Mitologia del secolo XIX/XI. I Dioscuri
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XI. I DIOSCURI.
Narra l’antica mitologia dei due gemelli partoriti da Leda, che, conceduta da Giove l’immortalità ad uno d’essi, questi non volle goderne solo, ma sì ne fece parte al fratello, passando ad abitar co’ defunti quel tanto spazio che toccava di vivere all’altro, affinchè la misura del tempo in cui rimanevano al nostro mondo fosse eguale fra loro. Sicchè poteva dirsi che le tenebre d’uno fossero luce per l’altro, e così del contrario. Questa prodigiosa vicenda mi fu molte volte cagione a pensare se potesse racchiudere in sè allegoria alcuna degna che si ricordasse, e mi parve di non essermi apposto al falso derivandone la seguente.
Sono tra gli uomini certe nature così diverse fra loro, e in pari tempo così fra loro necessariamente corrispondenti, che ove l’una si trovi all’ultimo confine della terra, egli è inevitabile all’altra, fosse pure al confine opposto, di venirla a trovare e congiugnersi seco. E ciò che vediamo accadere nel mondo fisico possiamo dire che accada ancor nel morale, pareggiandosi fra loro le forze, e concorrendo colla discordanza a comporre la bella ed eterna unità dell’Universo. Soprastanti e soggetti, offensori ed offesi, operanti e sofferenti, inseguitori e fuggiaschi, amanti ed amabili, penetranti e vacui, e via discorrendo. E queste opposte nature, che sembrano così avverse fra loro, non potrebbero sussistere scompagnate, e può dirsi con verità che la loro stessa difformità le raccosti.
Voglio sperare che nessuno v’abbia fra i miei lettori, il quale, pigliando la cosa troppo sul grave, s’immagini di tacciare la mia proposizione di manicheismo. Ho più volte domandato che s’interpretassero le mie ciarle con discrezione, e adesso mi è forza ripetere con ogni fervore questa domanda. Non trattasi adunque di stabilire principii generali, e di assoggettar a tali principii quanto vediamo accadere, ma d’infondere in cuore di tutti, o almeno di quelli che ne abbisognassero, sentimenti di moderazione verso i loro fratelli, quando anche non fossero su qualche punto d’accordo con essi. La saggia antichità ha molto opportunamente assegnato agli amorosi gemelli, figliuoli di Giove, un posto d’onore fra le costellazioni del cielo; e il loro apparire ai naviganti fra il pericolo del naufragio imminente si volle che fosse indizio di salute. E per verità fra le orrende burrasche ond’è travagliato il gran mare della vita, non conosco forse maggior conforto di questo, d’una prudente rassegnazione.
Quando sei nato farfalla ad aggirarti intorno alla fiamma, che col suo splendore ti alletta, non ti lagnare, ma compi in silenzio i tuoi rivolgimenti, quando più rapidi, quando meno, fino a perdere il volo e la vita. Le tenebre e l’immobilità non sono la tua destinazione, e sempre che tu vegga la luce e senta il calore dovrai correre ad essi, e volteggiar loro dattorno senza riposo. Che se fossi nato ellera per arrampicarti ed apprenderti co’ tuoi ramicelli al vecchio tronco o alla muraglia, non mai ti tocchi umore di sorgere in albero ritto e all’aperto, ma contentati di ficcarti tra le fessure della corteccia o le rimosità dell’intonaco, come ti è proprio. E non basterà che tu pensi a startene rassegnato alla tua destinazione, per quantunque ti potesse sembrare umile o disagiata, ma conviene ancora che tu ami e ti adoperi quanto più sai al maggior bene di quello ch’è la tua luce, se tu sei l’ombra, ch’è l’ombra tua quando tu fossi luce.
Oh! come può egli mai esser questo, direte? Ecco il come. Io che vi ho consigliato a non uscire del termine che vi fu assegnato, vi esorto a cercare con ogni studio di allogarvi in esso del vostro meglio, ossia cercare che il mezzo a cui dovete accostarvi sia proprio il vostro mezzo, per guisa che non ne abbiate a soffrire rimanendo con esso appaiati. Egli è prescritto a te, rapa, di affondarti nel terreno, ed ivi consumare all’insaputa degli altri la oscura tua vita; ma puoi calare diritta, o torcerti e ripiegarti in varie fogge, e gonfiarti se questo ti piace, o se no, sottilmente allungarti, e farti o liscia o interrotta di nocchi e protuberanze a capriccio. Qui sta appunto, per quello che io credo, la maggior pratica della dottrina relativa ai costumi; ed il pervertire che fanno gli uomini per la più parte da questa regola di universale prudenza è cagione a que’ lamenti interminabili che attristano il mondo.
Badate bene alla storia o novelletta dei Dioscuri, che ho data per fondamento a questo mio cicaleccio. Appena ottenne Polluce da Giove l’immortalità, pensò subito a farne parte al fratello. E non fu mica proposito momentaneo, ma continuò sempre, per quello che racconta la favola, a cacciarsi sotto subito che l’ora era giunta di sorgere all’altro. Chi voglia girar l’occhio pel mondo vede, in vece di questi due buoni gemelli così regolati nella loro vicenda, l’insaziabile ingordigia dei fratelli tebani, che volevano mangiarsi il retaggio paterno tutto intero ciascuno, di che ne successe che a nessuno di loro è toccato; quel suolo sul quale non avevano saputo regnare concordi mentre vivevano, sdegnò di ricevere i loro corpi quando la spada fu destinata a decidere la controversia; e la spada fece bravamente l’ufficio suo tagliando netto quel nodo che non si era potuto sgroppare d’altra maniera.
Posto dunque che vi siano ore, e luoghi, ed incarichi per ciascheduno e per ogni dritto il suo rovescio, per ogni soperchio il suo scemo, e così a mano a mano, badiamo che i risalti s’incastrino nelle scanalature destinate a riceverli, affinchè al girar della vite non n’esca stridore, e indi a poco rimanga interrotto il lavoro. In questo esercitiamo, ch’egli è giusto, quanto fu accordato di libertà alla nostra ragione; ch’è quanto a dire non adoperiamo fuor di natura, ma la natura nostra indirizziamo a quel modo che può sembrarci il migliore, verso quel fine dal quale non ci è possibile divertire. Ci conviene considerare quasi parti di un solo tutto quelle appunto che ci sembrano meno simili a noi; e sapere che n’è conceduto vegliare in quanto altri dorme, restarsene adagiato in quanto altri cammina, parlare in quanto altri tace; e se tutti operassimo a un modo, uno fosse il sentire di tutti, in luogo di esser tutti tutto, come forse presume la nostra bramosa alterigia, non v’avrebbe alcuno che non fosse nulla; e tutto il sistema mondiale potrebbe rappresentarsi da una bilancia traboccante da un lato nel più cupo abisso, e sagliente dall’altro al più alto de’ cieli; laddove la proporzione dei pesi messi sull’uno e sull’altro piatto la fa stare in bilico, e quel poco di vacillamento, onde accenna abbassarsi quando a dritta quando a sinistra, rimanendo pur sempre in misura, irrita e alimenta la nostra curiosità, e tiene deste ed esercitate tutte le potenze della nostr’anima.
Mi piace ancora notare essere necessaria la scelta del tempo, perchè molti non hanno che destinazioni transitorie, e dopo aver oggi battuto essendo martelli, tocca loro domani sentirsi battere essendochè diventarono incudini. Ma quando rimangono dal battere fin tanto che l’incudine sta ancora lor sotto, non troveranno martello che gli batta, e così del contrario. Sicchè egli è da condursi non solo secondo l’indole propria, ma ancora per tempi, a voler che se n’abbia durevole e perfetto lavoro. E perchè ho parlato d’incudine e di martello, vedete, a non uscire dell’officina, che ne succeda ove la cuocitura o l’arroventamento del metallo non sia quale si richiede, e sia nel poco e nel troppo eccedente. Anzichè assoggettarsi a rimanere foggiato, ne va perduto in minute scaglie. Ma voglio che usciate di questo discorso figurato, e prima di terminare mettervi davanti gli occhi la verità senza veli di sorte alcuna.
Sono deplorabili molti vizii; ma senza questi non ci sarebbero molte virtù ad essi vizii corrispondenti, appunto perchè sono loro opposte. Ecco la luce e le tenebre, la vita e la morte, Castore e Polluce, che si danno luogo a vicenda. Dobbiamo amare per questo le colpe? Incensare l’oltracotanza perchè dà luogo alla modestia? Accarezzare l’impetuosità perchè mette in vista la mansuetudine? Non è questo che voglia significare la favola dei Dioscuri; ciò che nella favola è fatto, non dev’essere ch’emblema per noi; emblema del vincolo arcano onde sono annodati gli opposti principii, e della concorde discordia di tutte le cose. E quando ascoltiamo la nostra chiamata accorrere pronti a cedere il luogo al fratello, o a subentrare nel posto di lui, secondo il caso. Starsene quindi sull’avviso e sempre apparecchiati a portare nell’animo questa piana ed altissima verità, che il bene dee farsi in certi modi e per certe stagioni, come appunto vediamo dar fiori la primavera e frutta la state.
Sarebbe adesso un bell’interrogarci a vicenda, dacchè tutti la favoletta presente ci ha battezzati Dioscuri, chi sia il nostro Castore, essendo Polluce ognuno di noi. Ed oltreciò sapere ad ogni quante ore, o giorni, o anni, ci tocchi calare agli elisi, per tornare alla luce de’ vivi dopo un’eguale misura di tempo. Ognuno può fare a sè stesso questa domanda, e nessun’altri meglio di sè medesimo potria dar la risposta. E queste risposte, a voler esser sincere, credo che debbano esser date non altrimenti che colla voce interiore della coscienza. Sicchè ognuno faccia da sè solo, che, quanto a me, parmi già di sentire chi mi fa cenno ch’egli è tempo di lasciar favellare chi mi è gemello, e starmi ad udire così attentamente com’egli ha fatto finora. E s’io potessi scegliere fra lingua ed orecchio, vi giuro, che vorrei esser più spesso questo che quella; ma come s’è detto a principio, tocca ad ognuno fare quel tanto a cui è destinato, e per tutto il tempo che gli conviene. Ora chi si sente di essermi Castore tragga innanzi, e sottentri a mio luogo finchè abbia a tornar la mia volta.