Mio figlio ferroviere/VII
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VII.
DONNE (PURTROPPO CONTINUA).
Dove s’incontrarono dopo quel giorno i due amanti? Non mi riguardava poichè s’incontravano fuori di casa mia. Ma, fosse il fastidio pel mio inatteso e risoluto intervento, fosse la difficoltà di vedere altrove la signora Cencina, Nestore entrò pochi giorni dopo in un malumore tanto agitato e accigliato che non mi ricordavo d’aver mai veduto mio figlio così. Il medico di reparto, come si dice in gergo ferroviario, era socialista e gli aveva fatto ottenere un permesso di quindici giorni per malattia: esaurimento nervoso, diceva il certificato. Presto da mia moglie seppi la verità: Nestore era geloso del sottoprefetto, addirittura. Non ci doveva essere niente di serio a carico del povero sottoprefetto che in quel momento era un giovane funzionario, nemmeno commendatore, venuto da noi dopo essere stato durante la guerra commissario civile in non so quale paesotto di quel poco di Trentino che avevamo occupato di primo slancio nel 1915. Là aveva dovuto lottare coi generali, qui coi socialisti; e spaurito spiegava che gli uni e gli altri ragionavano nello stesso modo: la stessa insofferenza, per non dir peggio, ai timidi ordini del Governo (gli uni e gli altri lo chiamavano infatti “il Governo centrale” come se ve ne fosse veramente un altro, il loro); l’indifferenza pel bilancio dello Stato, paragonabile a quella di certe mogli mondane pel bilancio del marito; la stessa sovrana preoccupazione, caschi il mondo, di non perdere il posto; le stesse promesse d’imminente paradiso ai loro seguaci, pur d’esserne obbediti, e ad ogni delusione, ritardo, sproposito, sconfitta, l’immediata amplificazione delle delizie di quel paradiso avvenire (domani finisce la guerra, domani muore la borghesia, andrete tutti in licenza, la terra sarà dei contadini reduci; le officine delle guardie rosse ecc.); la stessa visione dell’umanità futura, trasformata tutta in impiegati, in un mondo tutto ministeri, con l’ingegno e la capacità proporzionate al grado, perchè la natura può sbagliare ma lo Stato Maggiore o la Direzione del Partito non sbagliano; la stessa convinzione, salda come un palo di forca, che chi non la pensa come loro è un criminale da fucilare o un povero stolto da ricoverare (a sue spese) in un ospizio; la stessa solidarietà di corpo, partito che dir si voglia; lo stesso mito di perfezione posto fuori d’Italia in terra straniera, da quelli in Germania, da questi in Russia, e, nonostante la disfatta e lo sfacelo, adorato sempre appunto perchè è un mito fuori della realtà, un santo a capo del letto che non può essere offeso da quel che avviene nel letto. Il povero sottoprefetto spingeva cogl’intimi questo iniquo paragone fino alle minuzie, fino alla frenesia per l’automobile e al disdegno per ogni altro più economico mezzo di trasporto anche per andare da qui a lì: per l’automobile, s’intende, altrui o pagato dagli altri. Ma, poichè voleva mostrarsi equanime, aggiungeva che c’è, sì, una differenza, in questo: che dopo una battaglia i capi militari tendevano a diminuire il numero dei loro morti, i capi socialisti invece tendono ad aumentarlo. Ma era una differenza formale e passeggera che sarebbe scomparsa insieme al regime borghese. Che questo sottoprefetto, spaventato anche dalla propria ombra, tutto inchini e sorrisi, la destra sempre tesa a cercare una stretta di mano e un appoggio, nella spasimante attesa d’essere scaraventato con un telegramma “decifri da sè” in Sicilia o in Sardegna, si fosse lasciato andare a far la corte proprio alla moglie del sindaco, e proprio nell’imminenza delle elezioni che forse non avrebbero ricondotto il commendator Pópoli al potere, mi sembrò improbabile. Piuttosto Cencina, dopo qualche complimento ripetutole per dovere di carica dal cavalier Pasquarella il quale arrivando era certo stato avvertito del tradizionale ossequio di tutte le autorità civili e militari a quella bellezza municipale, doveva essersi divertita a stuzzicare la gelosia di Nestore. Proprio il sottoprefetto contro il ferroviere organizzato: come a dire il Ministero dell’Interno, carabinieri e guardie regie, contro la Confederazione del Lavoro. Meglio non poteva scegliere. Aveva ormai, l’ho detto, trentacinque anni, e le occorrevano queste malizie per non cadere di seggio. Quel giorno in soffitta, tra le scomposte chiome di lei, m’era sembrato di vedere, alla radice, del bianco. Povera donna, doversi tingere, e avere un amante di undici o dodici anni più giovane di lei. Sono un provinciale, lo so, ma la tintura delle donne non più giovani m’ha sempre commosso. I più la considerano una bugia come un’altra, a danno degl’ingenui. Alcuni sostengono che quel loro colorirsi pelle e capelli con colori di giovinezza è un segno di civile cortesia pel loro prossimo che esse non vogliono affliggere con lo spettacolo della decadenza e vecchiaja loro: qualcosa di simile a quel che fa la provvidenza divina col cielo al tramonto. Ma io ho sempre creduto che per quelle disperate donne questo sia un modo per consolare sè stesse, per ingannare sè stesse prima degli altri. Lascialo, lettor mio, dire a un medico che di gente n’ha vista invecchiare, patire, morire: v’è un inganno dal quale il più scaltro dei viventi non si salverà mai: dall’inganno di sè medesimo. Il fatto si è che, strattagemma come io credevo o verità come credeva mia moglie, Nestore s’agitava e soffriva: soffriva anche come socialista ed organizzatore a trovarsi la prima volta tra i piedi un prefetto che tardava ad obbedire e a scomparire. Non poteva telegrafare al ministro dell’Interno la vera colpa di questo funzionario, sebbene io creda che, se egli avesse fatto conoscere in tempo questa colpa, non dico al Presidente del Consiglio, ma al sottosegretario di Stato o al capo di gabinetto o al segretario particolare, questi avrebbero súbito accontentato Nestore ferroviere e mandato via il cerimonioso Pasquarella, magari col pretesto d’una promozione. E tutti sarebbero stati felici. Purtroppo Nestore scelse un’altra via, diretta e sicura ma rumorosa ed ingiusta. Nei quindici giorni della sua malattia legale, Nestore aveva passato alla Camera del Lavoro o in giro per le leghe dei dintorni la maggior parte del suo tempo, oggi portando ai contadini i fraterni giuramenti dei ferrovieri e domani ai cavatori di lignite la calda simpatia dei telegrafisti, tra gli stessi convinti applausi coi quali al Grand Hôtel nella colazione offerta dal ministro degli Esteri all’inviato straordinario della Patagonia o della Corea i convitati romani accolgono l’annuncio “dell’intima fraterna cordialità di rapporti tra quella repubblica e il regno d’Italia”. La sera dopo la partenza di lui mia moglie a pranzo mi confidò sottovoce che Nestore era sicuro del trasloco del suo presunto rivale. – Non ci mancherebbe altro, – risposi ma s’era alla stagione delle pere e Giacinta m’aveva dato quell’annuncio proprio alle frutta. Io adoro le frutta, e in ispecie le pere, e sopra tutto quelle dei peri di Poreta che io ho piantati dodici anni fa con le mie mani, facendoli venire, contro il parere di tutti gli xenofobi di mia conoscenza, da una grande ditta lombarda. Mi misi dunque a scegliere, sbucciare, tagliare, assaporare le due più belle pere della fruttiera, lasciando che mia moglie meditasse sul mio silenzio e finalmente ne concludesse che a me sembrava scorretto, se non addirittura disonesto, che i genitori s’occupassero degli amori, per quanto altolocati, del loro figliolo. La pera, più d’ogni altro frutto, m’induce in pensieri religiosi. Quel delicato profumo, dolce ma pulito e, da fuori, un poco asprigno; quella pelle lucida sdrucciola compatta, con qualche lentiggine, come d’una ragazza bionda accaldata dal pieno sole; quella polpa bianca quanto il fior del latte, soda che resiste al dente ma poi ti si disfa in bocca con un aroma nel cui dolce ritrovi l’amaro del fiore e l’acre della foglia; quella forma del frutto spaccato che è la forma d’un cuore: tanta bellezza, finezza, bontà può essere stata raccolta in tanto piccolo volume dal caso o, come si dice senza sapere quel che si dice, dalla natura? Un frutto, un bel frutto è il giojello della natura; e io capisco perchè gli antichi, più vicini di noi alla verità, abbiano offerto agli dei le primizie dei frutti più belli, più coloriti, più odorosi, e perchè i pittori e gli scultori della rinascenza in un cesto ai piedi del Bambino, in un festone sul capo della Madonna abbiano disposto più frutta che fiori. Essi restituivano a Dio l’emblema del più bel dono che egli aveva fatto loro: ai loro occhi, al loro olfatto, al loro gusto, alla loro salute. Assaporavo dunque, sulla punta della forchetta, facendolo prima brillare alla luce, l’ultimo spicchio della seconda pera, quando dalle finestre spalancate sulla sera estiva entrò il fragore d’uno scoppio lontano: cupo e secco, senza echi. Scesi in istrada e, dietro gli altri, presi la via del Corso. — Una bomba alla prefettura! Una gran folla s’accalcava sotto il palazzo del sottoprefetto. Mi fecero largo, entrai nell’androne. La bombetta era esplosa nel cortile che è largo ed erboso e da un lato dà sul giardino e sull’orto. Poichè il portiere e le due guardie che vigilano tutto il giorno l’ingresso, continuavano a giurare che da più d’un’ora nessuno era entrato nel palazzo, supponemmo che la bomba potesse essere stata lanciata dal giardino. Difatti, salvo due vetri rotti, al terreno, e quattro sassi del selciato sconnessi e anneriti dallo scoppio, la bomba non aveva fatto danni. Lo stesso sottoprefetto s’affannava a spiegarlo a tutti, con una voce che via via si faceva più ferma ascoltando sè stessa. Egli s’interrompeva solo per raccomandare ai carabinieri che sgombravano il cortile, l’androne e qualche metro di piazza là davanti, d’essere gentili, molto gentili col pubblico. Quando si rimase là dentro in pochi, rivestiti di pubbliche cariche, ci si mise coi cerini a cercare i frantumi dell’ordigno. Il commissario di pubblica sicurezza sosteneva che era stata una bomba a orologeria collocata lì molte ore prima; il capitano dei carabinieri, che si trattava d’un innocente petardo; il sottoprefetto, ormai rinfrancatosi, sceglieva, come era dovere del diretto rappresentante del Governo, un’opinione intermedia, e dichiarava che era stata una bomba a mano, e a sostegno della sua tesi citava fieramente la sua esperienza della guerra e della fronte, anzi (com’egli diceva ligio, per abitudine, alle ingiunzioni del primo Comando Supremo e del generale Porro) del fronte. Ebbe ragione lui. Presto si ritrovarono sette od otto pezzi della ghisa d’una Sipe a spicchi o, per dirla tecnicamente col sottoprefetto, a “frattura prestabilita”. Me ne andai verso il Circolo mentre il cavalier Pasquarella chiedeva ai presenti che cosa mai si poteva inventare per impedire che la stampa se ne occupasse. Avevo fatto pochi passi quando fui fermato dall’onorevole Saltelli deputato socialista il quale, con Filiberti segretario della Camera del Lavoro e altri quattro o cinque “compagni” di Nestore, accorreva a fare, come si suol dire, un sopraluogo. Spiegai loro i risultati di quello mio. Ma, obbedendo alle necessità del loro partito, essi erano già deliberatamente furenti perchè “certo il proletariato sarebbe stato accusato di quello stupido scherzo”. — La vera inchiesta la faremo noi, qui e in Parlamento. L’epoca delle bombe ammaestrate è finita per sempre. Che cos’è la verità? È quell’idea che uno si porta bell’e fatta in tasca quando va incontro alla realtà. L’inchiesta giudiziaria cercava la verità; l’inchiesta socialista l’aveva trovata prima di cercarla, e perciò doveva trionfare. Tre giorni dopo, essendo domenica uscì sul Martello, periodico settimanale dei rossi, il testo dell’interpellanza dell’onorevole Saltelli al Ministro dell’Interno “sullo scandalo della bomba fatta esplodere nel cortile della prefettura di....”. Il sottoprefetto partì per Roma, a discolparsi. Presto si seppe che egli non era stato ricevuto nè dal ministro nè dal sottosegretario, ma solo dal capo di gabinetto il quale gli aveva annunciato che i socialisti lo accusavano formalmente di tenere nascoste nella sua stanza da letto altre bombe Sipe per preparare, contro loro, altri attentati calunniosi. Pasquarella allibì. Di fatto egli aveva riportato “dal fronte” due bombe a mano, scariche, s’intende, anzi vuote e ridotte elegantemente una a scatola di sigarette, una a scatola di fiammiferi: e le teneva appunto sul suo comò. Poteva confessarlo. Nella confusione, davanti all’ordine del capo di gabinetto che restasse a Roma per dare gli schiarimenti che ancóra potessero occorrere quando la Camera avesse discusso l’interrogazione Saltelli, preferì di telegrafare in cifra al suo segretario che togliesse di sul comò le due finte bombe. Il telegramma fu conosciuto a Roma, e il povero Pasquarella fu messo a riposo. Molti mesi dopo seppi che era riuscito a rientrare in carriera, ma miseramente, consigliere di prefettura non so dove in Basilicata. Che parte ebbe Nestore in quella cospirazione? Egli viaggiava sulla sua locomotiva. Mia moglie appariva raggiante, ma non osava tornare, con me, su quell’argomento scabroso. La prima volta che Nestore riapparve a casa, gli chiesi a bruciapelo: — Hai saputo del povero sottoprefetto? — Già, – mi rispose indifferente: – Doveva finire così. Voleva dire che a lui il povero Pasquarella era noto da gran tempo come un imbecille o un disonesto che in quel posto non poteva durare? che la condanna emanata da lui Nestore contro il suo preteso rivale era stata puntualmente e inesorabilmente eseguita? M’accontentai d’affermare il mio pensiero: — Io lo credo innocente, – ma Nestore mutò discorso e venne a spiegarmi ch’egli s’era adoperato a convincere i suoi colleghi della stazione di .... a non trattenere, come avevano fatto per tre giorni, un vagone di squisito olio d’oliva destinato non so a chi, per la buona ragione che la loro Cooperativa di consumo ne era priva e non riusciva a trovarne a prezzi ragionevoli. I più rossi gli avevano dato del pompiere, ma egli stava già per piegare anche loro con la nota formula che “il proletariato deve mostrarsi più onesto della borghesia”, quando proprio il delegato di servizio alla stazione uscì a dire davanti a una dozzina di ferrovieri: – Dovevate prendervi l’olio senza andarlo a raccontare in piazza. Voi, ragazzi miei, chiacchierate troppo e con le chiacchiere fate danno a voi stessi, a me e al governo. – Proprio così aveva detto, limitando il rispetto dell’autorità a quella formalità, come si dice in retorica, della gradazione (uno i ferrovieri; due, lui delegato; tre, in cima, il governo) ed escludendo il resto dell’umanità contribuente, compresi i proprietarii dell’olio, da ogni diritto ad una considerazione anche fugace. Nestore ne era adirato e scandalizzato, non solo perchè al confronto del delegato di pubblica sicurezza egli aveva fatto la figura d’un laido conservatore, ma anche perchè gli seccava di vedere la guerra dei socialisti contro i borghesi svanire così, per mancanza di borghesi. Per continuare il paragone caro al disgraziato Pasquarella, Nestore si ritrovava nello stato d’animo d’un generale che in guerra avesse preparato con cura meticolosa l’assalto a una posizione, lodando sè stesso e facendosi lodare per la sua perspicacia ed audacia, e l’assalto invece gli si fosse risolto in una pacifica passeggiata perchè in quella dolina, fortino, bosco o cocuzzolo non s’era trovata nemmeno l’ombra d’un nemico. Restava sempre il conforto di accomodare le cose nel bollettino; ma i soldati ridevano lo stesso. Del sottoprefetto messo in fuga, noi dunque non si parlò più. A me, dopo tutto importava che le ripetute offese all’onore del nostro sindaco non si ripetessero dentro casa mia o meglio, per toccare il fondo della morale, che capitando uno scandalo nessuno potesse sospettare in me o in mia moglie una brutta complicità in quelle offese. I due lucchetti mi davano questa sicurezza; le loro chiavi erano nel mio cassetto; e talvolta salivo anche a toccarli, con la soddisfazione con cui un sovrano passa in rivista la guardia del corpo. Qualche giorno dopo la partenza di Nestore e di Giacinta per Roma, presi le due chiavi e salii in soffitta ad aprire quelle porte. Le due chiavi non agivano. I due lucchetti erano stati da Nestore mutati con altri due lucchetti di uguale apparenza dei quali certamente egli si teneva in tasca le chiavi lasciandomi la consolazione di credere di averle io? Non lo saprò mai. Soltanto so che io, padrone di casa, se volli entrare nella mia soffitta, dovetti segare da me con una lima almeno il lucchetto della prima porta. Nella stanza, bene assestata, trovai una lunga vestaglia di donna, un pigiama da uomo, molti arnesi da toletta, un biglietto d’una calligrafia a me ignota, il ritratto d’un giovanotto mai veduto, con una dedica a una misteriosa Lydia con l’ipsilon.... Corsi alla porta che comunicava con le soffitte della sarta. Era appena accostata. Da quando cioè Nestore, come narrerò, s’era staccato da Cencina, la sarta s’era tranquillamente incamerata quella stanza. Per altre clienti? Per la stessa Cencina e il successore di Nestore? No, questo sarebbe stato cinico, e non volli crederlo. Con le mie mani posi di là sul mattonato il pigiama, il ritratto, i profumi, le spille, i pettini, i fiori secchi, il ritratto, tutto quello che immaginai di proprietà degl’invasori. Poi tirai il catenaccio, e accumulai contro la porta tutti i mobili di quella stanza e alcuni dei mobili della stanza precedente. E con un sospiro ridiscesi nel mio studiolo. La proprietà, almeno la proprietà fondiaria, era salva.