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pere della fruttiera, lasciando che mia moglie meditasse sul mio silenzio e finalmente ne concludesse che a me sembrava scorretto, se non addirittura disonesto, che i genitori s’occupassero degli amori, per quanto altolocati, del loro figliolo. La pera, più d’ogni altro frutto, m’induce in pensieri religiosi. Quel delicato profumo, dolce ma pulito e, da fuori, un poco asprigno; quella pelle lucida sdrucciola compatta, con qualche lentiggine, come d’una ragazza bionda accaldata dal pieno sole; quella polpa bianca quanto il fior del latte, soda che resiste al dente ma poi ti si disfa in bocca con un aroma nel cui dolce ritrovi l’amaro del fiore e l’acre della foglia; quella forma del frutto spaccato che è la forma d’un cuore: tanta bellezza, finezza, bontà può essere stata raccolta in tanto piccolo volume dal caso o, come si dice senza sapere quel che si dice, dalla natura? Un frutto, un bel frutto è il giojello della natura; e io capisco perchè gli antichi, più vicini di noi alla verità, abbiano offerto agli dei le primizie dei frutti più belli, più coloriti, più odorosi, e perchè i pittori e gli scultori della rinascenza in un cesto ai piedi del Bambino, in un festone sul capo della Madonna abbiano disposto più frutta che fiori. Essi restituivano a Dio l’emblema del più bel dono che egli aveva fatto loro: ai loro occhi, al loro olfatto, al loro gusto, alla loro salute. Assaporavo dunque, sulla punta della forchetta, facendolo prima brillare alla luce, l’ultimo spicchio della seconda pera, quando dalle finestre spalancate sulla sera estiva entrò il