fieno, il quale aveva la posta di giacersi la notte con lei, perciò che il marito era fuor di Mantova. Questi, non sentendo alcuno, diede il segno de l’entrare ne la casa. Nè guari stette che una de le fanticelle de la donna s’affacciò ad una bassa finestra, la quale quasi era dirimpetto al fieno, e con bassa voce chiamò l’innamorato per nome e gli disse: – Messere, egli conviene che voi abbiate un poco di pazienza, imperciò che questa sera al tardi ci venne a casa un parente del marito de la madonna, e non è ancora ito a dormire e n’è stato bisogno apparecchiar la camera per lui, ove voi solete l’altre volte ritirarvi. So bene che a madonna cosa non poteva avvenire che tanto di noia le arrecasse. Ma pure al tutto, eccetto che a la morte, rimedio si può dare, perchè a mal grado di chi ci venne abbiamo il camerino da basso, che su l’orto ha la finestra, apparecchiato per voi, ove già altra volta, quando il messere a l’improvista il giorno de la beata Osanna arrivò, vi nascondeste. Sì che travagliatevi un poco per la contrada che il freddo non vi assideri, ed io come sicuramente possa, verrò ad aprirvi la porta. – L’amico che con i servidori stava appiattato dietro a la lezza udì tutte queste parole, e giudicò che la donna, la quale egli aveva lungo tempo servita e corteggiata, se s’era mostrata ritrosa ai suoi desii, avveniva che altri amava. Il perchè caddegli ne la mente che gli poteva venir fatto di ritrovarsi con qualche inganno con lei, dicendo tra sè: – Il mio rivale cerca contrario effetto al mio di fare, perciò che egli vorrebbe la roba del signor del fieno, che io scarico da la lezza, caricare nel letto. Ma d’una pensa il ghiotto e de l’altra il tavernaro, perchè io sarò quello che scaricherò il fieno e caricherò la donna. – Nè dato indugio a la cosa, essendosi in lui destato il concupiscibile appetito e racceso l’amor antico, sentendo che il rivale, che solo era, si discostava passeggiando da la casa, pianamente chiamati i suoi servidori gli andò dietro facendo gran stropiccio con i piedi. Onde il rivale, che non voleva esser conosciuto in tal luogo, partì de la contrada e voltossi ad un altro camino, dubitando anco che chi dietro lo seguiva non fosse dei sergenti de la corte. Di che avvedutosi il giovine del fieno, lo lasciò andare per i fatti suoi, e dui dei servidori pose a un capo de la via, e gli altri a l’altro. Era la contrada ove la donna innamorata dimorava molto corta, la quale in due altre strade rispondeva. Posti i famigli a le poste e loro comandato che vietassero l’entrata ne la strada a ciascuno, si mise appresso la porta de la casa de la donna, altro non attendendo se non che la fante venisse ad aprir l’uscio. Egli sapeva molto bene il sito de la casa e per qual via al camerino si perveniva. La donna, che altro non curava che far entrare l’amante, s’affrettò che il parente del marito con i dui servidori che seco erano andasse a dormire. Il che fatto, mandò la fante a veder se l’amante ancora era per la contrada. Come il giovine, che ad ogni minimo atto stava attento, sentì che verso la porta gente veniva, imaginatosi ciò che era, tutto rassettatosi e fatto animo di lione, attendeva che la porta s’aprisse. La fante, come prima affacciatasi a la finestra, pian piano sputò, ed il giovine subito fece il segno che al rivale aveva sentito fare. Onde senza indugio la fante aperse la porta, ed il giovine entrando dentro volle non so che dire. Ma la fante postagli la mano a la bocca, molto basso li disse che non favellasse per rispetto dei forestieri che alora alora s’erano a la camera ridotti. E soavemente raffermando la porta, prese il giovine per la mano e lo condusse al camerino, e lasciatolo entrare, subito se ne ritornò a la padrona, la quale in sala con gli altri di casa ragionava appresso il fuoco, e le fece cenno come l’amico era entrato in casa ed aspettava nel camerino. Ora il giovine, come a quel luogo si vide condotto, pensò per la prima spegnere il lume che in quello ardeva, a ciò che così tosto non fosse conosciuto, nè fu lontano da l’effetto l’avviso. Spenta che ebbe la candela, si discinse la spada e la mise appresso al letto, il quale riccamente era apparecchiato, e sovra quello egli si pose a sedere pensando tuttavia come con la donna governare nel primo affronto si deveva. Ella come conobbe il suo amante, o quello che credeva esser l’amante suo star nel camerino, ordinò che tutti s’andassero a riposare, nè di sala prima volle partirsi che non vedesse ciascuno esserne uscito. Poi di sala uscendo, se ne entrò con la fante consapevole del suo amore ne la sua camera. Quivi alquanto dimorata, per dar spazio a tutti di fermarsi ai luoghi loro, scese poi tutta sola una scala, e senza alcun lume al camerino chetamente si condusse, e quello con le chiavi che seco aveva aperto e serrato subito l’uscio: – Oimè, – disse, – voi sète qui senza lume? – E volendo la candela accendere al fuoco che era nel fuocolare del camerino, ma quasi tutto spento, il buon giovine fattosele incontro, e quella amorosamente ne le braccia raccolta e basciata, pianamente le disse: – Ben venga l’anima mia. – E la donna altresì abbracciando e basciando lui disse: – Voi siate il ben trovato; ma lasciatemi allumar la candela e riaccender il fuoco, perchè devete esser assiderato dal freddo. – S’era il giovine ne l’entrar dentro scaldato al fuoco che alora ardeva e sparse poi le legna per ammorzarlo, a ciò che non rendesse splendore, e per questo non si curava punto che la candela fosse accesa. Onde sue mózze ed interrotte parole dicendo, e quella affettuosamente basciando, mostrandosi bene ebro de l’amor di lei, la condusse sovra il letto e quivi senza favellar in guisa che potesse esser scorto, per buon spazio, con sommo diletto di amendue le parti, amorosamente de la donna ogni voglia compì. Ella, o che al non usato parlar del giovine, che non ardiva parlar schiettamente, pigliasse sospetto, o che si accorgesse aver cangiato coltello, o che che ne fosse cagione, deliberò chiarirsi se col suo solito amante s’era presa trastullo, o pure con un altro. Onde gli disse: – Io vo’ allumare il fuoco e riaccender la candela. Il freddo è grande, e non voglio che stiamo senza lume. – Non rispose a questo il giovine parola alcuna, ma facendo buon animo si preparava a dir la sua ragione a la meglio che sapeva, portando ferma openione che come la donna veduto l’avesse, che sarebbero incontinente venuti a le mani. Levata la donna e discesa giù dal letto, prese la candela e l’accese, e poi destato il fuoco nei carboni, vi aggiunse de le legna, di modo che il camerino tutto si fece chiaro. Il giovine in questo mezzo fingendo di voler dormire, si mise boccone su ’l letto, e giacendosi così, punto non si moveva. La donna veggendolo in quel modo corcato, pensò che egli, sovrapreso dal sonno e stracco da la durata fatica, avesse bisogno di riposo. Onde, non volendolo destare, si mise a seder al fuoco, attendendo che egli pur si risvegliasse, tuttavia perciò di lui dubitando. Ora, ogni picciola dimora parendole più che lunga, e spinta dal dubio che la molestava, al letto s’accostò, e poste le mani su le spalle al giovine e lievemente scotendolo: – Lieva su, – disse, – dormiglione che tu sei, che ora non è tempo di dormire. Su su, destati. – Il giovine giunto a questo passo, e veggendo che celar più non si poteva, fece vista di sonnacchioso e stendendosi, come fa chi mal volentieri si vede romper il sonno, disse: – Oimè, chi è là? Chi mi desta? – e rivoltò la faccia verso la donna stropicciandosi gli occhi. Ella subito il conobbe, e veggendo con cui s’era giaciuta, rimase tutta stordita ed immobile come una statua, non sapendo che si dire. Il giovine saltò giù dal letto, e lei più morta che viva ne le braccia si recò e mise sovra il letto, tuttavia festeggiandola e dicendole di molte dolci parole. In questo la fante, che forse aveva voglia di dormire, perchè soleva sempre ne la camera de la donna, quando era con l’amante, corcarsi, avendo anco ella la chiave del camerino, quello aperse, ed entrata dentro, veggendo che ancora non erano spogliati e nulla de l’inganno sapendo: – Olà, – disse, – che fate voi, che non vi spogliate e mettete in letto? Egli è ben oramai tempo di porsi a riposare. Ecco che io vi aiuterò a dispogliarvi. – In questo la donna ricuperata alquanto la lena amaramente piangendo: – Oimè, sorella, – disse, – che io son tradita. Mira in mano di cui sono giaciuta. Oimè dolente e misera me, che mai più non sarò in questa vita lieta! Io non sarò mai più donna, nè ardirò andar in publico già mai. – La fante udendo questo lamento, e non sapendo a che fine la sua madonna usasse cotali parole, fattasi lor vicina, come conobbe il giovine, quasi che volle gridare. Ma ricordandosi che dal parente del messere poteva esser sentita, si ritenne ed insieme con la madonna cominciò dirottamente a lagrimare e lamentarsi. Il giovine, che sempre la lagrimante e dolente donna tenuta aveva ne le braccia, nè per sforzo e dimenare che si facesse mai l’aveva voluta lasciare in libertà, la confortava e lei renitente basciava e con mille vezzi accarezzava dicendole: – Anima mia dolce e cor del corpo mio, non vi turbate, e non prendete a sdegno che quello che io con la mia lunga e fedelissima servitù mai non ho potuto acquistare e da voi, vita mia, ottenere, mi sia ingegnato con astuzia e sollecitudine conseguire. Non dite, cara la mia padrona, che da me siate stata tradita, ma incolpate Amore, che di voi così fieramente m’ha acceso, che mai giorno e notte non mi ha lasciato riposare. Egli è stato quello che la strada di venir in questo luogo m’ha insegnato. Egli qui mi ha condotto, e solo esso m’è stato guida e duce. Sapete bene, che più di cinque anni sono che io de le vostre rare bellezze e dei bei modi e de la vostra leggiadria m’innamorai, ed una gran parte de la mia giovanezza in seguitarvi giorno e notte spesi, senza mai pur avere meritato una buona vista da voi. E ben che io dura, crudele e ritrosa ai miei disiri sempre vi trovassi, per questo non mi smossi dal mio fermo proponimento già mai, anzi pareva che sempre il mio amore fosse cresciuto e fatto assai maggiore. Il perchè giorno e notte ad altro non attendeva, in altro mai non dispensava i miei pensieri, che in ricercar il mezzo e ’l modo che io potessi la grazia vostra acquistare, a ciò che le acerbissime mie pene, i gravi miei martìri e la penace doglia, che miseramente mi distruggeva, trovassero qualche conforto a così tribolata vita. E perchè io non sapeva nè poteva tanto incendio, quanto questi vostri begli occhi, – e questo dicendo le basciava gli occhi, – questi occhi, dico, in me accesero, celare, le voraci fiamme in tal maniera si scopersero, che il marito vostro se n’avide e cominciò fieramente a prendermi in sospetto e meco più non praticare, anzi come mi vedeva in altre bande si rivoltava. Onde io, che prima vorrei morire che esservi mai cagione di noia alcuna, cominciai a ritrar il piede di venir in queste vostre contrade, per non dar più sospetto al consorte vostro di quello che si aveva preso. Medesimamente ne le chiese e ne le feste e balli mi bastava vedervi, e poi altrove me ne andava. Di che vi sète potuta benissimo accorgere. E forse pensavate che io non vi fossi più servidore e che l’immenso amore che vi portava mi avesse come una veste cavato. Ma voi eravate di gran lunga errata, perciò che l’amor mio in parte alcuna non s’era, non dico ammorzato, ma nè pure intiepidito. Io, signora mia, non vi potendo di giorno vedere, me ne veniva di notte a veder le mura de la casa vostra, e nove e diece fiate ogni notte per la contrada vostra passava. Io mille volte toccava l’uscio per veder s’egli era fermato o no, quando sapeva il vostro consorte esser in villa, con deliberazione di venirmene a la camera vostra, e trovandola aperta, entrar dentro e tanto pregarvi che di me vi venisse compassione, ma mai non mi venne fatto. E perchè io sapeva che altri più di me v’era caro, e che quello del vostro amor avevate fatto degno, e che spesso di notte a voi il facevate venire, io tanto e tanto ci ho posto mente e tanto gli andari vostri ho osservato, che una volta m’è venuto fatto quello che io tanto desiderava. Questa notte, secondo il mio solito, essendo io venuto a veder le mura de l’albergo vostro, essendo dinanzi a la porta di quello, io sentii venir uno, e per non esser da lui nè visto nè conosciuto mi ritirai dietro al fieno de la vostra lezza che ne la contrada è posta, attendendo che colui che veniva passasse via. Ma egli, come fu per iscontro a la porta, diede il cotal segno. Onde costei che è qui venne a la finestra da basso e gli disse che un parente di vostro marito ci era venuto la sera, e che ancora non era ito al letto, E così sentii tutto quello che ella gli ragionò. Il perchè deliberai di tentar la fortuna e veder se mi poteva riuscire il mio dissegno. Il che, mercè d’Amore, mi è venuto fatto; e voi che vie più che la luce de gli occhi miei sempre ho desiderato, sète stata in mio potere. Egli, padrona mia, non può oggimai essere, che ciò che s’è fatto torni a dietro e non sia fatto. Se voi sarete così saggia e prudente come sète bella, acqueterete l’animo vostro e conoscerete quanto di male può avvenire, quando vogliate restar ostinata ed in tanta còlera in quanta vi veggio, perchè io non intendo quindi partirmi senza la grazia vostra. Sì che, cor del corpo mio, accettatemi per quel vero e leal servidore che sempre stato vi sono. E volendo la fede mia provare, fatene tutte quelle sperienze che sapete, chè sempre mi trovarete più pronto assai e presto ad ubidirvi, che voi non sarete a comandarmi. – Tanto seppe il giovine cicalare e dire affettuosamente il fatto suo, che a la fine la donna con lui si rappacificò, e di pari volontà di ciascuno si spogliarono e si misero nel letto, ove poco dormirono, dandosi il meglior tempo del mondo. Era la donna al giovine meravigliosamente piacciuta, ed egli sì valorosamente ne la giostra si diportò, che ella alquanto di lui s’accese. La fante, al voler de la sua madonna accordatasi, s’andò a riposare. I famigli del giovine, come conobbero il lor padrone esser entrato in casa, non si smenticando il fieno, quello in più volte nei sacchi tutto a casa ne portarono. Il primo amante ritornò e fece il segno, ma la fante sapendo gli alloggiamenti esser presi, fece il sordo. Ora veggendo egli che niuno si moveva, pensò che il parente del marito che la sera era arrivato avesse l’andata sua impedita. Ma le carezze che il giovine a la donna fece a lei il core cangiato avevano, la quale tutto il tempo che nel letto col giovine stette, quello sempre in braccio tenne, e provato quanto egli più de l’altro valeva, piegata quella prima durezza in dolcissimo amore, di sempre esser sua si dispose, e dati seco nuovi ordini saggiamente operando, l’amor di quello si godeva. Trovate poi sue scusazioni con l’altro, per la via de la fante gli fece intendere che più possibil non era che insieme si trovassero. Così adunque la savia donna, provato l’uno e l’altro, a colui che più valente e di meglior nerbo giudicò, s’apprese, e il nuovo amante cominciando da scherzo fece da dovero, e seguitò e tuttavia segue questo amore, spesse fiate con la donna ridendo de l’aventurosa beffa.
Erano andati il signor Pirro Gonzaga di Gazuolo ed il signor Alessandro figliuol del signor Giovanni Gonzaga, con molti gentiluomini, a Diporto al palagio amenissimo, per fare che a la presenza di madonna Isabella da Este, marchesana di Mantova, si facesse una pace tra dui valenti soldati. Era del mese di luglio, e già cominciati i giorni de la canicola abbrusciavano di caldo grandissimo l’aria, nè si vedeva che spirasse vento alcuno, o che pur un poco d’òra movesse una minima foglia su gli arbori. Il perchè essendosi madonna subito dopo desinare ritratta di sopra, disse il signor Pirro a la compagnia: – Signori miei, poi che madonna non v’è, io sarei di parere che andassimo tutti di brigata a goderci il fresco de la loggia del giardino e quivi passar il tempo, fin che madonna discenda a basso. – Piacque a tutti il parlar del signor Pirro, ed entrati sotto la loggia tutti s’assisero e cominciarono tra loro di varie cose a ragionare secondo che loro più aggradiva. Non guari stette che sovragiunse messer Alessandro Baesio, compagno d’onore di madama, il quale veniva da San Sebastiano. Salutò egli tutta la compagnia e fu da tutti lietamente ricevuto, perciò che era persona allegra e molto piacevole. S’assise adunque con gli altri, e come fu assiso disse: – Signori, in questa medesima ora è stato affermato al nostro signor marchese trovarsi in questa sua città di Mantova una gentil donna di molto onorevol parentado, la quale in pochissimo spazio di tempo s’è amorosamente giacciuta con tre gentiluomini forestieri, che sono persone segnalate e tutti tre fratelli carnali. Il che al signor nostro è paruto assai strano, ed ha voluto dal signor Gian Francesco Gonzaga di Luzara, che sa come il fatto è passato, intender il nome de la donna, ed in segreto egli glielo ha manifestato. – Parve a tutti il caso esser fieramente abominabile e di rado avvenuto, e molte cose sovra la preposta materia furono dette, e s’andava con varii argomenti investigando chi potevano esser i tre fratelli e la donna. Alora il signor Alessandro Gonzaga sorridendo disse: – Noi siamo venuti qui per conchiuder la pace di questi valenti uomini, e siamo entrati a parlar de la