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CAPITOLO XVIII.

Il malcostume nei Palazzi.

Nel capitolo sedicesimo non abbiamo riprodotto la Firenze galante dei nostri nonni che coi colori di Carlin Dolci, meglio con quelli del Wanloo e del Watteau — un modo di dipingere che ha per iscopo di presentare le cose dal lato aggraziato e qualche volta da quello lezioso e che ha prodotto il quadro-madrigale o il quadro-Arcadia. Dipingendo le gesta d’uno degli ultimi cicisbei, noi abbiamo addolcito le tinte, smorzato ciò che forse gridava troppo forte, evitato certi colori, gettato della biacca dove il fondo era rosso fuoco, sostituito i chiaroscuri alla luce troppo sfacciata, infine, levigato ed appianato le asperità. Ma gli uomini della Polizia, quasi sempre, sono per le forti tinte, e chiamano le cose pel loro nome. Nei loro rapporti il verismo già trionfava quando nè il Balzac, nè la sua più legittima derivazione, lo Zola, nemmeno erano a balia. Per altro, la polizia, coi suoi cento occhi d’Argo, leggeva nell’interno delle famiglie come in un libro stampato; e se si facesse uno spoglio coscenzioso dei rapporti che i suoi ispettori facevano alla presidenza del Buon Governo, si avrebbe la storia intima, una storia, diremmo quasi esclusivamente, svoltasi nell’alcova delle famiglie toscane. A noi, a cui la prudenza e i limiti di questa nostra pubblicazione vietano di sobbarcarci a siffatta impresa, sia però permesso di sfiorare l’argomento, se non altro perchè la descrizione della società toscana non resti incompleta; e perchè i soliti denigratori dei tempi in cui vivono, sappiano, quanto a morale, che se i tempi presenti offrono i loro fianchi alle staffilate degli Aristofani e dei Giovenali, quelli passati, oltre i fianchi, offrivano anche le spalle e il petto.