Mitologia del secolo XIX/IV. Psiche
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IV. PSICHE.
Psiche? La volete miracolo dello scalpello di Canova? O vi piace cercarla nelle camere di ospitale e doviziosa famiglia, dipinta dal primario de’ moderni frescanti? O nei versi più eleganti che componesse in tutta sua vita Lodovico Savioli, poeta elegantissimo? Ella è pur sempre quell’infelice, cui, per aver dato ascolto al maligno consiglio delle sorelle invidiose, toccò di vedersi fuggire dagli amplessi lo sposo e volarne lontano, fin dove l’ali dotate d’infaticabile lena lo avessero saputo portare. Da questa Psiche, presa a simbolo dell’anima umana, mille allegorie dotte e leggiadre si vollero derivare e dalla storia de’ suoi miseri casi; ed io pure vorrei trarne alcuna moralità, secondo ho costumato dì fare con altre mitologiche novellette.
Non vi parrebbe, lettori miei, si avesse a prendere per emblema di chi suol rendere ragione a sè stesso della propria felicità? Vedete, la felicità possibile ad essere conseguita dagli uomini è sempre mistero. Possiamo goderne come Psiche delle nozze di Amore; ma è da cercare che la lucerna onde potrebbero essere rischiarate le nostre gioie sia spenta. Chi volesse mirare in faccia gli oggetti onde gli viene allegrezza, potrebbe correre rischio di vederseli subitamente fuggire dinnanzi senza più speranza di ricovrarli. O quando anco possa credersi privilegiato di tanto, quei beni che aveva a principio acquistato senza fatica veruna, anzi diremo erano venuti spontanei di offrirsegli, que’ beni medesimi, a volerli riavere, gli converrà assoggettarsi al durissimo impero della severa Ciprigna, che nel caso nostro non voglio dire se sia la ragione, l’esperienza, o altra cosa; e addio sogni di un’anima inavvertitamente felice, addio beate illusioni che si dileguano a un lievissimo soffio, addio gioventù, addio bellezza, addio soave abbandono di tutta l’anima. L’incauta fanciulla ha dato ascolto alle parole susurratele dalle sorelle, armò di lucerna indiscreta la mano, volle guardare la felicità addormentata al suo fianco: scoppiò la favilla, sgocciolò il pingue umore (sceglietevi qual volete dei due, ch’è tutt’uno) e la felicità aperse l’ali, e il richiamarla è stoltezza.
Si dice comunemente che le disgrazie entrano per le finestre, o almeno che quando vogliono entrare, chi è saggio non si dà l’inutile briga di chiuder loro le finestre; ed io soggiungo che le fortune vengono anch’esse per la medesima strada. Fortuna e dormi, dice un altro proverbio. E a chi ha la Fortuna nella sua barca ogni vento è secondo, e chi la vuole detta in poesia:
Sempre ben balla a cui Fortuna suona.
Ma questa bizzarra Fortuna vuol far da sè, non vuole avere chi le metta, come suol dirsi, le mani davanti. Staremo dunque con le mani in mano, o aspetteremo come il fiorentino di buon umore, chi ci venga a porre il cucchiaio alla bocca e cantare la nanna, e noi giacersene sotto la coltre a poltrire? Anche qui alquanta di quella discrezione che sono solito d’implorare da’ miei lettori. Pioggia s’intende di quella minuta e da primavera, non acquazzone d’estate da empir le secchie in due sgorghi.
Ho detto che non bisogna ficcar gli occhi troppo avanti nella propria fortuna, perchè la non ci fugga. Intanto guadagneremo di viver sempre compresi da un sentimento di bella modestia, guardandoci bene dall’ascrivere a nostro merito ciò che non è forse opera d’altri che del caso, come va inteso, e come siamo tutti d’accordo si debba intendere. Ma, ciò che più importa, ci avvezzeremo a contentarci del bene senza correre in agonia dietro il meglio. E questa disgrazia ci potrebbe venire addosso benissimo quando volessimo lasciarci portar via dalla smania di specolare più là che non è conveniente entro le cose che ci danno diletto. Persuadiamoci pure una volta, che quanto si fa e si pensa da noi sono castelli di carte, nè più, nè meno di quelli con cui si trastullano i ragazzi nelle lunghe sere d’inverno. E già l’edifizio bambinesco è salito a due, a tre, a sei, a dieci palchi. E come gongola il ragazzetto, che a volerne veder la cima gli conviene alzar gli occhi e farsi alquanto lontano dalla tavola. Ma non per questo ristà dal lavoro, e aiutandosi d’uno scanno per soprastare alla fabbrica, aggiugne carte a carte, finchè le inferiori s’allargano, il campanile tentenna, e giù tutto l’edifizio d’un crollo. Contentiamoci d’una felicità senza cupola, non cerchiamo venire in soverchia notizia dei fondamenti sopra i quali si leva, viviamo in una ragionevole perplessità, e per voler esser troppo felici non arrischiamo di farci miseri affatto.
Che importa che si sappia da noi come e perchè siamo felici, purchè lo siamo? Che importa sapere qual sia la lega della moneta che abbiamo in tasca, quando possiamo spenderla quel tanto che ci bisogna? Anche qui non s’intenda che s’abbia a pigliar il piacere come vien viene, e ad occhi chiusi; vero piacere non stimiamo che dar si possa senza rispetto a certe regole generali di giustizia, che non è qui luogo annoverare, chi non voglia cambiare un piacevole discorsetto in una lezione di catechismo. Seguitando dunque così leggermente come si conviene a queste carte di lettura fuggevole, basterà che badiamo a guardarci da quei consiglieri invidiosi, e il mondo ne contiene innumerabili, i quali ci vanno tormentando la vita con dire, che il Dio di cui ci sono concedute le nozze gli è un mostro, e ci fanno cercar di tutto le prime e recondite cause. Un libro reverendo ne insegna a conoscere dai frutti le piante, e chi vuol raccogliere ciliege dal sorbo gli è un pazzo. Contentiamoci degli effetti; questi soli possiamo conoscere e in qualche modo pesare fin tanto che viviamo in questa vita apparente e fenomenale. Felice, gridava l’antico, chi potè conoscere la cagion delle cose! Felice, sì; ma che farne di questa cognizione a chi vive fuor del regno delle cose, e dura tuttavia a travagliarsi in quello delle illusioni?
Mi sono, non so qual mi dica se compassionabili o ributtanti, taluni, i quali d’ogni menomo che, che pensano o fanno, hanno sempre prontissimo il loro perchè da allegare. E gli ho per molto simili a quegli innamorati, i quali della passione che li consuma vanno sempre recando in mezzo questa o quest’altra ragione. Contentatevi di dire il fatto così com’egli sta, senza giri di parole, e direte il vero. Imitate in questo, e dovreste in molti altri casi, la semplice logica de’ ragazzi: sì, perchè sì; è egli questo che dovete sinceramente rispondere a chi v’interroga sopra certi propositi impossibili ad essere per altra guisa dicifrati. Che ne avverrà, diportandovi d’altra maniera? Che farete la parte d’ipocriti e d’impostori cogli altri e con voi stessi, e a quella guisa che il bugiardo a furia di snocciolare panzane su questo o su quest’altro argomento si riduce a rimanere ingannato egli stesso dalle proprie menzogne, e voi pure, a lungo andare di cercare il vero di ogni cosa, e come a dire il vero del vero, non saprete più nulla, nemmeno di quella sapienza dozzinale ch’è propria del bimbo e della femminetta. E qui, se vi regge la pazienza, tornate a quello che ho detto altra volta giovandomi dell’allegoria di Tiresia, ossia di certi tali che per veder troppo si conducono a diventar talpe che non veggono nulla.
E volete sapere propriamente che cosa ne avvenga a chi tenga in mano quella benedetta lucerna, e si faccia a spiare il suo bene fra le tenebre del mistero dalle quali era avvolto? Abbiatelo da quello che la favola ci narra della troppo credula giovinetta. Le convenne, come vi ho accennato poco fa, obbedire alle durissime condizioni che le impose Ciprigna. Figuratevi la Dea della bellezza diventata invidiosa di questa mortale fanciulla! Quella Ciprigna che avea condannato la figlia di Ciniro al più nefando tra gli amori! È toccato dunque alla povera Psiche, impaziente come esser sogliono le ragazze, spezialmente se fortunate in amore, disceverare grano da grano in un mucchio grandissimo di biade di varia natura. Parimenti a chi siasi cacciata addosso questa sciaguratissima febbre dell’indagare in ogni cosa le riposte ragioni, di sospettare che v’abbia dappertutto alcun che di nascoso, è necessario durare l’inenarrabile fatica di disgiungere le parti quante mai sono ancor che minute d’ogni tutto; e non solo fermarsi a considerare, a cagion d’esempio, come fossero separati, uomo da uomo, ma l’uomo d’oggi da quello di ieri o di domani, ed in esso quel tanto che apparisce da quel che si cela, e via discorrendo, fino a porre a limbicco, come cantava piacevolmente il barbiere fiorentino, limature di nuvole stillate. E il troppo assottigliarla la scavezza, lasciò scritto un altro valente uomo, non so se fiorentino, ma certo come diceva, valente uomo.
La corrucciata Ciprigna, essendosi accorta della infrenabile curiosità di Psiche, e per conseguenza del dove poteva più facilmente esser presa per modo da non più fuggirne, le diede certo bossolo da portare a Proserpina, con entro non so qual essenza spiritosa, di sì maledetta ragione, che al levar del coperchio, per l’odore acutissimo, che ne usciva, era giuocoforza cadere a terra privati di vita. Alla pruova della cerna del grano v’avrà forse chi regga, che ci sono a questo mondo di cosiffatte pazienze, che di nessuna lungheria si sgomentano; ma alla prova del bossolo credo ben pochi saranno quelli i quali sappian resistere. E lo apriranno quel bossolo insidiosissimo, e all’uscire dell’infernale profumo dovranno dar della schiena in terra, essi che volevano numerare le stelle del cielo, e le arene del mare. In somma potete dire, senza tema di dir cosa falsa, che in quel bossolo è chiusa la loro morte, e o tosto o tardi dovranno fiutarla, appunto per quel loro vizio che hanno contratto di voler ficcare il naso dappertutto. E a dirvela coi versi di un mio amico, che trovo stampati in un almanacco di questo anno 1834, la cosa cammina del tenore che si legge nel seguente epigramma:
Qualunque nasce, in alto o in umil stato, |
Mi duole che a questi frivoli studii non sia conceduto meschiarsi in più serii ragionamenti; del resto vorrei condurvi nel più bello di tutti i giardini che mai fosse rischiarato dal sole. Vorrei mostrarvi in questo giardino una Psiche non favolosa, la quale, privilegiata di quanti beni può mai concedere la vita, non eccettuato il compagno delle sue gioie, dà orecchio alle insidie di un rettile che le viene infondendo il veleno della propria perversità. E in cambio del bossolo avreste un’arbore, e in luogo del fiutare l’essenza, vedreste esser recato un pomo alle labbra, pomo vago quanto altri mai a vedere, funestissimo a farne l’assaggio. Quanti giorni di miseria! Quanta vanità di desiderii! Quanta morte, dopo l’atto della donna
Lo cui palato a tutto il mondo costa!
Vi pensereste, lettori miei cari, ch’io avessi fatto disegno di guarirvi da una curiosità tanto dannosa, quanto si è quella contro cui ho spese finora le mie parole? Eh! ci vuole altro medico che non sono io, altra ricetta che di poche ciance. Ma se avessi saputo consigliarvi a non creder voi, nè altri punto più savii, per specolar che facciate, o che facciano oltre a quel termine che è conceduto alle nostre ricerche, mi sembrerebbe pure di aver fatto non picciol guadagno di merito a profitto de’ miei fratelli. Chi vorrà lasciar nelle tenebre il suo diletto? Chi contentarsi sapere che n’è amato? Forse due, forse nessuno. Quella sciagurata lucerna passa da mano a mano; e tutti, a questa o a quell’ora, siamo condannati a dolerci di una felicità che si fugge inesorabile alle nostre preghiere, colpa il troppo guardarla. E allora che ci rimane? La memoria dei beni che abbiamo perduto. E purtroppo allora soltanto possiamo renderne ragione, e divisarne la natura e la intensità. Dottori in cattedra che sputano aforismi, in casa cani arrabbiati che si graffiano e mordono da sè stessi. E per finirla con quattro graziosi versetti di un poeta graziosissimo, precursore del Metastasio, dacchè in questa diceria non c’è stata scarsezza di poetiche citazioni,
Ahi! che il meglio del contento, |