Mitologia del secolo XIX/X. Edipo e la Sfinge
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X. EDIPO E LA SFINGE.
Il teatro greco ha rese familiari ad ogni uomo, anche mezzanamente erudito, le avventure d’Edipo. La tragedia di Sofocle si tenne in concetto del principale lavoro drammatico che potesse uscir mai da cervello umano: ma c’è un fato che signoreggia le letterature, alquanto meno immutabile di quello che cagionava le catastrofi luttuose del greco teatro. A’ dì nostri non è impossibile acquistar fama di letterato di primo ordine, e non aver letto mai, o non aver per lo meno in tutta la stima propria de’ nostri antenati, l’Edipo di Sofocle. Si può adunque senza pedanteria richiamare alla memoria dei lettori esservi stata in un certo tempo, vicino a una certa città che chiamavasi Tebe, una certa Sfinge, che proponeva certi suoi enigmi, i quali, fin tanto non erano dicifrati, la peste divorava il paese (quasichè il primo dovere degli uomini fosse quello dell’indovinare); e un certo Edipo aver avuto abilità di scoprire il senso riposto di uno di quegli enigmi, per cui, o scornata, o altro che fosse, la Sfinge si gettò a capo in giù dal Citerone, dove era solita di accosciarsi, e morì sfracellata, senza però che a chicchessia, per quello almeno se ne sappia finora, fosse trovato il cadavere. Ora questa storiella, o veramente favola, se piace meglio, sarà materia ad alcune considerazioni circa il costume di molti che ci accade scontrare assai di frequente per questo mondo.
Io non amo punto le Sfingi, ossia non mi sento di avere alcuna simpatia per quei cotali che hanno sempre bisogno d’essere indovinati. E dico sempre, perchè ci hanno de’ casi nei quali non sa nemmeno piacermi quella sfrontatezza, onde taluno mette in mostra, senza diversità di persone, le proprie opinioni e i proprii affetti. Ci hanno certi enigmi del pudore che vagliono un tesoro; e ciò, se non m’inganno, sono le avvenenti sembianze di giovanetta che aveva la Sfinge, mentre le parti mostruose, nelle quali andava a riuscire il corpo di lei, sono appunto gli enigmi fuor di proposito, i quali ho detto a principio non essermi per nulla geniali. Domandate a taluno di cotestoro, i cui pensieri tengono la coda della Sfinge, gli avvenimenti più ovvii della lor vita: voi gli vedrete subitamente rannuvolarsi e mandarvi all’orecchio una risposta avviluppata di quelle nuvole onde vestivansi gli dei dell’Iliade per cansare lo scontro dell’asta mortale usa a far piaga negli stessi felici abitatori d’Olimpo.
Bruttissimo naturale a dir vero! Ma che penseremo di quegli Edipi, che in quanti si abbattono credono di aver a che fare colla Sfinge, e quanto ascoltano credono non altro essere che indovinelli? Date retta al discorso di Gervasio. Eh! gli anni mi fanno star sull’avviso: ho imparato a tenermi in guardia dalle mariuolerie dei miei simili. — Ma, caro Gervasio, per vera che sia la perfidia pressochè universale degli uomini, datevi pace che nelle parole di Andreuccio non c’è menzogna. — Eh! guai a chi vuol pigliarsi le parole degli uomini per quello che suonano: altro in bocca, altro in cuore; e quello tra gli uomini è più saggio che ha imparato di più a diffidare.
Posta questa leggiadra teorica, io non potrò più dire: oggi fa minor caldo che ieri. Gervasio mi pianta un paio d’occhi addosso, e mentre io lo credo occupato del confronto fra il caldo presente e quello del giorno innanzi, per secondare o contraddire la mia proposizione, egli sta specolando nel moto delle mie labbra, nel girar dei miei sguardi più o meno sollecito, in tutta la mia fisonomia, che cosa ci covi sotto quel discorso del caldo di ieri e di quello di oggi. E quando mi aspetto un bel sì, o un bel no per risposta, ne ho al più un sorrisetto che significa: padron mio bello vi ho indovinato; altro che caldo! Mi stringo nelle spalle, e non posso a meno di deplorare la condizione del mio povero Edipo, che si lambicca il cervello per aver convertita tutta la razza umana in razza di Sfingi, quando ne bastava una sola a far la rovina di tutto un paese.Chi sempre inganni aspetta, |
scrisse il più preciso e il più facile de’ nostri poeti. E per verità la è assai grande la tentazione che mettono questi Edipi, di far le parti della Sfinge, almeno con essi. Ma bisogna perdonar loro, e contentarsi del considerare che portano sempre con sè un carnefice molto crudele nella lor diffidenza. Non voglio per altro tacere uno spasso che sono solito di pigliarmi con cotestoro. Alle domande più semplici rispondo con certa aria d’imbarazzo, opportunissima a solleticare quella infelice inclinazione all’indovinamento. Essi Edipi, ed io assumo, se non il fraseggiamento, un poco almeno dei modi della Sfinge. Di dove venite? La risposta naturale sarebbe: dal caffè, dalla piazza, dalla casa di ser Lodovico. Ma bisogna contentar l’Edipo. Io?.. Donde vengo?.. Oh bella!.. Appunto... dal caffè. L’Edipo si raccoglie per interpretar la mia frase; l’ultimo fra i pensieri nei quali si fermi egli è ch’io ne venga dal luogo donde ne vengo di fatto; e quando incontri taluno che gli dica: l’ho veduto non ha guari, non crede, e va tra sè ripetendo: a me non si piantano di siffatte carote!
Non poca accortezza la è pur necessaria; e chi come spugna s’imbeve di tutto quello che ascolta merita di essere compianto non meno di chi come il sovero rimane buona pezza impermeabile ad ogni licore. Ma poichè siamo questa volta sul discorrerla cogli Edipi, anzichè con quelli che incorrono nel difetto contrario, ricordiamo la fine dell’indovino tebano. Cominciò dallo sviluppare gli enigmi dell’ambiguo animale, che, come si è detto, spiccò l’ultimo salto dal Citerone, e liberò la contrada dalla pestilenza. Ma dopo questo? Egli che avea avuto tanta acutezza d’intelletto a risolvere l’indovinello, non ebbe cuore bastante ad accorgersi del proprio padre che incontrò sulla strada, e niente meno che giunse a tale la sua cechità da farsene l’assassino. Della madre non parlo; chi non sa la bruttezza di quello scambio non se ne dolga. Certe mostruosità, sebbene non più che favolose, meglio è pure che si rimangano pasto degli eruditi, che ficcano il naso dappertutto ove sentono odor di vecchiume. Ma il meglio che fa al caso nostro si è il cavarsi gli occhi di questo gran vaso di sapienza speculativa. Sicchè la povera Sfinge, quando avesse tardato alcun poco a fare il suo capitombolo, non avrebbe avuto che invidiare alla sorte del suo vincitore. Ma di quelli che per veder troppo si rimangono ciechi so di aver parlato altra volta, e però, quantunque il mio amor proprio non sia tanto confidente, da farmi sperare che i miei lettori se ne ricordino, mi astengo dal dirne altro, tanto più che il termine ordinario della mia chiacchierata è raggiunto.