Misteri di polizia/XVIII. Il Malcostume nei palazzi
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CAPITOLO XVIII.
Il malcostume nei Palazzi.
Nel capitolo sedicesimo non abbiamo riprodotto la Firenze galante dei nostri nonni che coi colori di Carlin Dolci, meglio con quelli del Wanloo e del Watteau — un modo di dipingere che ha per iscopo di presentare le cose dal lato aggraziato e qualche volta da quello lezioso e che ha prodotto il quadro-madrigale o il quadro-Arcadia. Dipingendo le gesta d’uno degli ultimi cicisbei, noi abbiamo addolcito le tinte, smorzato ciò che forse gridava troppo forte, evitato certi colori, gettato della biacca dove il fondo era rosso fuoco, sostituito i chiaroscuri alla luce troppo sfacciata, infine, levigato ed appianato le asperità. Ma gli uomini della Polizia, quasi sempre, sono per le forti tinte, e chiamano le cose pel loro nome. Nei loro rapporti il verismo già trionfava quando nè il Balzac, nè la sua più legittima derivazione, lo Zola, nemmeno erano a balia. Per altro, la polizia, coi suoi cento occhi d’Argo, leggeva nell’interno delle famiglie come in un libro stampato; e se si facesse uno spoglio coscenzioso dei rapporti che i suoi ispettori facevano alla presidenza del Buon Governo, si avrebbe la storia intima, una storia, diremmo quasi esclusivamente, svoltasi nell’alcova delle famiglie toscane. A noi, a cui la prudenza e i limiti di questa nostra pubblicazione vietano di sobbarcarci a siffatta impresa, sia però permesso di sfiorare l’argomento, se non altro perchè la descrizione della società toscana non resti incompleta; e perchè i soliti denigratori dei tempi in cui vivono, sappiano, quanto a morale, che se i tempi presenti offrono i loro fianchi alle staffilate degli Aristofani e dei Giovenali, quelli passati, oltre i fianchi, offrivano anche le spalle e il petto.
Nei primi anni della restaurazione, la presidenza del Buon Governo, benchè retta da un ex-giacobino che quanto a costumi si ricordava d’avere vissuto gli anni della sua giovinezza in mezzo ad una società scollacciata, credeva che fosse una delle sue precipue attribuzioni, quella di richiamare, mercè dei cauti provvedimenti di polizia, sulla via della rettitudine i traviati, specie le Manon Lescaut di buona famiglia. Era quasi un camminare sulle orme dell’umile legnaiuolo di Nazareth; soltanto la parola d’un capo di polizia non poteva riuscire inspirata come quella dell’immortale amico dei deboli e degli oppressi, nè i cuori delle Manon Lescaut delle famiglie patrizie fiorentine erano tanto sensibili perchè potessero ascoltare con profitto i savi precetti del buon presidente.
Così il 14 agosto 1814, avendo appreso da una relazione dell’Ispettore di polizia che in città, si commentava sinistramente la condotta dei coniugi De L.....z - Da Fi....a, il presidente Puccini, che quindici anni prima aveva ballato intorno all’albero della libertà che gli scamiciati di via Calimaruzza e di via degli Strozzi avevano piantato in piazza della Signoria, fece chiamare il signor Carlo De L.....z e gli disse a bruciapelo:
— Signore, so che lei è ammogliato ed ha in isposa una dama della nobilissima famiglia Da Fi....a. So pure die lei trascura affatto la sua signora.....
— Viviamo perfettamente d’accordo.....
— Cosa vuoi dire?...
— Che ognuno di noi, in seguito ad accordi, si è creata una famiglia da sè. Come V. S. Illuma deve sapere, io vivo maritalmente colla signora B...ni, e la mia signora vive non meno pubblicamente di me col sig. Bess... uffiziale fiammingo....
— Lei sa anche questo?..,
— Sicuro, e non ci trovo nulla da ridire....
— Ma la morale?
— La morale, ne convengo, ci deve stare a disagio fra due unioni illegali.... Ad ogni modo, le nostre due famiglie non sarebbero sole a dare il triste esempio....
— Che il triste esempio cessi e lei ritorni a vivere colla sua signora...
— E il signor Bess...? Vorrebbe ella forse che codesta superfetazione della famiglia De L...z - Da Fi....a venisse a stare con noi?
— Lei ha voglia di scherzare; ma eccole quanto le impongo: dentro tre giorni, lei rinunzi alla signora B...ni e riprenda sua moglie...
— Anche dopo quel po’ po’ di scandalo che ha dato colla sua relazione col sig. Bess...? E che direbbero i fiorentini? Signore, io sono un buon tedesco, ma in casa mia nessuno ha mai fatto rimontare l’origine della famiglia sino al marito di Elena!
— Lei ha udito; fra tre giorni...
— E in caso di rifiuto?
— L’esilio perpetuo dal Granducato, signore.
— Signore, fin d’ora la può farmi sfrattare. La parte di Menelao, mi creda, non è fatta per essere rappresentata da me.
Colla signora Da Fi....a il signor presidente fu poi galante. La minacciò semplicemente della relegazione ad arbitrio ove non avesse posto fuori l’uscio di casa l’ufficiale e non fosse ritornata a vivere col marito.
La signora rispose:
— La mi releghi pure... Ma metter fuori dell’uscio quel povero Bess...! Un cavaliere così compito, ìllustrissimo signor Presidente!... Se lei sapesse com’è gentile!
Il Puccini tenne duro ed ordinò al commissario di Santa Croce, che provvedesse secondo gli ordini dati; ma al cuore, anche se in aperta ribellione colla morale, non si comanda; e i due coniugi infedeli, nonostante la minaccia dello sfratto per l’uno e della relegazione ad arbitrio per l’altra, continuarono a vivere separatamente ed ognuno di loro colla famiglia creatasi al di fuori della legge.
Oh forza d’amore! Oh impotenza delle polizie!
⁂
Non sempre però la parola immoralità era per la polizia sinonimo di scostumatezza. Agli occhi di una polizia bigotta, che aveva pretese di farsi credere tale, chi era liberale, era nello stesso tempo scostumato. Con un rapporto del 7 marzo 1828, l’Ispettore di polizia, trattando ex professo della scostumatezza che regnava nelle alte classi sociali di Firenze, non trovava altro rimedio al male, che di giorno in giorno si faceva maggiore, se non quello di mandar via dal Granducato gli eroi dell’alcova e del tavolino da giuoco, se stranieri; minacciarli in caso di ostinazione d’uno o due mesi di reclusione in un convento solitario, se toscani. E perchè l’illustrissimo signor Presidente del Buon Governo potesse far subito la scelta, il signor Ispettore, insieme al rapporto, sottoponeva al superiore una nota di trentacinque individui, quasi tutti stranieri e, meno pochissimi, portanti dei nomi registrati nell’almanacco di Gotha. Come cattivi soggetti, dediti al malcostume o professanti massime pericolose, o come allora si diceva in gergo poliziesco, anti-politiche, figuravano, in quell’abbozzo di tavole di proscrizione, i due principi di Demidoff, il marchese Giuseppe di Raddusa, esule siciliano, il duca don Salvatore Sforza-Cesarini (fin d’allora amico di Massimo d’Azeglio, il quale, nei suoi Ricordi, descrisse il famoso castello che il principe aveva a Marino e dove una certa notte i topi diedero tanto da fare al futuro autore d’Ettore Fieramosca), il principe Poniatowscky, i fratelli Carlo ed Alessandro Poerio. Di quest’ultimo, l’Ispettore parla nei seguenti termini: „Fa il bello spirito, infondendo massime e principii detestabili (ecco il liberalismo battezzato per immoralità) nell’animo dei giovani di buona famiglia della capitale, tanto in rapporto alla religione che alla morale. È presuntuoso, arrogante, incontrando facilmente disputa nelle società e luoghi pubblici. È quello che nel 1825 sfidò a duello il giovine fiorentino Tito Del Rosso e riportò dal commissariato del quartiere di Santa Croce dei rigorosi precetti colla comminazione dell’allontanamento dalla Toscana. Ed è poi quello che nel terminare del decorso carnevale sfidò pure a duello il signor Borch, segretario della legazione russa, per la qual causa la mattina del 24 del perduto febbraio fu arrestato in casa e pende adesso risoluzione.„
Il presidente del Buon Governo, che quanto a redigere tavolette di proscrizione non era zelante quanto il suo subalterno a prepararne lo schema, mise a dormire il rapporto dell’Ispettore postillando di suo pugno quella parte della nota che si riferiva ai fratelli Poerio. „È indubitato che i giovani Poerio sono liberali assai riscaldati e siccome non mancano di talenti e d’una certa facondia potrebbero essere pericolosi, se si dessero ad infondere delle massime perniciose nella gioventù, come riferisce l’ispettore. Io però non ho dati per crederlo.„
⁂
Torniamo a dirlo; noi ci fermiamo dinanzi al segreto delle pareti domestiche; ma inviteremmo volentieri coloro che oggi brontolano contro il secolo-nevrotico, o il secolo-Tartufo a leggere le cronache settimanali che gl’ispettori di polizia spedivano alla presidenza del Buon Governo e dove la vita cittadina era fotografata diremmo quasi in camicia, specie di cronache-omnibus che se non avevano le finezze letterarie, lo scintillìo delle immagini, o l’argutezza della frase d’un articolo di Yorik, o di Gandolin, o di Don Pandolfo, o di Jarro, avevano il pregio d’una ingenuità che qualche volta confinava colla salacità bonaria di certi novellieri del dugento o del trecento, senza tener conto di quella libertà sconfinata d’esprimersi che i signori poliziotti si pigliavano da sè, non essendo sottoposti a censura, nè preventiva, nè repressiva, nemmeno a quella comicissima istituzione del gerente responsabile che sembra copiata da quella usanza della corte spagnuola in forza della quale gli scapaccioni destinati al principe ereditario sono iscritti sulla partita-avere del suo compagno di studî e di trastulli. Li rinvieremmo, dicevamo, i nostri eterni piagnoni, a quelle cronache di polizia, ove vedrebbero passare, come in una ridda fantastica, marchesane adultere e conti foggiati sul tipo di don Giovanni; contessine civette e duchini giuocatori d’azzardo, mariti compiacenti e signore che, pur di avere il palco alla Pergola e una vettura con una bella pariglia al corso delle Cascine, davano ad intendere a vecchi baronetti inglesi e a gottosi principi russi imbottiti di ghinee e di rubli, d’essere innamorate cotte dei loro reumi e delle loro bocche sdentate; dame di distinzione, che pur vivendo separate dal marito, nascondevano le conseguenze delle loro distrazioni di cuore in una villa remota, se non addirittura nel ducato di Lucca; figli di famiglia che facevano grosse vincite senza poterne legittimare la loro condotta al tavolino del giuoco, e nobili dal nome storico che falsificavano cambiali pur di pagare un debito d’onore — strano modo di riparare all’onore — vedrebbero, diciamo tutto questo, e lo vedrebbero con profitto, chè, senza diventare filosofi dalla sera alla mattina, apprenderebbero una verità, che per essere scoperta non aspetta nessun Cristoforo Colombo, cioè, che l’uomo è sempre lo stesso. Gli statuti, le costituzioni, le leggi, la istruzione, la religione, la morale, il clima, le tradizioni, insomma l’ambiente politico, morale e fisico può cucinar l’uomo ora in un modo ora in un altro; ma, a parte la salsa, questo rimane sempre lo stesso.
Nè la corruzione si fermava dinanzi alle porte di coloro che in quel tempo, nella loro qualità di rappresentanti dell’ordine costituito, credevano, o fingevano di credere, che tra le misura di un savio ed onesto reggimento si comprendesse anche quella di rimettere sulla carreggiata le mogli adultere ed i mariti civettoni. Per parecchi anni, due città della Toscana furono teatro di scandali da lupanari, e non da parte degli amministrati, ma da parte di coloro che la fiducia del principe aveva posto al sommo dei pubblici negozî. Oggi, malgrado il tartufismo e la nevrosi dei tempi, bordelli simili a quelli a cui allora impassibilmente assistevano pubblico e governo, sarebbero semplicemente impossibili. Oggi, noi s’è visto uomini di Stato cadere e scomparire dalla scena dinanzi ad una rivelazione della stampa; ma allora, il quarto potere, questa triste invenzione dei tempi moderni era imbavagliato, e se qualche scrittore, sopratutto poeta, lanciava il suo epigramma, questo era subito sequestrato dalla polizia e il suo autore imprigionato o mandato per un paio di mesi a respirare le aure sane d’un cenobio, collocato sulle cime poetiche degli Appennini.
Quando, nel 1825, morì una delle eroine dei drammi boccacciani, a cui più sopra abbiamo alluso, l’Ispettore di polizia scriveva: „La marchesa V.... moglie di S. E. il Governatore di.... non fu in vita una vestale. Ebbe, fra gli altri, per amante un certo Mecherini, impiegato del governo, che comandava a bacchetta nella casa di Sua Eccellenza, trattando aspramente i servitori.„
In un’altra città, le signore cessarono, un po’ alla volta, l’una dopo l’altra, a frequentare la moglie — una contessa — di S. E. il Governatore, per paura che questa non rubasse loro gli amanti. Non era rimasta fedele a quella rubacuori, a quel Don Giovanni in gonnella che formava lo spauracchio di tutte le belle signore della storica cittadina, che una sola amica: anche questa provetta negl’intrighi della galanteria, nella credenza, che per rispetto alla loro vecchia amicizia non avrebbe gettato il fazzoletto da sultana al suo cicisbeo. Ma essa, poveretta, della fiducia posta nell’amica, ebbe subito a pentirsi; chè, la civettona governatrice, colle sue arti d’Armida, seppe aggiungere al suo carro anche il cavaliere della credula signora.
Nè le investigazioni degli uffiziali di polizia s’arrestavano dinanzi ai gradini del trono. In un rapporto del 6 settembre 1826 si narra d’un certo male appiccicato dalla famosa cantante Grisi al duca Carlo Ludovico di Lucca e da questo, alla sua volta, appiccicato alla duchessa, aggiungendosi, a modo di contorno, come il principe, che più tardi il Giusti doveva chiamare:
„ . . . . . . . il protestante Don Giovanni |
fosse innamorato della moglie del conte di Bombelles, ministro austriaco, e costui spasimasse per la Grisi. Un vero romanzo, come vede il lettore, a doppia azione con un pizzico di sudiceria alla Casti o alla Batacchi per giunta.