Nel deserto/Parte II/Capitolo III
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III.
Per nulla al mondo Lia sarebbe tornata ad Anzio, in quella spiaggia che aveva conosciuto la sua felicità e la cui sabbia le pareva dovesse ancora conservare le orme del suo povero Justo. D’altronde la vita ad Anzio costava troppo; ella quindi cercò altrove, e la serva le indicò una spiaggia poco frequentata e la casetta d’una donna che era stata sua compagna di servizio. Lia decise di partire agli ultimi di giugno, e la domenica prima della partenza entrò dal Guidi che in quei giorni, forse a causa del caldo, era molto nervoso e non dimostrava più alcun interesse per la sua padrona di casa.
— Bisogna che l’avverta, — disse, fermandosi timida e corrucciata accanto all’uscio, mentr’egli, che stava ancora a letto e leggeva, sollevava gli occhi guardandola con una certa sorpresa.
— Io e i bimbi partiamo il ventinove. Andiamo un po’ al mare. La donna verrà puntualmente tutt’i giorni per il servizio.
Egli non protestò: solo disse:
— Avrei bisogno anch’io un po’ di aria di mare. Pazienza: dove va, signora Lia? Ha trovato una bella casa?
— Andiamo in una casetta modestissima: due camerette ed una piccola cucina, si figuri! Ma il luogo è quieto, pittoresco e si spende poco.
— Verrò a trovarla, una domenica, se non le dispiace.
— Oh, venga pure! — ella esclamò con gioia, — Mi farà piacere. Mi avverta, prima, se crede.
— Vediamo l’orario, — egli disse, cercandolo nella terza pagina del giornale che teneva in mano. — Ah, va bene: dal primo luglio c’è il diretto che si ferma. E così, quando partirebbe lei, signora Lia?
— Il giorno ventinove, alle dieci del mattino.
Dalle sette, il giorno della partenza, Salvador e Nino tenevano già pronte in mano le due piccole valigie ove la mamma aveva raccolto le loro vestine, le maglie, un quaderno per Salvador e persino qualche giocattolo.
Alle nove ella entrò per salutare il Guidi; egli stava per recarsi all’ufficio, e accompagnò la famigliuola fino al cortile del Ministero delle finanze. In quell’ora del mattino, il vasto cortile sembrava una piazza di città di provincia: solo qualche impiegato in ritardo l’attraversava, e il rettangolo di cielo chiaro che lo copriva era dolce e mite come un cielo di campagna; la fontana pareva spruzzasse per scherzo le sue scintille d’acqua sui piccoli palmizi e sugli oleandri dell’aiuola centrale, e nella cornice dell’arco d’ingresso, verso via Volturno, s’intravedeva uno sfondo lontano azzurro e vaporoso, come se laggiù sorridesse già il mare.
Lia si sentiva quasi felice: aveva sorriso, passando, al suo antico amore, il buon colosso di bronzo che vigilava sulla folla indifferente, e le pareva di andare verso una nuova vita.
L’uomo invece era tediato, con un’aria di disgusto sul viso pallido; domandava se la donna di servizio era fidata e guardava lo sfondo azzurro con uno sguardo freddo e triste.
— Bè, — disse, arrivati davanti alla scalinata dell’ingresso. — Buon viaggio, signora Lia. Beata lei che va a respirare un po’ d’aria buona!
Lia fermò Salvador per l’omero.
— Saluta il signore.
1 bimbi si fermarono e il più espansivo fu Nino, che porse la sua manina e fece due o tre inchini.
— Arrivedella, arrivedella!
I suoi grandi occhi neri, dal bianco azzurregnolo, scintillavano come due stelle, mentre gli occhi dolci e limpidi di Salvador fissavano quasi ostili il Guidi.
Ben presto il gruppo della mamma nera coi bimbi bianchi all’ombra dei larghi cappelli gialli orlati di nero, s’allontanò per via Volturno, verso lo sfondo luminoso. Salvador disse:
— Perchè lo hai invitato? Anche là, allora bisogna che stiamo zitti.
— No, no, — disse Lia. — Là c’è molto spazio!
*
Spazio ce n’era; ma la casetta, che in maggio e giugno era stata abitata da cacciatori, conservava ancora un odore di selvaggina, sebbene l’aria entrasse a fiumi per i due ingressi, uno dei quali dava sul sentiero della brughiera, l’altro su un cortile attiguo alla spiaggia. Lia fu colpita dalla rassomiglianza del luogo col suo paesaggio natìo; solo, la spiaggia era meno lontana, e più in giù dalla casetta, sorgeva una fila di ville circondate di giardini, rosse e bianche sullo sfondo turchino di un piccolo golfo, e più giù ancora la torre di un castello medioevale appariva nera tra il verde di una pineta, il cui mormorio pareva ripetesse quello delle onde.
La padrona della casetta serviva in uno dei villini, ma consegnando le chiavi a Lia le offrì di farle la spesa, alla mattina, poichè l’unica rivendita di generi alimentari era lontana, al di là del castello.
Lia accettò, e partita la donna si trovò di nuovo sola coi bimbi in mezzo alla brughiera; ma durante la giornata non si accorse della sua solitudine, occupata a riordinar la casetta ed a rincorrere i bambini che ogni momento scappavano verso la spiaggia. La loro felicità riempiva di luce la sua anima inquieta, come la luminosità del mare e dell’orizzonte rallegrava la povera abitazione. Ma al cader della notte i bimbi stanchi e beati si addormentarono, ed ella andò a sedersi come una povera serva stanca sul limitare della porta. Il mormorio del mare e il profumo della brughiera riempivano di poesia la notte: il cielo era chiaro, stellato; ed ella provò una strana meraviglia nel contemplarlo.
Le stelle! Dunque le stelle esistevano ancora? Ella le aveva dimenticate, ed ora, ritrovandole, provava una dolcezza triste, un senso di sorpresa, quasi ritrovasse degli amici di infanzia.
A un tratto fu ripresa dalle sue antiche inquietudini, dalla stessa melanconia che la affliggeva nella casetta del palmizio, dallo stesso desiderio di rompere le catene con cui la sorte l’avvolgeva. Ah, non era più tempo di sogni! Per condurre i bimbi al mare aveva intaccato di nuovo il suo piccolo capitale; domani forse, in caso di malattia o di altra sventura, sarebbe rimasta senza niente! Le pareva di essere già caduta molto in basso, poiché ricordava le villeggiature ad Anzio, la casa sul molo, i bimbi addormentati in una bella camera ariosa, e lei sul balcone vestita di merletto.
Neppure allora era stata pienamente felice.... eppure a poco a poco i ricordi tornarono a vincerla, così dolci e belli che il presente le parve un incubo. Justo era ancora vivo; era assente, ma vivo. Ella lo aspettava. Fra poco sarebbe tornato; la sua figura bianca e lenta attraversava la spiaggia, saliva silenziosa fino alla casetta, si fermava davanti a lei.... La sua mano dolce e morbida le accarezzava i capelli; ma nella notte incerta, al vago chiarore che veniva dalle stelle e dal mare, ella non riusciva a distinguer bene il caro viso....
Un passo risuonò davvero dietro il muro del cortile, ed ella trasalì; ebbe paura di qualche malvivente e ricordò che era sola nella solitudine della brughiera. Anche gridando, laggiù dai villini non avrebbero sentito: così nella sua vita!
Balzò dentro e chiuse la porta.
*
Un giorno il postino le diede una cartolina del Guidi e una lettera della zia Gaina. La zia Gaina, alla quale ella faceva credere di trovarsi in ottime condizioni finanziarie, si lamentava perchè Lia non pensava di tornare, almeno durante l’estate, in paese, e concludeva con le solite frasi: «se tu hai bisogno di qualche cosa dimmelo: sono povera, ma la buona volontà non mi manca».
Il Guidi annunziava il suo arrivo per la domenica. Lia aveva sperato che egli si dimenticasse: ma poichè veniva bisognava farsi onore.
Diede quindi un cestino a Salvador, destando così l’invidia del piccolo, che voleva portare qualche cosa anche lui; e tutti assieme andarono in cerca d’uova e di polli, dirigendosi verso la collina giallastra che chiudeva la brughiera, a ponente, e sulla cui cima, in mezzo a una vigna, sorgeva un cascinale, bianco nel verde come un colombo in cima ad un albero.
Il tramonto circondava con un’aureola d’oro la collina. Lia e i bimbi percorsero il sentiero fino a una casetta tappezzata di glicine, passarono il ponte sopra la strada ferrata, salirono al cascinale e trovarono le uova e i polli, e una donnina gobba, bella in viso come una fata, e gattini, canini, capre e un vecchio con una lunga barba bianca, e un bimbo scalzo che conduceva una vacca e un vitellino nero al pascolo. Sembrava un mondo fantastico, e i bimbi non volevano tornare indietro. Ma bisognò decidersi; il sole era tramontato; un velo di nebbia rosea copriva la brughiera e al di là il mare sembrava una gran coppa di latte. I monti d’Abruzzo, rosei nell’azzurro lontano, parevano a Lia i monti della sua isola.
Nino piangeva perchè voleva il cestino grave d’uova che parevan di marmo, e di una gallina gialla e nera sgozzata ma ancora calda: ma poi tacque, poi si fece portare lui dalla mamma e si addormentò sulla spalla di lei. E Salvador rideva, canzonando il fratellino; ma a un tratto diventò pensieroso, guardò la gallina e disse: — Poverina, quando siamo andati cantava e adesso è morta. La sua anima dov’è?
— Quante volte ti dissi che le bestie non hanno anima?
— Sì; ma io credo che anche loro l’abbiano! Perchè no?
La sua piccola mente era già affaticata da grandi problemi che Lia s’affannava invano a risolvere. Rifecero la strada discutendo così profondamente che entrambi non s’accorgevano neppure del peso che li gravava.
La domenica mattina, mentre i due fratellini giocavano nel cortile sabbioso, Lia cominciò a preparare la colazione affacciandosi ogni tanto alla porta verso il sentiero per spiare l’arrivo del Guidi.
Non sapeva neppur lei se era contenta o no di questa visita che portava un certo squilibrio alle sue abitudini ed anche al suo bilancio quotidiano. A un tratto le parve che i bimbi litigassero: corse alla porta verso il cortile e si sentì battere il cuore. Un uomo vestito di bianco, — come il suo Justo, — col panama calato sulla fronte, — come il suo Justo, — stava in mezzo ai bimbi e distribuiva loro qualche cosa. Sì, anche Justo faceva così, quando arrivava alla spiaggia di Anzio. Ella non potè pronunziar parola, tanto quella visione improvvisa le fece male.
Ma quando l’uomo la salutò da lontano, ella si scosse e sorrise: ah, non era colui che non poteva tornar più; non erano i dolci occhi stanchi, il buon viso scuro, no; era un viso estraneo, bello di salute e di giovinezza, due occhi chiari, egoisti, una bocca fresca, gonfia di vita sotto l’ombra dei baffi dorati Per la prima volta egli le parve bello, ma d’una bellezza che le destava antipatia e quasi un senso di rancore. Ah, egli era forte, era un uomo, era padrone della sua vita: ella era fragile, sola, legata a una misera sorte!
Egli s’avvicinò, agile e sorridente, e pareva si compiacesse a mostrarle i suoi bei denti bianchi di fanciullo.
— Come va, signora Lia? Si diverte?
— Oh, moltissimo, — ella disse con un sorriso ironico. — S’accomodi, ecco il nostro villino!
Egli sedette sulla povera ottomana grigia che alla notte serviva da letto, e guardò a destra, guardò a sinistra, dando in esclamazioni di gioia e d’invidia. Nello sfondo della porta brillava, sopra la linea gialla del muro del cortile, la linea violetta del mare; nella cornice del finestrino si disegnava, come in un quadretto di maniera, il sentiero rossiccio fra le macchie verdi, e in lontananza la collina bionda con la vetta verde e il cascinale bianco, in cima, sul cielo lilla. Egli quindi non badò alla stanzetta, la cui povertà era come inondata e quindi nascosta dalla luce meravigliosa che veniva di fuori: vedeva le macchiette bianche dei bimbi nel sole del cortile, il profilo arabo della giovine vedova sullo sfondo del quadretto del finestrino, e una espressione di piacere quasi infantile ammorbidiva i suoi lineamenti troppo fini.
— Signora Lia! — disse, abbandonandosi sui cuscini dell’ottomana. — Ma come ha fatto a scovare questo posto? È bellissimo; è meraviglioso!
Lia taceva, come s’egli la canzonasse. Gli versò il caffè in una tazza turchiniccia slabbrata e gliene domandò scusa.
— Qui tutto è preistorico: bisogna adattarsi...
— Ma se tutto è bello, signora Lia! O lei è incontentabile?
La guardò, sollevando gli occhi dalla tazzina, attraverso il vapore profumato del caffè, e Lia si accorse che lo sguardo di lui era mutato. Egli la guardava finalmente come una donna, non come una «padrona di casa», e doveva trovarla bella, come tutte le cose intorno, perchè l’avvolgeva nella stessa ammirazione.
Dopo il caffè Lia gli offrì una tazza di latte, e poichè egli accettava gli diede dei biscotti e infine accostò allo spigolo del tavolo il panierino del pane: come senza accorgersene egli bevette e mangiò, e anche dal viso di Lia sparve l’ombra della diffidenza e del sarcasmo. Ella sembrava felice di scoprire nel suo elegante inquilino un semplice mortale.
— Fa caldo a Roma, signor Guidi?
— Non tanto, ma certo qui si sta meglio. Oh, certo meglio!
— Ma le piace tanto davvero? È un luogo melanconico e solitario, un rifugio da gente sconsolata. Anche i villini, che da lontano sembrano pittoreschi, da vicino sono quasi brutti, coi loro orticelli mal coltivati e i giardini selvatici. Si direbbe che chi li abita sia gente infelice, afflitta da disgrazie che non permettono, a chi ne è colpito, di curarsi oltre della vita.
— Oh, Dio, potrebbe anche essere il contrario!
E come Lia lo fissava, egli aggiunse:
— Quella gente potrebbe invece esser così felice da non curarsi delle cose che la circondano.
Ella fece un segno di diniego.
— Non credo, signor Guidi! Le persone felici amano circondarsi di cose belle. Sono gl’infelici che non si curano più di nulla.
— Ah, cara signora, lei non conosce abbastanza la vita. Noi spesso giudichiamo infelici solo le persone che si curano di dimostrarcelo: questi invece non sono i veri infelici, perchè sono ancora vivi, si cullano nel loro dolore, provandone magari voluttà, e aspettano e sperano ancora. Essi non si curano più del loro giardino, ma si curano molto di loro stessi: mentre il vero infelice, signora Lia, ha cura del suo giardino, e cammina e parla e ride anche, come un attore sul palcoscenico, e fa la parte di vivo mentre è morto, ben morto e sepolto....
S’era alzato e, con le mani in tasca, un po’ curvo e accigliato, guardava, attentamente un quadretto appeso al disopra dell’ottomana.
— Sì, anche lui dev’essere infelice, — pensava Lia. Ma a un tratto egli staccò il quadretto e lo guardò da vicino, sorridendo.
— È una stampa del Settecento e riproduce il castello, la pineta, il golfo solcato da velieri simili a barche di pirati.
I bambini intanto s’erano più volte avvicinati alla porta, e Nino, consigliato da Salvador, disse:
— Mamma, non si va a fare il bagno?
Ella gli accennò di tacere; ma il Guidi, dopo aver riattaccato il quadretto meravigliandosi di trovare un oggetto artistico in un simile luogo, uscì per lasciar libera la famigliola.
Dopo aver girovagato per la brughiera e lungo la spiaggia, si sdraiò su una specie di duna d’alghe e di sabbia e s’abbandonò alla contemplazione del mare. E a poco a poco, quasi vinto da una specie di fascino, sentì i suoi soliti pensieri abbandonarlo e provò un senso di conforto come un malato che un benessere improvviso solleva.
Allora cominciò a guardare con attenzione e con meraviglia le onde, quasi le vedesse per la prima volta. Alla linea verdastra del mare lievemente mosso s’univa la linea color lilla dell’orizzonte, e l’albero delle paranze pareva toccasse il cielo: le onde laggiù erano eguali, tutte d’un colore lividognolo, ma arrivate verso la spiaggia si dividevano e si slanciavano le une sulle altre, feline e feroci. Alcune si spingevano fin sui banchi di sabbia e di alghe, avanzandosi verso la terra con insistenza nemica; altre si spandevano con una certa grazia, come veli scintillanti, e altre ancora si ritiravano appena toccata la sabbia, e pareva avessero fretta di tornarsene indietro. Ma giù lungo la linea degli scogli tutte saltavano di continuo, senza tregua, con agilità feroce, e poichè il vento taceva parevano agitate da una forza interna, come cosa viva. Gli scogli brillavano come il cristallo, e alcuni, alti e concavi, davan l’idea di enormi coppe colme di vino spumante.
Piero Guidi provava una gioia infantile nel seguire il gioco delle onde: il paesaggio gli sembrava coperto da un velo iridato, oro verde e viola, e il profumo delle alghe calde su cui giaceva gli ricordava cose tenere, lontane.
La città, la monotonia dei suoi giorni, talvolta agitati, talvolta calmi, sempre eguali però, simili a quelle onde che lo divertivano appunto perchè gli apparivano come il gioco della vita, tutto gli sembrava lontano, facile a dimenticarsi. Ecco, bastava restar lì e non muoversi più, per sentirsi tranquillo, formar parte di quel paesaggio grandioso e solitario cullato dal rombo del mare.
Immobile, quasi addormentato, egli ricordava, le vicende della sua vita come non le aveva mai ricordate: con calma, senz’odio per i suoi nemici, senza paura del loro odio. Perchè tormentarsi? Bastava chiudere gli occhi, lasciarsi coprire dall’onda dell’oblio....
L’arrivo di Lia e dei bambini lo scosse dal suo dormiveglia: tuttavia rimase immobile, nella sua nicchia d’alghe, e senza esser veduto seguì con gli occhi i movimenti della giovine vedova. Tanto lei che i bimbi erano scalzi e indossavano lunghi accappatoi bianchi: e bastò che Lia lasciasse cadere il suo per apparire in un costume da bagno scollato e senza maniche: la tela nera aderiva come una seconda pelle al suo corpo agile, ed ella sembrava meno alta del solito ma più giovane, bella d’una bellezza senza artifici, quasi primitiva.
Salvador si buttò subito nell’acqua, scomparve, riapparì, guizzante come un pesce, coi capelli sul visetto pallido e lucente: Nino invece aveva paura e Lia dovette prenderlo per mano e bagnargli le spalle e tirarselo addietro aggrappato a lei come un piccolo naufrago. Ella rideva e gli versava l’acqua sui capelli, che si coprivano come d’una crosta d’argento: egli gridava di piacere e di terrore e a misura che l’acqua diventava più alta s’aggrappava più su fino al collo di Lia.
Piero Guidi osservava il grazioso gruppo, e la sua padrona di casa gli sembrava un’altra, una bella donna ch’egli non conosceva. I suoi capelli neri, inargentati dal riflesso dell’acqua, le fossette dei gomiti dorati, e sopratutto il collo lungo e gli omeri sfuggenti come nei ritratti delle principesse del tempo di Carlo Allerto, lo colpivano gradevolmente. Egli la guardava senza desiderio, ma con vivo piacere.
Quando ella uscì dall’acqua, e dopo aver rimesso l’accappatoio prese Nino fra le braccia, alta e svelta fra l’oro della sabbia e il verde e il viola del mare e del cielo, egli pensò a una Madonna del Morelli e s’alzò per osservarla meglio: e accorgendosi che Lia lo vedeva e arrossiva, si domandò se ella pensava a lui, se egli le piaceva; ma subito ricordò che una domanda simile un uomo se la rivolge quando una donna comincia a piacergli, e un senso di diffidenza lo riprese.
*
Rientrando nella casetta trovò Salvador che apparecchiava la tavola e si mise a chiacchierare con lui.
— Quanti anni hai? Che classe fai? Sei passato senza esame?
Salvador, intento alle sue faccende, rispondeva con un certo sussiego.
— Ho fatto l’esame di proscioglimento, perchè quello lo fanno tutti, anche i più bravi. A me han concesso di farlo prima degli altri, per poter partire. Mi han domandato quanti chilometri ci sono da Roma a Parigi. Sì, diss’io, ve lo saprò dire quando sarò direttore delle Ferrovie. Come hanno riso! Ma io non lo sapevo: come si fa a rispondere quando non si sa?
— Oh, ma che brigante che sei! E ginnastica te ne fanno fare?
— Sì; guardi che muscoli! — esclamò il fanciullo, sollevando la manica del grembiale e piegando il braccino esile e bruno come una corda.
— Eh, non c’è male! Sembra uno stecchino!
Salvador rise, anzichè offendersi, ma subito riprese a pulire i bicchieri col tovagliuolo, e continuò:
— I miei muscoli son d’acciaio. Chissà che non diventi un gladiatore! Eh, se io, per esempio, voglio diventarlo, posso, vero, mamma? Si può tutto quello che si vuole.
— Non sempre, bambino mio, — disse il Guidi; ma Lia, che lo invitava a mettersi a tavola, aggiunse rivolta al fanciullo:
— Sì, sì, caro, si può tutto ciò che è possibile. Certo, se tu ti metti in mente di diventare un gigante, per esempio, ad onta di tutta la tua buona volontà, non ci riuscirai mai: diventar forte ed agile, sì, se lo vorrai, lo potrai. E così tante altre cose.
— Io voglio diventare un albero! — disse Nino con aria tragica.
— Un ciliegio, vero? Così potrai mangiar le tue frutta senza incomodo.
E Nino fece atto di staccarsi di dosso le belle ciliegie e di mangiarle con avidità, e Salvador e la mamma risero, dimenticando la presenza dell’estraneo. Ma questi era serio, aveva voglia di discutere e domandò a Lia:
— Crede lei davvero a quanto dice? Educare la volontà, va bene; ma non è dare un’illusione ai fanciulli il far loro credere che basta volere per potere?
Lia non voleva discutere davanti a Salvador, sulla cui anima ogni parola lasciava un’impronta: rispose quindi che credeva fermamente a quanto diceva, escludendo sempre i casi della vita che sembrano combinati da una fatalità contro cui è inutile lottare.
— Tutta la vita è una serie di questi casi! — egli disse, animandosi. — E la nostra volontà è come la verità: è relativa. È spesso istinto e ci sembra volontà, è spesso ostinazione e ci sembra volontà....
— Appunto, bisogna educarla, piegarla verso il bene.
— Dov’è il bene e dov’è il male, signora Lia? Lo sa lei? Il bene e il malo sono anch’essi relativi....
Continuarono a discutere, ed egli negava tutto, ma senza troppa convinzione, e Lia ripeteva cose che aveva letto sui libri o aveva sentito dire, ma di cui neppur lei era convinta: Salvador fissava con ostilità l’estraneo che osava metter in dubbio gli insegnamenti della mamma, e Nino guardava con malizia il fratello invitandolo a ridere per i gesti nervosi e il modo di parlare del signor Guidi.
Nel pomeriggio la famigliuola tornò alla spiaggia. L’ospite l’accompagnava, e mentre i bambini costruivano un acquedotto nella sabbia, egli si sdraiò sulle alghe, accanto a Lia che tagliava e cuciva un paio di scarpette di tela, e domandò chi abitava i villini.
— Non so, non conosco nessuno. Soltanto so che in quella villa rossa, giù verso il castello, abita un ricco americano con due sue figlie. Fin qui non arriva nessuno, — ella aggiunse con malizia. — Se vuol vedere donne belle ed eleganti vada laggiù allo stabilimento.
— Stamattina c’erano solo due balene vestite di bianco: saran state le ricche americane; mi basta però di averle vedute una sola volta....
Lia sorrise, ma accorgendosi che egli la guardava fisso non rispose e si fece seria.
— E lei passa tutta la giornata qui? Come non si annoia, signora Lia? Perchè non è andata ad Anzio?
Ella curvò la testa sul suo lavoro, e i ricordi del tempo felice la rattristarono: le pareva di rivedere la spiaggia luminosa, il suo Justo fermo a contemplare i bimbi sepolti nella sabbia: e un prepotente bisogno di lamentarsi le fece pronunziare parole dolorose.
— Io non tornerò mai più ad Anzio, — disse come parlando alla scarpetta che tremava fra le sue mani brune. — Sono stata troppo felice laggiù. Del resto — aggiunse fiera nonostante le parole umili che pronunziava, — ormai son troppo povera per andare in una spiaggia di lusso. Il povero deve contentarsi della solitudine, nella quale, d’altronde, egli è condannato a vivere.
— Adesso è lei che fa la parte di pessimista, signora Lia! Forse perchè i suoi bambini non la sentono!
— È vero, — ella ammise sorridendo di nuovo. — Ma non creda che io nasconda a loro le mie opinioni sulla povertà, purtroppo basate sull’esperienza. La povertà! È forse davvero uno stato di perfezione, per chi è solo e vive secondo le leggi di Cristo. Ma quando non si è soli, signor Guidi! Io per me non mi lamento; ma che farebbero i miei poveri bambini se io venissi a mancare?
— La società provvederebbe a loro!
— Lei sogghigna, ed ha ragione! — disse Lia, deponendo la scarpetta sulla sabbia, e rivolgendosi a lui con fierezza: — la società li travolgerebbe come quell’onda lì, vede, travolge i fili delle alghe. Ma fortunatamente c’è qualcosa da cui si può sperare più che dalla società.
— Che cosa, signora Lia? — egli disse con finta curiosità.
— C’è un misterioso potere che ci guida anche se noi cerchiamo di resistergli. Dio? Il destino? Chissà. Certo io che sono povera, che sono la più umile delle donne, sento di dover la mia rassegnazione e, diciamolo pure, la mia fierezza, a questa speranza in un aiuto che non viene dagli uomini. Io spero sempre in una giustizia superiore. Essa non abbandonerà me nè abbandonerà i miei bambini. Questo mistico senso di speranza non mi ha mai abbandonato, neppure nei momenti più neri della mia vita: è una luce che come quella del sole traspare anche attraverso le nuvole più cupe. Io spero sempre, signor Guidi, non so in che cosa, ma spero. Gli stessi avvenimenti della mia vita m’insegnano che noi non siamo padroni della nostra sorte: c’è una mano che ci guida, e anche se noi vogliamo andare a destra ci spinge a sinistra, e par si diverta ad ammucchiare davanti a noi gli ostacoli per aiutarci a varcarli, e tende davanti a noi un velo che ci dà l’illusione dell’orizzonte, mentre l’orizzonte vero è al di là, al di là, e noi lo intravediamo solo nei momenti di elevazione, quando appunto questa misteriosa mano ci solleva, come la mano della mamma solleva il bambino curioso....
Parlando ella s’ora animata: i suoi occhi splendevano e sembrava una fanciulla. Ma l’ospite sorrideva quasi con scherno.
— Lei parla così perchè è giovane e spera in sè, nelle sue forze, non in un potere sovrumano, signora Lia!
— Io non spero nulla da me, — ella, disse, ricadendo nella sua tristezza. Non ho fatto mai nulla di buono nè di utile, neanche quando me lo sono proposto fermamente. Ma la colpa non è mia. Non mi hanno insegnato a lavorare: sono sempre vissuta come un essere passivo, inerte.
— Ma se mi pare che lei lavori anche troppo! Dalla mattina alla sera!
— E che è questo? — ella disse con amarezza; e fu per aggiungere: — e che è questo, se son costretta a far la serva ad un estraneo?
Sì, di nuovo estraneo, anzi più che estraneo nemico, poichè egli s’era alzato a sedere e le sfiorava il braccio e la guardava con gli occhi nuovamente pieni di una luce equivoca, e le parlava con lieve accento di scherno, sebbene la voce fosse carezzevole, vibrante di desiderio e di eccitamento al peccato.
— È giovane, è bella, signora Lia! Possibile che non se ne accorga? Lasci le idee melanconiche. Oh, Dio, noi volgiamo tutto in dramma, mentre la vita passa meno brutta del come ce la vogliamo ad ogni costo formare. Ma è la moda! Anche la vita noi camuffiamo alla moda; e la gonfiamo e la leghiamo con vesti sempre ridicole. Sentir lei a parlare così, come parla, di provvidenza divina, di aiuto sovrumano, vien voglia di ridere: la vita è bella, signora Lia, ma bisogna denudarla di tutte le sue vesti goffe dei suoi gioielli falsi....
Lia riprese la scarpetta e si rimise a lavorare. Avrebbe voluto dirgli che egli si contraddiceva, poichè fino a quel momento aveva sostenuto che la vita è un dramma continuo, di cui noi siamo gli eterni personaggi; ma perchè continuare? Egli non la capiva ed ella si sentiva sola, accanto a lui, e si pentiva di avergli aperto per un attimo, sia pure con vaghe parole, l’anima sua. A che rivelare le proprie inquietudini? L’uomo è sempre indifferente ai dolori del suo simile, e spesso consiglia la pazienza o la ribellione per non porgere aiuto....
Ma il Guidi voleva lasciare in lei una buona impressione, e continuando a chiacchierare le disse fra le altre cose che egli del resto ammirava le anime semplici e soprattutto la donna forte, sana e lavoratrice.
— Donne così non ne esistono più! — disse Lia con dispetto.
— Lei dà prova del contrario!
— Oh, grazie! Si vede che la spiaggia è deserta.
— Fosse pure affollata di migliaia di donne, lei sarebbe fra quelle che più ammirerei, — egli concluse, guardando l’orologio. — La prova ne è che mi dispiace di lasciarla; ma continueremo a discutere un’altra volta....
Lia non gli disse di rimanere: ed egli salutò i bimbi e se ne andò su per la spiaggia. Da lontano si volse e salutò ancora, mentre Salvador domandava sottovoce!
— Non tornerà più, vero?
— Speriamo di no, — disse Lia, e le pareva, di essere offesa per i complimenti del Guidi, ma in fondo provava un vago turbamento, e ripeteva fra sè ed esaminava ogni parola di lui, ricordandosi che in tutta la giornata egli non aveva mai parlato di sè. Anche lei dopo tutto non gli aveva detto nulla che potesse interessarlo o confortarlo se era infelice.
— Anch’io gli sono estranea come egli a me.
S’alzò, e come scosse la sabbia dalle sue vesti così le parve di liberarsi del fugace ricordo di lui.
Ma al tramonto, mentre andava coi bimbi a passeggiare verso la brughiera, passando davanti alla casina delle glicine si sentì chiamare dalla guardiana, una vecchietta abruzzese chiusa in un busto che le arrivava fino al collo.
— Signorina, non volete vedere la casina? Vostro fratello l’ha visitata, poco fa, e disse che l’anno venturo, forse, la prenderete in affitto....
— L’anno venturo.... la casina.... mio fratello?...
— Quel signorino che era da voi oggi....
I bambini cominciarono a ridere.
— Il signor Piero, sai mamma! Tuo fratello!
— Voi non volete vedere? — insisteva la vecchietta. — Egli passava di qui, per andare alla stazione; io lo invitai a visitare la casina, ed egli entrò e disse: allora per l’anno venturo! C’è una bella terrazza, sei camere, i bicchieri di cristallo, le posate, la ghiacciaia, il bagno.... il letto matrimoniale....
— Andiamo a vedere, mamma!
Salvador le tirava la manica, ma ella sorrise alla vecchia e le disse:
— Troppo lusso per noi!
— L’anno venturo.... Egli pensa all’anno venturo.... — mormorò poi fra sè, seguendo i bambini che correvano su per il sentiero della collina. E come un’ombra luminosa di crepuscolo, fatta di paura, di diffidenza, di orgoglio offeso, ma anche di una gioia torbida e di un confuso sentimento di speranza, l’avvolgeva.
*
Nei primi giorni, dopo il ritorno a Roma, fu ripresa da un senso di timore che di notte la spingeva a chiudersi in camera coi bambini prima che l’inquilino rientrasse e la sorprendesse sola nelle altre stanze.
Ma in breve si rassicurò: egli non badava più a lei nè ai bambini, anzi un giorno si lamentò perchè alla mattina Nino e Salvador strillavano come aquilotti. La libertà della spiaggia li aveva resi indisciplinati, e tutti i giorni, a causa di un cucchiaino con la cifra dorata, erano liti, pugni, lotte continue. Lia nascose il cucchiaino e chiuse Salvador in camera per quattro ore; ma si sentiva umiliata per l’osservazione e le lamentele del signor Guidi.
Egli d’altronde pareva sofferente; era nervoso, soffriva d’insonnia, soffriva per il caldo, e spesso all’alba suonava per farsi portare il caffè. Lia entrava, apriva gli scurini, metteva qualche oggetto a posto: e vedeva l’estraneo così pallido e disfatto che ne sentiva pietà e ricordava i discorsi di lui, quel giorno nella casetta dei cacciatori. Ah, sì, anche lui doveva essere uno dei tanti che non si curano più del loro giardino! Ma dopo qualche momento, assorbita dalle sue cure, ella non pensava più a lui, o ci pensava ma senza pietà. Che le importava, dopo tutto? Egli si circondava di mistero; non le aveva mai confidato nulla del suo essere, del dramma della sua vita: nè lei si curava di saperlo. Pur così vicini, procedevano ciascuno per conto proprio, viandanti smarriti nella landa del dolore umano.
In ottobre egli partì: andò nella Spagna, le mandò cartoline illustrate, con donne che le rassomigliavano: ma al ritorno non le parlò che fugacemente del suo viaggio: era sempre l’inquilino, l’estraneo che rivolge la parola al l’estraneo che incontra nella via, quando ha bisogno di una indicazione o per dar sfogo a un impulso momentaneo.
Una mattina ai primi di novembre Lia entrò per portargli il caffè e come al solito s’avvicinò alla finestra per aprire gli scurini. Attraverso i vetri appannati brillava, come attraverso un velo di perle, lo sfondo luminoso del cielo; era una pura giornata dell’autunno romano e anche i rumori che vibravano chiari nell’aria avevano qualcosa di allegro. Nel tepore del suo letto Piero Guidi ebbe per un momento l’impressione di dolcezza provata in riva al mare, e la figura di Lia, tutta nera nel mattino azzurro, col suo bel viso pallido chiuso dalle bende dei lucidi capelli bruni, gli apparve di nuovo circonfusa di poesia.
— Comincia a far freddo, — ella disse, avvicinandosi per versargli il caffè.
Allora egli le prese La mano e gliela strinse mormorando:
«Che gelida manina....»
Pareva scherzasse: ma i suoi occhi cercavano quelli di Lia e lo sguardo era carico di dolcezza e di desiderio: ella corrugò la fronte, lo guardò minacciosa e uscì. Ed egli non ritentò la prova.
*
Cominciarono le giornate fredde, ed egli si lamentò perchè nelle sue camere penetrava la tramontana: Lia ricordò allora che dall’eredità dello zio Asquer le era rimasto un braciere di ottone; lo trasse, lo accese e lo mise nel salotto.
Quando era sola in casa sedeva accanto a quella specie di focolare antico, ed eseguiva l’orlo a giorno di immense lenzuola o di minuscoli fazzoletti di batista, lavoro che la serva le avea procurato da una cucitrice di biancheria.
Il guadagno era meschino ma a qualche cosa serviva; la monotonia del lavoro, quei punti sempre eguali, su quel fondo sempre bianco, accrescevano però la sua tristezza; le pareva talvolta di cadere in un cupo torpore, come se il lenzuolo che le copriva le ginocchia fosse un mucchio di neve sotto il quale doveva morire assiderata.
Solo qualche rumore alla porta la scuoteva: aveva paura che l’inquilino rientrasse all’improvviso, e s’alzava in fretta e ritornava di là, nel salottino freddo e grigio. Il cuore le batteva, e di nuovo si lasciava vincere da un senso d’ostilità contro l’intruso che entrava liberamente nella sua casa e, volendolo, poteva farle del male.
S’egli poi entrava davvero ella si chiudeva nella sua camera: dopo ch’egli le aveva stretta la mano con desiderio, la sua paura non le sembrava più infondata. Sentiva che l’uomo la desiderava e lo fuggiva per non diventar la sua preda. Ah, all’interesse che egli talvolta le dimostrava era preferibile l’indifferenza e anche il disprezzo: meglio la solitudine e la miseria che una vita di ansie e di oscuro turbamento. Era decisa a pregarlo di andarsene quando una sera egli rientrò in compagnia di un giovane pittore suo compaesano, un fanciullo pallido e delicato che somigliava a Salvador e godeva quindi le simpatie di Lia.
Ella stava nel salottino e copriva il fuoco con la cenere prima di portar via il braciere. La luce del crepuscolo illuminava ancora il salotto; attraverso le tende fiammeggiava, sul cielo verdognolo, una nuvola rossa, e nella strada umida vibrava il lamento di un organetto. Il Guidi entrò nella sua camera per cercare qualche cosa, e il pittore ristette colpito a contemplare Lia, ripiegata sulle ginocchia davanti al braciere, triste e nera, ma con la fine testa circondata da un’aureola di luce rossa.
— Stia ferma un minuto secondo! — disse il pittore. — Stia lì, stia lì! — E richiamò il Guidi, lo prese per il braccio, lo costrinse a guardare Lia contro luce.
— Sembra la regina di Saba davanti a un braciere di profumi....
E poichè Lia si alzava, col braciere fra le mani, ricominciò a gridare:
— Stia lì, stia lì; un minuto secondo!
Ma Lia aveva da fare e se ne andò: di là li sentì a discutere e a parlare d’arte; poi uscirono assieme, ma il Guidi risalì subito dopo e la chiamò.
— Sa che devo partire, signora Lia? Mi mandano in missione in Sicilia: starò assente due mesi, forse tre, forse più....
Ella lo guardava con diffidenza: le pareva di provare un senso di sollievo, quasi di gioia, per l’improvvisa notizia che combinava così bene coi suoi desiderî; eppure sentì ad un tratto come un vago rimpianto. Egli se ne andava: forse non sarebbe più tornato: forse non si rivedrebbero più. Perchè questo le dispiaceva?
Ma egli fissò sul viso di lei i suoi occhi in quel momento duri e freddi, ed ella non pronunziò le parole gentili che le venivano alle labbra.
— Senta, signora Lia, io terrò impegnate le sue camere: se però la missione si prolungasse molto la avvertirò in tempo onde possa affittarle ad altri. Le dispiace?
Ella disse di no: no, non le dispiaceva. Perchè non si disimpegnava, come aveva deliberato? Le pareva d’essersi ingannata sui sentimenti dell’uomo a suo riguardo: egli era lì davanti a lei, freddo, più estraneo che mai. Che egli parta, e se vuol tenere impegnate le camere le tenga pure: ella vede innanzi a sè alcuni mesi di libertà e pensa ai suoi bambini che possono godersi un po’ di spazio e gridare a loro piacere.
— Dove va? — domanda umilmente, rabbonita all’idea della momentanea liberazione. — E quando partirebbe?
— Domani sera.
— Domani sera? Di già?
— Di già.
E mentr’egli comincia a raccogliere le sue carte e gli oggetti indispensabili, e parla di una piccola città della Sicilia, di cui deve riordinare lo scombussolato Ufficio del Registro, chiedendo a Lia notizie della vita in Sardegna, — quasi che le due isole ne formino una sola, — ella ascolta taciturna e pronta agli ordini come una serva e ripete fra sè:
— Domani sera.... Di già!...
E prova un senso di attesa, come se egli debba da un momento all’altro parlarle di altre cose.
*
Solo pochi momenti prima della partenza egli fu di nuovo gentile e la ringraziò di tutte le cure avute per lui.
— Mi dispiace di lasciar la sua casa, signora Lia, sia pure per qualche tempo. Ho goduto giorni di pace, presso di lei, e la ringrazio della sua bontà e della sua pazienza. Mi scusi se spesso l’ho seccata: sono nervoso, lo sa, e tonte volte siamo sgarbati senza volerlo. Bè, adesso, se non altro, sarà contenta perchè i suoi bambini godranno un po’ di libertà. Arrivederci.
Ella arrossì, poichè egli indovinava il suo pensiero, ma protestò e si lasciarono da buoni amici.
Ma appena egli fu partito, Rosa la serva, alquanto danneggiata nei suoi interessi, poichè Lia non avendo per sè e per i bimbi bisogno di servizio l’aveva licenziata, disse con sdegno esagerato:
— Oh, sa perchè tiene impegnate le camere? Perchè è geloso e non vuole che lei affitti ad altri uomini. Pazienza fosse scapolo: ma così com’è, che gl’importa dei fatti altrui?
— Tu ti sbagli: egli non tornerà più qui, — disse Lia per farla tacere, ma l’altra continuò; e allora tacque lei, ma senza perdere una delle maliziose parole della donna.