volta sul discorrerla cogli Edipi, anzichè con quelli che incorrono nel difetto contrario, ricordiamo la fine dell’indovino tebano. Cominciò dallo sviluppare gli enigmi dell’ambiguo animale, che, come si è detto, spiccò l’ultimo salto dal Citerone, e liberò la contrada dalla pestilenza. Ma dopo questo? Egli che avea avuto tanta acutezza d’intelletto a risolvere l’indovinello, non ebbe cuore bastante ad accorgersi del proprio padre che incontrò sulla strada, e niente meno che giunse a tale la sua cechità da farsene l’assassino. Della madre non parlo; chi non sa la bruttezza di quello scambio non se ne dolga. Certe mostruosità, sebbene non più che favolose, meglio è pure che si rimangano pasto degli eruditi, che ficcano il naso dappertutto ove sentono odor di vecchiume. Ma il meglio che fa al caso nostro si è il cavarsi gli occhi di questo gran vaso di sapienza speculativa. Sicchè la povera Sfinge, quando avesse tardato alcun poco a fare il suo capitombolo, non avrebbe avuto che invidiare alla sorte del suo vincitore. Ma di quelli che per veder troppo si rimangono ciechi so di aver parlato altra volta, e però, quantunque il mio amor proprio non sia tanto confidente, da farmi sperare che i miei lettori se ne ricordino, mi astengo dal dirne altro, tanto più che il termine ordinario della mia chiacchierata è raggiunto.