VIII. Il gatto bianco

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VII IX
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VIII.

IL GATTO BIANCO.

[p. 147 modifica]Ma una volta fui davvero sul punto di romperla con questo mio figliolo rosso, che sia benedetto. Egli nell’esercizio del suo potere afferra tutto, accetta tutto, per sè o pel suo partito o per gli amici sui quali gli sia utile o solo piacevole affermare la sua autorità d’elargitore di grazie e doni. Così sono tutti i suoi, ed è per adesso la loro forza. Sono nuovi al potere che veniamo loro regalando, ed ingordi; sanno che anche i piccoli doni al momento buono, al momento cioè delle elezioni, rendono il cento per cinque; infine, poichè il governo è, ancóra per poco, borghese, i doni che essi fanno sono tutti o quasi tutti tolti all’aborrito borghese: non sono cioè soltanto doni, ma anche trofei di vittoria. E a questi uomini nuovi fa piacere vestirsi da tiranni con lo scettro in mano e il boja dietro: dato che sul popolo questo fa un grande effetto. Capitò una volta qui al teatro Nuovo una compagnia di guitti impolverati da tutte le strade maestre, e una sera verso le undici il custode [p. 148 modifica]del teatro corse a chiamarmi perchè la prima donna partoriva. Aveva resistito fino all’ultimo atto della Maria Stuarda, puntualmente, e, mentre la trasportavano a casa in carrozza, m’avevano mandato a cercare. Il custode mi menò in una stanzuccia di via San Pietro, nuda, sotto il tetto. E sul letto trovai la partoriente che urlava e springava, i capelli disfatti, la bocca torta, gli occhi bianchi. Ma era ancóra truccata e vestita da regina, la faccia tutta gesso, rossetto e nerofumo, l’abito di raso nero a sbuffi gialli con una gran coda che pendeva sullo scendiletto. E il povero marito era ancóra vestito da boja, tutto di rosso fuoco, con una barbaccia gialla e quadrata che gli si sollevava a fiocchi. Due candele. E dai vetri sconnessi della finestra, il vento faceva ballare le fiammelle e le ombre. Quei due poveri cani non avevano fatto in tempo a spogliarsi, e lei si sgravò così vestita da regina, assistita da suo marito in lagrime, vestito da boja. Quando vedo i gesti da tiranni di questa gente che da un anno o due ci annuncia tutti i giorni la nascita dal loro grembo della società nuova, dell’ordine nuovo, della felicità nuova, penso sempre a quei due, truccati a quel modo. Ma quelli soffrivano sul serio. E del resto la regina Maria Stuarda abortì, e il suo povero boja riaccompagnandomi sulle scale e finendo di staccarsi quel che gli restava di barba mi confidò in un ultimo sospiro: – Meglio così, dottore, meglio così, perchè non avremmo saputo che dar da mangiare a quella creatura, se non moriva. [p. 149 modifica]Che abbia proprio da finire così anche in Italia? In Russia sta finendo così. E ad ogni cittadino che muore, i governanti, vestiti chi da re chi da boja, debbono ragionare come il mio attore quella notte, con un bel sospiro di dolore e di soddisfazione. Torno a Nestore. Dopo la croce di cavaliere e dopo le grasce delle requisizioni, gli venne in mente di farmi nominare medico delle ferrovie. La verità è che io avevo fatto questa domanda da otto anni e non ci speravo più, e che tra i medici delle ferrovie ce n’è di più bestie di me. Nè si trattava di gran lavoro e di lauti guadagni: basta rilasciare ai ferrovieri malati o che si credono malati o che vogliono far credere d’essere malati, certificati longanimi; in compenso si ricevono poche centinaja di lire e, quel che più conta, un biglietto di libero percorso in un raggio di due e anche di trecento chilometri. Questo è il più certo vantaggio, specie con le tariffe d’oggi, materiale, e anche morale, perchè io sono modesto, per la mia natura e per il mio comodo, e mi piace in questo mondo di passare inosservato. Ora, in un vagone stipato come adesso s’usa, tirar fuori dalla tasca il cartoncino d’un biglietto a pagamento, peggio d’un biglietto a tariffa intera, è diventato un gesto tanto raro e spaccone che il meno che ti capita è d’essere preso per un arricchito di guerra. L’italiano medio, l’italiano corrente, il vero italiano viaggia gratis, modestamente. Avevo, ripeto, fatto questa domanda da otto [p. 150 modifica]anni, e non speravo più di vederla accolta quando un bel giorno fui chiamato a S.... dov’è la sede del Compartimento ferroviario, e dopo mezz’ora d’anticamera accanto a un usciere che leggeva l’Avanti! e sputava in terra come se le piastrelle bianche e nere del pavimento fossero ognuna una lapide sul cadavere d’un borghese, fui ammesso alla presenza di non so più che capufficio. Era un grassottello sui cinquanta, calvo, con poche setole di barbetta castagna ficcate sulla punta della bazza, e in bocca un bocchino di ciliegio grosso come un mortaio da trincea, con dentro una cicca di toscano spenta: più due occhietti da civetta, gialli, furbi e scanzonati, tra le palpebre spelate. — Il dottor Maestri? Bravo, bravo. Legga qui, – e mi porse un mezzo foglio, di carta protocollo, ma non l’avevo ancóra preso che quello continuava: – Bravo, bravo. Dunque anche lei è dei nostri, – e con quelli occhietti rideva così che non sapevo se volesse con quel “nostri” annunciarmi una condanna o una fortuna. Si trattava della mia nomina a medico delle ferrovie. Lo guardai senza parlare perchè stavo parlando a me stesso e mi chiedevo, un’altra volta, se dovevo sì o no accettare. — Capisco. Lei già lo sapeva; ma era mio dovere disturbarla per dirglielo. S’accomodi. Io preferisco stare in piedi. Sto sempre in piedi. Sono stato seduto venti anni per arrivare a questo posto. Niente di speciale, anzi incomodissimo. Ma almeno adesso posso stare in piedi. Firmo anche in piedi. Bravo, bravo. Io conosco [p. 151 modifica]bene suo figlio. Farà carriera. Un bell’esempio, per chi ci crede. Sono tanti ormai a crederci che farà carriera. Anche l’onorevole Bassettini, deputato ferroviere, nostro amato padrone, m’ha raccomandato questa pratica. Tutto fatto, in dieci giorni. Magari i diretti andassero così. Glielo scriva. Bel tipo anche quello. Bravo. Lei da quando è nel partito? — In che partito? — Socialista, centrista, unitario, comunista, massimalista, sindacalista, leninista, scelga lei che io non ci capisco niente. — Lei, caro signore, si sbaglia. Io non sono nè socialista nè comunista. — Bravo, bravo. E che cos’è? Poppolare? – e sulla misteriosa arguzia di quella doppia p strizzava gli occhi ammicando. — Io sono un vecchio liberale, caro signore. E all’età mia non si cambia. — Liberale, lei? E il figlio, comunista? Bravo, bravo. Questa sì, è una gran bella combinazione. — Proprio una combinazione, ma non nel senso che dice lei. E, se è lecito, lei di che partito è? — Anarchico costituzionale, anarchico costituzionale. Che altro vuole che sia, coi tempi che corrono, un povero capufficio alle Ferrovie di Stato? Anarchico costituzionale. Lo sanno tutti; per questo mi sopportano. Devo farmi sopportare ancóra per un anno. Poi la pensione e la pipa: una pipa dopo colazione, una pipa dopo pranzo. Di più non è permesso. Accumulo le [p. 152 modifica]cicche da sei, anzi ormai da sette anni: da quando è scoppiata la guerra europea. Guardi, – e andò a uno scaffale d’archivio con la base e i fianchi di legno e tante scatole verdi di cartone, una su l’altra. Ne aprì la prima, ne aprì la seconda: tutte cicche: – Un tesoro, coi prezzi di adesso. Appena la Germania cominciò la guerra, io capii dove si andava a finire, e cominciai a fare economia. Tra casa e qui ho da fumare per tre anni. Richiuse, e mi si piantò davanti: — Anarchico costituzionale. Dunque il nuovo partito piace anche a lei? Bravo. Se stesse un giorno a questo posto, tra quello che ci scrivono da Roma e quello che ci ordinano i sindacati, le associazioni, le leghe, i deputati, i comizii, la prefettura, la questura, la Camera del Lavoro, la Camera di Commercio, vedrebbe che non c’è altro partito possibile per un funzionario che si rispetti, che cioè rispetti sè stesso. Perchè del rispetto degli altri, chi s’occupa più in Italia? Nemmeno le donne. Io sono scapolo: anarchico costituzionale. Suona bene. È vero? A noi vecchi ricorda anche il monarchico costituzionale di buona memoria. In fondo ne è la filiazione fatale. Entrò una ragazza bruna con alcune carte in mano. Gliele depose nelle mani e se ne andò alla finestra a guardar fuori, i gomiti sul davanzale. Il burocratico gittò uno sguardo alle carte, le lasciò sulla scrivania. Poi guardò la ragazza che gli voltava le spalle, e tornò a sorridere. Accese la sua cicca, con cura, lentamente, [p. 153 modifica]buttò fuori due o tre boccatine di fumo. Tornò a guardare la ragazza. Costei, dritta sulla punta dei piedi, faceva con la mano e con le braccia dei segnali semaforici a qualcuno in piazza. — C’è? — Chi? — Lui, quello solito. O un altro. — Sì, c’è. Grazie, – e con le dita delle due mani alte e spalancate segnava a quello giù il numero sette. — Stasera alle sette. Se non ha capito ancóra, non capisce più. Bisognerà che lei, signorina, si faccia mettere in una stanza con la finestra sulla piazza, senza doversi incomodare a trovare sempre una scusa per venire qui alla finestra mia. — Non è un incomodo, – e se ne andò indifferente, accomodandosi le forcelle nei capelli. — E questa è ancóra una brava ragazza. Almeno è sincera. Mi accingevo a salutare il capufficio, convinto che il più smunto mozzicone di sigaro gli importava più della conoscenza dell’animo mio (e non gli davo torto), quando la porta sul corridojo s’aprì e apparve un giovanotto bruno e adusto, vestito di marrone, col cappello in testa e una cravatta di seta turchina avvolta intorno al collo, al posto del volgare colletto. — Cavaliere, noi s’aspetta da un’ora. — Passi, onorevole, passi. — Che onorevole! Non si viene per scherzare, – ed entrò seguito da quattro compagni. — [p. 154 modifica]Ancora non è deputato? Scusi, mi confondo. Sono tanti loro in parlamento. Non voleva essere un’offesa, le giuro. Si accomodino. Loro vengono pel caso Mingozzo. Il medico s’ostina a dire che è guarito, e il regolamento non mi permette di far altro.... Resti, dottore, I quattro, appena mi udirono chiamare dottore, mi guardarono in cagnesco: — Il regolamento, si sa, è per loro che l’hanno inventato, non è per noi. Ma qui si tratta di un’ingiustizia flagrante. Loro vogliono assassinare un uomo, solo perchè è un organizzatore.... — Io voglio assassinare un uomo? – e poichè sentì che il sigaro gli s’era ancóra spento nel bocchino, andò alla scrivania a prendere uno spillo e con quello estrasse dal bocchino la sacra reliquia e la depose trafitta sulle carte portate dalla signorina con la delicatezza d’un entomologo che metta sotto vetro una farfalla. — Loro vogliono assassinare un uomo. Noi abbiamo qui, firmata da due medici, la dichiarazione che Mingozzo ha bisogno d’un altro mese di riposo perchè è malato di nevrastenia acuta. — Se anche jersera ha parlato in un comizio.... — Non deve nemmeno parlare? Ha mai sentito dire lei che i convalescenti devono anche stare zitti? È proprio per impedirgli di parlare che loro lo vogliono assassinare. — Assassinare! – sillabò fieramente uno dei quattro che fino allora s’era frenato a stento e aveva sottolineato con gesti furibondi ogni frase del compagno: – Assassinare! – e schiaffò il suo [p. 155 modifica]cappello sulle scartoffie della scrivania con l’impeto con cui Brenno gittò la spada nella bilancia sul piatto che sapete. Il capufficio dette un balzo. Ma prima di porre le mani su quel cappello riuscì a frenarsi di botto, così che da giallo che era diventò in una fiammata tutto rosso. Poi con due dita, scusandosi e riscusandosi, sollevò la tesa del cappello, ricuperò la cicca con lo spillo, corse a deporla nel cassetto più alto dell’archivio, e tornò davanti ai suoi interlocutori. Saltellava come se il pavimento fosse arroventato: — Loro possono lasciarmi la dichiarazione dei due medici? — Dobbiamo ancóra farne fare una copia da mandare a Roma ai nostri deputati. — Deputati, deputati.... Che c’entrano i deputati? Vediamo d’accomodarci qui. Non ci siamo sempre accomodati? – e si grattava la calvizie e poi si guardava le unghie; – Ha proprio bisogno d’un mese questo bravo Mingozzo? Sieno buoni. Quindici giorni basteranno. — Un mese, dice il certificato medico. — Ma l’altro certificato, quello legale, dice che è guarito. — Bugie di vigliacchi. — Di vigliacchi! – ripetè il coro dei quattro, due un’ottava sopra, e due un’ottava sotto. — Facciamo venti giorni. — Cavaliere, lei lo sa se le vogliamo bene. Facciamo venticinque. — Ma a me occorre un certificato legale che dica venticinque. — Mingozzo [p. 156 modifica]è giù sulla porta. Il capufficio sobbalzò: s’era dimenticato di me e all’improvviso io gli rappresentavo la salvezza: — Dottore, vada giù lei. Lei ormai è regolarmente nominato. Vada giù, visiti il Mingozzo. Faccia lei. Veda se può dargli questi venticinque giorni, – e voltandosi ai quattro: – Il dottore, qui, è il padre di Nestore Maestri, uno dei vostri. Ci avviammo. Restò indietro quello vestito di marrone, estrasse dalla tasca della giacca un pacchetto, lo porse al capufficio ridendo: — Trenta toscani le avevamo portato, uno per giorno. Adesso me ne dovrei riprendere cinque. L’altro era beato. Con la sinistra stringeva il pacco sul cuore, con la destra prima gli strinse la mano, poi accompagnandolo fino sul corridoio gli accarezzò affettuosamente le spalle. — Ancóra un medico, – ringhiò Mingozzo appena gli fui presentato. Ma quelli gli spiegarono chi io mi fossi, e il nome di Nestore lo placò tanto che voleva portarmi a bere e darmi da fumare. Nicola Mingozzo s’era trovato quattro mesi prima sulla macchina d’un treno merci che tra Ancona e Sinigallia era stato di notte urtato da un treno diretto. L’urto l’aveva veramente ricevuto nella coda e Mingozzo che era sulla macchina non l’aveva sofferto che per contraccolpo e quasi per sentito dire. Ma l’effetto sui suoi nervi era stato, si vede, tanto grave che ormai [p. 157 modifica]egli non tollerava più il minimo accenno a quella notte e a quello scontro. Ci provai due o tre volte. — Dottore, no, non posso pensarci, non posso pensarci, – e stralunava gli occhi. Gli altri a commentare: — Lo vede in che stato è? Stesi e firmai il certificato in cui dichiaravo che per altri venticinque giorni bisognava evitare al macchinista Nicola Mingozzo affetto da nevrastenia, la trepidazione del treno in corsa. Infatti quelli ringraziandomi m’annunciarono che Mingozzo partiva la sera stessa per Foggia dove i ferrovieri erano in sciopero perchè, essendosi la figlia d’uno dei capistazione sposata con un tenente della Guardia Regia, questi venuto a trovare per tre giorni il suocero aveva osato prendere alloggio presso di lui nella stessa stazione. Io corsi da Nestore per dichiarargli l’animo mio. Era una giornata di sole, a metà della primavera, e gl’ippocastani sul piazzale della stazione erano ancóra fioriti tra le foglie ancóra chiare. Un vecchio campagnolo come me, davanti al verde e ai campi aperti e al cielo libero, ritrova súbito la sua calma e quel tanto di senno che ajuta a vivere, a misurare cioè gli uomini e le loro ansie e ambizioni e collere e stizze sulla misura dei monti, i quali durano più di loro. La stazione è al limite della città, e di là dai suoi binari si stendono i campi arati e [p. 158 modifica]si scorgono i monti verdi e i monti turchini. Il cielo era tanto limpido che delle tre quercie sulla cima di monte Serano si distinguevano i rami, scritti sull’azzurro. I binarii lucidi e i terrapieni della via ferrata s’annodavano, si scioglievano, filavano via con un’eleganza di nastri bianchi e argento tra il verde: piccolo gioco in un piccolissimo spazio dentro quell’immensità luminosa ed ariosa della valle, dei monti, del cielo. La nevrastenia di Mingozzo, le cicche del capufficio, le minaccie dei quattro ferrovieri: giochi anche più piccoli, da bambini. Ed io, un poveruomo impaziente che ogni mattina si proponeva di guardare molto e credere poco, e ogni sera si pentiva d’aver poco guardato e troppo creduto. Roncucci, un guardiasala del mio paese che prima della guerra viaggiava sui treni e, adesso che è mutilato a una mano, è stato lasciato in stazione, s’offrì d’andare fino al deposito delle locomotive a cercar di Nestore. Per cento metri lo accompagnai, poi mi sedetti su uno sgabellaccio di legno dietro una capanna di venti tavole che una pianta di campanule avvolgeva fino alle rugginose lamiere che le facevano da tetto: e tornai a guardare i binarii e i monti e il sereno. Che vogliono insomma questi rivoluzionari e questi comunisti? Si riesce a spiegarlo chiamandoli tutti ladri e tutti banditi e, quando capita, assassini? Avevo sotto i miei occhi il campione del mondo, secondo il loro ideale: quei pochi metri o chilometri, divisi, tagliati, limitati, ordinati [p. 159 modifica]da verghe d’acciaio su ghiaja nuda. Tutta la terra, essi o almeno i migliori di essi vorrebbero tagliare, spianare, limitare così, regolando così, di qua e non di là, in giù e non in su, all’ora tale e non alla talaltra, il cammino e la vita d’ognuno. Quest’ordine sognano, in fondo al martirio di questo caos. E la Macchina sarebbe dio. E gli uomini macchine, ferrovieri, meccanici, tessili, tutti gli operai delle grandi officine, sarebbero i suoi sacerdoti, i più simili a lei, i più simili a Dio: gli unti del Signore, cioè della Macchina. Essi la toccano, la conoscono, la rispettano, la mansuefanno; e come già i sacerdoti delle religioni defunte curavano la produzione degl’idoli e delle immagini sacre, essi la riproducono all’infinito, cioè, di fatto, la creano. E appena l’hanno creata, ci credono e l’adorano. La dea Macchina è misurata e calcolata a millimetro. Il padre suo è il Numero. Le professioni che più si avvicineranno ai numeri, saranno in questo avvenire promesso o minacciato le professioni sovrane: ingegneri, geometri, ragionieri, agenti delle tasse: e dopo loro gl’impiegati a ore fisse, i burocrati a regolamento. La dea Macchina è indifferente al proprio lavoro. E chi anche in questo più le assomiglierà, dovrà essere di tutti i cittadini il meglio remunerato. I paria saranno coloro che s’ostineranno ad amare quello che non può essere meccanicamente riprodotto in serie; coloro che si vantano d’avere un’intelligenza diversa dall’intelligenza anche del loro padre, fratello o compagno; coloro insomma che cercano e si dilettano solo nella diversità: [p. 160 modifica]me da te, una foglia da una foglia, una goccia da un’altra, e in una goccia un mondo. Poeti, innamorati, artisti: e aggiungerei noi medici, se anche i fedeli della nuova religione non avessero paura della morte, e perciò bisogno di noi, e perciò rispetto di noi. La dea Macchina non ha paura della morte. Gli uomini, sì. Ma non verrà proprio da questo la loro salvezza, dalla paura cioè di soffrire e di morire? Vidi tornare lungo il binario, dal lontano capannone delle locomotive, il povero Roncucci che con la destra si reggeva contro il petto la mano mutilata e l’avambraccio fiaccato come portasse un bambino addormentato. La guerra, in fondo, non aveva voluto ridurre anch’essa gli uomini irreggimentati e numerati a projettili, a leve, a catapulte? Non aveva dunque ajutato il sorgere del nuovo mito, l’avvento della nuova divinità? Roncucci m’annunciò che macchinisti e fuochisti dentro quel loro nero capannone a basilica erano raccolti a discutere su non so che elezione, sciopero o protesta; e Nestore in quel momento arringava i compagni. Ma appena egli si fosse taciuto, un compagno gli avrebbe annunciato che io lo aspettavo. Roncucci entrò nella barracchetta e preso un altro sgabello mi si sedette vicino. Aveva scomodato un gatto bianco, grasso come una palla, e il gatto dopo due sbadigli gli saltò in grembo, s’aggomitolò e si riaddormentò. Egli lo accarezzava col guantone logoro in cui teneva chiuso quel po’ che gli restava della sua mano sinistra: — Lo sa, dottore, che questo gatto si chiama Spia? [p. 161 modifica]Una notte fu spiombato laggiù un carro colmo di tessuti di seta. I ladri lo vuotarono con comodo, richiudendo gli sportelli e anche risuggellando coi piombi gli spaghi di chiusura. Ma mentre lavoravano, questo gatto capriccioso saltò nel vagone, si nascose in un angolo e ci si lasciò rinchiudere. Alla mattina cominciò disperato a miagolare, ricordando che a quell’ora si riapre il ristorante e nella spazzatura si trova sempre qualcosa da far colazione. Miagola e miagola, si radunò gente. Fu chiamato il capostazione di servizio. Più il gatto sentiva gente di fuori, più gridava. Il capostazione fece aprire il carro. Il gatto guizzò fuori d’un salto, e alla folla non restò da ammirare che il carro vuoto. Per una volta tanto le indagini della questura riuscirono bene. Furono arrestati anche un manovale e un facchino. E a questa povera bestia restò il nome di Spia. Non sono tempi pei galantuomini. Perchè anche al buon Roncucci mutilato andava tutto male. Raccontava le sue pene con voce pacata, carezzando il suo gatto: e sorrideva col faccione rubicondo, coi chiari occhi turchini come se le pene fossero d’un altro. In fondo, a narrarmele e a udirsele uscir di bocca, gli pareva davvero di liberarsene. S’era dovuto iscrivere al sindacato rosso che erano andati a minacciargli anche la madre, di notte, a casa sua, col bastone alzato. Ma questo era niente. Quello che lo offendeva era quel ritornello d’abbasso la guerra, abbasso la guerra, abbasso la guerra, da parte di gente che per la maggior parte o [p. 162 modifica]non l’avevano fatta o avevano fatto finta di farla o peggio avevano finito con la guerra a mettersi le scarpe con lo scrocchio, i calzoni con la piega, il fazzoletto col profumo. Lui Roncucci ci aveva lasciato una mano, e proprio per questo non riusciva a maledirla la guerra. Diceva passando la mano sana sulla mano storpiata: – M’è costata troppo la guerra perchè adesso voglia buttarla al letamajo. – Concludeva sempre i suoi racconti con siffatte parole di saggezza, meditate, capivo, in lunghi silenzii; e quella saggezza che s’intonava tanto bene, quella mattina, alla serena veduta dei monti e del cielo, alla piccolezza e debolezza di noi due uomini rassegnati chiusi al centro di quella ferrea lucida rete dei binarii, non m’è da allora più uscita dalla memoria. Osservava ad esempio: – Io non l’ho voluta la guerra; ma quando l’ho dovuta fare, mi sono messo anche io a cantare e ad applaudire e a baciar le ragazze che mi regalavano i fiori e a gridar viva l’Italia e abbasso l’Austria, morte a Franz, viva Oberdàn. Capivo che sarebbe stata una cosa seria, ma che almeno noi soldati non potevamo fare a meno di farla. Mi ricordo che da ragazzo quando ebbi il tifo, lei, dottore, mi consolava dicendo che m’avrebbe purificato l’organismo e che caduti i capelli mi sarebbero tornati più folti. Ci potevo morire, ma intanto lei mi consolava. Così ho fatto per la guerra: peggio del tifo, ma mi sono consolato. E ce n’è volute di consolazioni per arrivare in fondo. Una notte in trincea ero così sfinito che non riuscivo nemmeno a [p. 163 modifica]dormire, e m’è venuto da piangere lì per terra, e sa che ho fatto per consolarmi? Mi sono messo a baciar la pietra su cui avevo poggiata la testa. E bacia e bacia, mi sono sentito meno solo. Eravamo tutti un po’ matti, certi giorni. La verità si è, lettore, che il dolore fa buoni i giovani e cattivi i vecchi. I più cattivi oggi sono quelli che non hanno sofferto: che avevano l’anima vecchia. Giungeva in quel punto la madre di lui e gli portava in una salvietta la scodella della colazione: patate in umido, una fetta di bollito, un quarto di pagnotta, una mela: tutto tagliato a tocchi e spicchi perchè egli aveva una mano sola libera e con la sinistra poteva solo tenere fermo il piatto. Mi spiegò che guadagnava anche lei una dozzina di lire al giorno lavorando in una fabbrica di scatole di cartone, ed era contenta perchè molto lavoro glielo lasciavano fare a casa. Ma contro i compagni che perseguitavano suo figlio, era furente: — Gliela rifanno loro la mano che ha perduta? Gliela levano loro la medaglia che s’è guadagnata? No. E allora lo rispettino. La guerra, la guerra. Hanno paura che torni la guerra. Ma nemmeno Cadorna la rivorrebbe una guerra adesso. E allora sono tutte chiacchiere da osteria. La guerra è finita: pace all’anima sua. Pensino a lavorare. Io l’ho detto anche al suo figliolo, dottore mio; e gli ho detto anche che un giorno o l’altro anche lui li pianterà tutti i suoi cari compagni e se ne andrà al suo casale di Poreta a lavarsi le mani e a fare il signore, chè, magari [p. 164 modifica]ce lo avessi io, non starei a incollare le scatole. Noi purtroppo s’ha da vivere accanto a questa canaglia. Ce n’è di buoni, lo so. C’è mio figlio, purtroppo, e mi basta per credere che di buoni ce ne sia molti. Ma c’è anche della canaglia, e tanta. L’altra sera lo sa che è accaduto quando partivano le reclute del 901? Un manovratore bolcevico, e non le dico il nome, è apparso in stazione con una medaglia di bronzo appuntata per disprezzo sulla schiena, in fondo alla giacca. E tutti i cari compagni intorno a ridere, a sganasciarsi dal ridere. A momenti l’applaudivano, quel farabutto d’un disertore. Ma mio figlio anche con una mano sola.... Tu mettiti a mangiare e sta zitto.... Mio figlio, con la mano che gli è rimasta buona, gli ha strappata quella medaglia rubata chi sa a chi, e se l’è messa in tasca. Crede che uno solo di quei vigliacchi abbia protestato? Zitti tutti, e tela. E adesso a casa di medaglie ce ne abbiamo due. E la seconda mio figlio se l’è meritata quanto la prima. Roncucci mangiava e rideva, e il gatto aspettando il piatto da leccare lo fissava immobile, le orecchie ritte, che pareva di gesso. Passò un treno sul binario a un metro da lui ed esso non si mosse d’un pelo. Appena fu passato il treno, vidi che macchinisti e fochisti uscivano in fretta dal loro capannone, e presto riconobbi Nestore tra i primi, che gesticolava. — Lecca presto, Spia. Se no, ti vedono, – disse Roncucci porgendo al gatto la scodella vuota. [p. 165 modifica]Quelli, laggiù, camminavano lenti gittando sulla ghiaja bianca le loro lunghe ombre nere che tagliavano per largo, a scacchi, i binari. Passarono alla larga, fingendo di non vedere nè Roncucci nè la madre. Il gatto li guardava, e d’un tratto si dette a correre verso la coda del gruppo e si fermò prudente a quattro o cinque metri da loro. Uno che era rimasto indietro come per caso, procedendo ciondoloni, l’aria distratta, le mani nelle tasche dei pantaloni, si volse a lui d’improvviso, gli sorrise e gli gittò una cartata d’ossi dietro un palo della luce elettrica. Roncucci che aveva veduto, m’avverti sottovoce: – Quello la pensa come me, ma ha paura e non osa sfogarsi che col gatto. Nestore m’aveva raggiunto, una giacca di tela azzurra bisunta sopra un maglione nero, e ci avviammo verso la stazione. Era lieto e sereno come sempre. Mi chiese della madre, m’annunciò che a fine di settimana sarebbe venuto a casa per due giorni. Io non volevo parlargli della mia nomina e della sua intrusione finchè non fossimo stati soli sul piazzale esterno. Eravamo appena entrati sotto la tettoja quando di corsa riapparve il gatto bianco. Non s’avvicinava ma ci fissava. Nestore lo guardò con la coda dell’occhio e, quando fu vicino alla ritirata, si scusò di lasciarmi un momento e v’entrò. Il gatto lo seguì e, con commozione di padre e soddisfazione di borghese, vidi che anche Nestore trasse di tasca un cartoccio per lui con ossa di pollo e bucce di formaggio e glielo depose delicatamente in un angolo e lo accarezzò affettuoso. [p. 166 modifica]Poi riuscì a testa alta, lanciando un’occhiata giro giro per vedere se nessuno l’aveva scoperto in quell’attimo di tradimento. — Andiamo, – mi disse. Ma quando fummo fuori sul piazzale all’ombra profumata degl’ippocastani ero così contento di lui che non osai dirgli niente. E s’andò a far colazione insieme, alla Locanda della Posta. Ordinai due porzioni di pollo e tenni gli ossi da parte, in un giornale, e alla fine glieli detti, ben ravvolti; — Questi, dalli a Spia. — Come sai? Mi misi sul naso l’indice della destra, sorridendo: — Zitto. E questo è stato il secondo amore di Nestore scoperto da me. E m’ha fatto più piacere del primo.