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di tutti gli uomini, di non poter mai rendere sensibili i proprii pensieri salvo imperfettamente. Che quando Canova spirava dicendo: anima bella, vedesse venirgli dinnanzi quella mirabile forma a cui aveva agognato tutta la vita?


X. EDIPO E LA SFINGE.

Il teatro greco ha rese familiari ad ogni uomo, anche mezzanamente erudito, le avventure d’Edipo. La tragedia di Sofocle si tenne in concetto del principale lavoro drammatico che potesse uscir mai da cervello umano: ma c’è un fato che signoreggia le letterature, alquanto meno immutabile di quello che cagionava le catastrofi luttuose del greco teatro. A’ dì nostri non è impossibile acquistar fama di letterato di primo ordine, e non aver letto mai, o non aver per lo meno in tutta la stima propria de’ nostri antenati, l’Edipo di Sofocle. Si può adunque senza pedanteria richiamare alla memoria dei lettori esservi stata in un certo tempo, vicino a una certa città che chiamavasi Tebe, una certa Sfinge, che proponeva certi suoi enigmi, i quali, fin tanto non erano dicifrati, la peste divorava il paese (quasichè il primo dovere degli uomini fosse quello dell’indovinare); e un certo Edipo aver avuto abilità di scoprire il senso riposto di uno di quegli enigmi, per cui, o scornata, o altro che fosse, la Sfinge si gettò a capo in giù dal Citerone, dove era solita di accosciarsi, e morì sfracellata, senza