Mitologia del secolo XIX/XII. Orfeo ed Euridice
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XII. ORFEO ED EURIDICE.
Fu pur sciagurato quell’Orfeo, che dopo avere ottenuto, in premio dell’eccellente sua musica, che gli fosse restituita Euridice, per un impeto di desiderio intempestivo ebbe a perderla un’altra volta. Molti però sono gli Orfei, a’ quali il dare un’occhiata all’indietro costa niente meno che la perdita d’ogni loro bene più desiderato. Figuratevi che in Euridice siavi l’immagine di quella felicità a cui tutti aneliamo, e che avrebbe secondo il vario gusto d’ogni uomo un nome diverso. Sia un tesoro da seppellire ove non v’abbia chi ci arrivi; sia il sorriso condiscendente della bellezza; o la sommità vertiginosa di un grado nella scala degli umani poteri; o un ramo d’alloro da morsicare a confronto di molte tribolazioni; qualunque in somma esser possa l’idolo delle vostre speranze sia da voi chiamato Euridice; e ognuno di voi si metta ne’ panni di Orfeo, a cui vien detto di portarsene seco dalle caligini di Averno all’aria aperta la sua compagna, con questo di non volgersi mai a guardarla lungo il cammino.
Forse che la modestia vostra vi toglie di credervi Orfei? Or vedete l’inconveniente modestia! Vi accerto che quando trattisi di far domanda ai numi del Cielo e dell’Averno di ciò che crediamo necessario alla nostra felicità siamo tutti, dal più al meno, abilissimi suonatori di lira, e tiriamo fuori una voce piena di forza e d’incredibile artifizio. Che trilli! che volatine! che increspamenti di note! Tutti i tuoni sono ai nostri servigi; ogni genere di musica fa per noi. I bassi e gli acuti, il grave e il vivace, lo spianato e il fiorito, li abbiamo tutti alla mano d’una maniera. Fate che quell’uomo, da cui non sapete cavare due parole in altri argomenti, vi parli dell’oltraggio ch’ebbe a patire, e del risarcimento che ne vuol trarre, e senza cui non sembragli di poter vivere: udrete nuova abbondanza di frasi e facilità di discorso. Chi non crederà aver ragione Flamminio di metter l’occhio a quella possessione? Purchè il lasciate dire, non ci fu diritto più antico e più incontrastabile: non potrebbe succedere senza palese oltraggio della giustizia che non ricadesse in lui quel dominio.
Or bene: le vostre parole furono tante e sì acconcie, che le indomabili divinità dell’Abisso acconsentono che vi sia data Euridice, a patto però che tiriate innanzi per la vostra strada, e non badiate a guardarvi alle spalle. Già l’avete a mano la donna desiderata, e la traete voi stessi dalle tenebre morte a respirare dell’aria di questo mondo. Che vuol dir ciò? Che quando abbiamo una meta, cui ci sta a cuore di toccare, egli è da tener sempre la mira rivolta a quella parte per cui siamo incamminati, senza mai dare passo addietro, checchè si pensi o si imprenda da noi. A che pro il girarsi a guardare sul cammino che abbiamo di già fatto? Fosse almeno per trarne consigli per quello che ci rimane! Ma quanti sono che, arrestandosi a mezza via per guardare donde ei sono venuti, il facciano con questa intenzione, o traggano dal loro indugio un tale vantaggio? I più altro non fanno che numerare i passi spesi fino a quell’ora, e ne prendono sconforto; o se mirano pur in faccia quell’Euridice che hanno tra mano, e fu l’oggetto della loro discesa all’Averno, tuttochè divenuti pur possessori di essa, si trovano tanto nudi da portare invidia ad ogni altra sorte. Non ciò che avete fatto, ma ciò che a far vi rimane abbia i primi vostri pensieri; grida la ragione: ma i poveri Orfei dissennati non le danno retta, ed Euridice è loro tolta per sempre.
Vi sembra di aver fatto oltre il debito vostro per potervi adagiare, e godervi in pace la mercede della vostra fatica, quando la misura del vostro sudore, non ch’essere colma, appena appena è giunta a riempiersi per metà. Oh vi credete che a toccare il sommo dell’eccellenza nell’arte cui professate vi debba bastare lo studio che ci avete posto? E perchè gli applausi non vi succedono quali il cuor vostro, gonfio di ambizione, v’imprometteva fino dalle prime mosse, ficcate un paio d’occhi arrabbiati in volto alla bella larva che vi veniva compagna? Bene sta; essa non vi sembra più quella, vi sfugge dai fianchi, dileguasi miseramente per l’aria. Ora fate soli il cammino che vi rimane. Non eravate giunti a tale da poter vederne la fronte, ma sapevate che ne veniva con voi, e precorrendo col guardo al cangiare dei passi, potevate adagiarvi in fantasia tra quell’ombre pacifiche di ulivi e di lauri ov’era il vostro riposo. Bene sta. E la fortuna, vedete, più inesorabile delle divinità infernali, si ride de’ vostri richiami. Avete un bel modulare di voce, e un bel toccare di corde con essa: sonate e cantate ai sordi. Non c’è alcuno che abbia saputo insegnarci il tempo opportuno a farla ballare. A quanti che scoraggiati stanno lì sopra un sasso gridando: ho fatto questo e cotesto, tale e tal altro tempo ho impiegato senza profitto, ed ecco che io mi sono abbandonato della speranza; non si potrebbe rispondere: levati su, e tira innanzi; tanto che te ne stai a filare elegie il tempo passa ed Euridice ti scappa; non sei giusto estimatore delle cose e del tempo; che sai tu qual proporzione vi abbia tra la tua fatica e il premio che te ne sei ripromesso? Si parla ai sassi; e quelli che furono Orfei abilissimi a cantare la loro disdetta, e ad implorare misericordia, sono del pari Orfei malaccorti a non servare la condizione loro imposta per conquistare Euridice, e a guardarsi addietro.
Facciano ragione dalla buona ventura che incontra a taluno (ma ei sono pur pochi!), il quale non fu distratto nel suo cammino da cosa alcuna di questo mondo. Sorgeva coll’alba, e l’umido vespero il ritrovava per via. Provveduto di que’ pochi pani che gli abbisognavano, il pellegrino solerte non indugiava l’andare per ostacolo alcuno che gli occorresse. V’avea torrente frammezzo? Il guatava, sapendo d’essere avviato per di là a questo fine. Era un monte di ripida e lunga salita? Si levava in coraggio a prenderne l’erta spedito, non ignorando che non vi avea altro modo di giugnere al termine del suo viaggio. Forse che la morte gli batteva alle spalle ch’egli aveva ancora la strada tra piedi; e allora? Crederete per questo più compassionevole la condizione di lui, che non sia quella de’ poveretti che per inerzia si rimangono a sonnecchiare quando è tempo di trarre innanzi? La speranza, se non più, gli è bastata quanto la vita, e non avrete udito da esso alcuno di quei miseri lamenti che fannosi dalla più parte. Oimè me! Oimè lasso! Oh lunga via! Oh il penoso pellegrinaggio!
Ma l’allegoria continua a corrispondere nel significato. Dopo che Orfeo ebbe perduta Euridice si mise a piangere sconsolatamente, e a chiamarla notte e giorno senza darsi mai posa; nè rimase a ciò, ma si lasciò portare dall’odio a quanto gli cadeva sott’occhi e non era dessa. Di che venute in rabbia le Baccanti della loro spregiata bellezza, gli furono addosso coi tirsi, e il misero in pezzi, lasciando che l’Ebro se ne portasse colla corrente la testa di lui, così come l’avevano fatta lacera e sanguinosa. Similmente degli altri Orfei. Com’essi hanno perduto Euridice, ossia come vidersi tolto dagli occhi il fantasma della loro felicità, più d’altro non curano, e vengono in fastidio d’ogni altra cosa. Eppure infinite altre immagini di felicità volteggiano loro dintorno per adescarli, ma inutilmente. E sono le Baccanti, che non restando di pungerli col tirso, e di cantare le loro allegre canzoni, gli rendono infermi del corpo, e d’animo basso oltre ogni dire. Di questi poveri Orfei credo che se ne vegga al nostro tempo in maggior copia che non nel passato. Hanno perduto Euridice, e sono tutto dì loro sopra le Baccanti col tirso alzato. Di nessuna cosa confortano la propria malinconia, e quanto veggono i loro occhi è tormento all’anima loro. Eppure non è ad ogni primavera che la campagna ritorna in fiore? Non è ad ogni mattina che l’usignuolo si fa udire dalle siepi? Su, animo; in via. Non signori: camminano volentieri per l’ombre de’ cimiterii, e si fanno compagni al riformatore di Wurtemberga nell’invidiare ai morti il loro letto di polve. Ma furono pur uomini che edificarono le magnifiche moli, davanti le quali vi conducete ad inspirarvi di tristezza e di disperazione. Uomini d’altro tempo, rispondono; e tornano a giacere. Oh! cessi una volta questo inutile razzolare tra le reliquie del passato; alziamo gli occhi all’avvenire. Vuolsi venerare il passato, e trarne lezioni di prudenza; ma vivere solo d’esso, e per esso? È follia. Fuori, fuori dai putrefatti carcami, o generazione d’insetti, che brulichi, e fai ronzío! Dallo squallido verme dee sorgere la celeste farfalla. Infervoratevi a porgere esempi di nobili e virtuosi costumi, anzichè logorarvi nelle querele. Tenetevi a mano Euridice, e camminate a dilungo; se no, non lagnatevi di Plutone ma di voi stessi.