Mitologia del secolo XIX/XIII. Erisittone
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XIII. ERISITTONE.
Sapreste richiamarvi alla memoria quell’Erisittone, la cui metamorfosi, con tutti i miseri casi che la precedettero, è narrata tanto evidentemente da Ovidio? Sapreste ricordarvi come colui per aver messo la scure ad un’antichissima quercia, nel cavo della quale ascondevasi come in proprio albergo una Ninfa delle seguaci di Cerere, fu dalla Dea condannato a rimanerne tutta sua vita in preda agli stimoli della fame? Potrei, se non ve ne risovveniste, mettervi sottocchi tradotti i bei versi del poeta latino, e sarebbevi allora veduto come la Fame, chiamata dall’ultima Scizia, ne venisse al letto del delinquente mentre ei dormiva, e gl’infondesse tra il sonno una brama inquietissima che non poteva rimanersi giammai soddisfatta. Per cui destatosi lo sciagurato cominciò a recarsi alla bocca tutto che gli veniva davanti, disperdendo in poco d’ora tutto il suo a far acquisto di robe mangerecce, senza che gli bastasse a trovarsi sazio. Ridotto all’estremo della povertà, e tuttavia dalla brutta voglia irremediabilmente crucciato, ecco che ei fa mercato dell’unica figlia. Ma qui nuovo miracolo. Come questa aveva avuto ad amante Nettuno, e sdegnavasi di viverne schiava di chicchessia, pregò il Nume a volerla torre di vita; il quale, meglio che far ciò, le mutò la sembianza, per modo che il compratore scambiandola per altri la lasciò stare, e corse in traccia della donzella. Tornossene ella dal padre, e questi, non restando la fame, venirne al giuoco di venderla, e la fanciulla a cangiarsi in cavallo, in uccello, in bove, in cervo, tutto in somma tranne la propria figura, e con queste perpetue trasformazioni rimanerne i compratori gabbati, e l’ingordo Erisittone averne sempre nuovo danaro per comperare di che pascersi, senza mai, già s’intende, rimanersi satollo. E la storia va innanzi, ma per noi ce n’è quanto basta.
Di questi Erisittoni non è al mondo piccolo numero, i quali vendono i proprii figli a far paga la rabbiosa passione del ventre. E per figli si hanno ad intendere i parti del loro intelletto; nè vogliamo credere che sia una sola spezie di fame che gli consumi. Vedete come calza appuntino l’allegoria! Costoro, facendo professione di gabbare il prossimo pur di contentare i loro cupi desiderii, hanno ottenuto, per via d’artificii che lungo sarebbe narrare, podestà di cangiare forma e colore alle proprie scritture. Oggi sono cavalli tutti foco e alterezza, domani giumenti tutti mansuetudine e pertinacia. Vedi come oggi saltano di fratta in fratta que’ cervi che ieri erano bovi lentissimi e corpulenti. Oh come volano alto pel cielo, colle ali messe non più che da questa mane, quelle aquile che ieri erano oche a diguazzarsi pel lago! Ma in onta alle loro continue metamorfosi giungeranno essi mai a satollare la propria fame? Oibò; credetelo pure, quando anche facessero le mostre che ogni bramosia fosse in essi cessata. Il cibo, per copioso che sia, è cagione a desiderarne del nuovo, dice la favola del misero Erisittone: quelli di cui parliamo sono compresi da un’eguale sciagura. Ma e i compratori?
Anche per questo canto l’allegoria corrisponde perfettamente. Coloro i quali allargano le narici all’incenso bruciato loro dagli adulatori, hanno il destino de’ mercatanti che pagarono ad Erisittone la figlia. Quando credono aver fatto acquisto di una bella ed amabile giovinetta, dal detto al fatto se ne veggono privi, e non altro possedere che un vile animale, o un poco d’aria e di fumo. Siano di qualsivoglia natura, le adulazioni risolvonsi in nulla, o rendono effetto contrario del tutto a quello che se ne poteva congetturare. Che importa che il famelico Erisittone mi narri di Aurelio, esser desso un fiore di gentilezza e di ingegno? Quelle lodi mettono in maggior rilievo lo stupido e rozzo naturale di lui. Canta, canta, o cicala pasciuta da Evandro; Evandro, dopo quel canto che lo esalta affabile e misericordioso fra tutti i viventi, comparirà quel duro e inappressabile cuor di macigno ch’egli è di fatto. Così va per ambe le parti: Erisittone non si potrà mai saziare del frutto delle sue piaggenterie; e l’ambizioso spenderà il suo malamente a premiare chi gli fa vezzi per attrapparlo.
Gli Erisittoni non vogliono esser cercati solamente fra gli scrittori, ma fra gli uomini di tutte le condizioni indistintamente. Dappertutto gole voraci, che non rifinirebbero mai di appetire; dappertutto metamorfosi mostruose per obbedire alle continue ricerche di quell’insaziabile cupidigia. Inchinar oggi, e domani beffeggiare; agnello sull’alba, e lupo al tramonto: mai la propria natura schietta ed aperta. Il pane della verità è molto scarso; ma quello della menzogna non basta a saziare. Chi mangia di questo dopo il pasto ha più fame che pria; laddove l’altro, sebbene al primo assaggio possa sembrare non affatto saporito, quando sia convenientemente digesto, si converte in nutrimento vitale.
Chi ricaccerà tra le scitiche rupi la sozza Erinne stimolatrice? Una volta uscita, non fa più ritorno: quando ha cominciato a latrare non è da credere che più si adagi. Egli è meglio avvertire chi non ha per anco turbato la pace dei boschi di Cerere, affinchè astenga la scure sacrilega dai sacri tronchi. Anche qui l’allegoria continua a mostrarsi appropriata. Egli è da vedere che col recidere quanto hanno di gentile e onorato in sè stessi, non si mettano gli uomini al duro passo di vivere della propria infamia, e della vendita de’ propri figliuoli. Il prezzo di un tale mercato non potrà loro tornare per nulla vantaggioso. Qui farebbe bene ricordare la fine di Erisittone che ficcò il dente nelle proprie carni; ma non vogliamo terminare con una scena di tanto terrore.