Mio figlio ferroviere/V
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V.
GIORNI STORICI.
anzi, come dicevano i maligni, del banchetto fu infinita. Più se lo inventavano abbondante e costoso, più la mia casetta assumeva pei borghesi spaventati l’aria d’una nuova reggia, intendo della reggia pei nuovi re. E mia moglie si pavoneggiava, e Nestore dominava, e io ridevo. Quest’altro capitolo delle mie memorie sono stamane venuto a scriverlo nel mio podere di Poreta che è a due miglia dalla città. Quindici anni fa ho adattato due stanzette di questa casa colonica ad uso padronale. Ma mia moglie di rado v’è rimasta per più di due o tre giorni, al tempo della vendemmia. La casa resta isolata sopra un poggetto al margine della pianura (Poreta, dal latino porrecta) e, per trovare la domenica una chiesa e la messa, Giacinta aveva da fare più di due miglia a piedi, perchè il cavallo dovevo tenerlo io per le mie visite. Da questa finestra non vedo, per fortuna, che l’orto. Dico per fortuna perchè a me non piace essere umiliato e vuotato dalle vaste vedute e dagli sterminati orizzonti; e, per esempio, detesto il mare e non capisco che gusto provino tante migliaja di persone ad andarselo ogni estate beate a guardare, e a restar lì per settimane ad udire quel suo eterno russare di gigante dormiglione e buono a nulla. Di qui, ripeto, non vedo che l’orto perchè la finestra guarda a monte un vialetto erboso tra due siepi di rose d’ogni mese, con due cipressi neri al principio e due alla fine, proprio come nella vita poichè nascere è già morire un poco. Di là, i campi in pendìo, grano a destra, granturco a sinistra. Poi comincia la costa che sale alle cave di pietra, tutta d’olivi, tanto folti e tanto chiari che verso sera, a guardarli, hanno il colore stesso del cielo, più pallido. Ma appena mi sporgo dalla finestra, vedo il cielo vero più in alto oltre i monti turchini, e puro e bianco e fondo così che la terra sembra finire là dietro, in un precipizio: un piccolo mondo mio, insomma, del quale conosco ogni sentiero, ogni pietra, ogni albero, ogni essere, e che è ignoto ai più, anche ai miei amici. Margherita che, adesso vedova, è a capo della mia famigliola colonica, quindici o vent’anni fa era tanto bella e assomigliava tanto alla Madonna della Seggiola che (mi si perdoni l’irriverenza) gliene comprai per tre lire una grande oleografia e gliela feci appendere a capo del letto incorniciata da una bacchettina dorata. Avevo anch’io allora, si sa, quindici o vent’anni di meno. Ma, per la verità, Margherita ha sempre saputo onestamente distinguere tra i miei capricci d’uomo fragile e la mia austerità di padrone autorevole, così come, pur convenendo che proprio le assomigliava, non pensava a far confusioni tra sè stessa e la Madonna dipinta; che anzi ad ogni pasqua le appendeva sotto, pei lucignoli, due ceri nuovi e ogni sera in camicia, ci fosse o non ci fosse il marito, la venerava in ginocchio. Adesso, mentre scrivo. Margherita canticchia nell’orto dove viene scegliendo la verdura per la mia colazione improvvisata: Te vojo da’ un garofinu incarnatu: Vojo che lu tenete a modu mia. — Margherita.... — Padrone.... — Quando vieni su, portami due rose del viale. — Sono fioriti anche i malvoni. Non c’è ironia. I malvoni sono l’orgoglio di Margherita. Ne ha d’ogni tinta, rossi, rosa, bianchi, viola, d’una statura gigantesca, e d’inverno ne custodisce i semi in tanti sacchetti di vario colore per non confonderli e, appena s’alzano un palmo da terra, li sorregge con un bastoncello e, appena le formiche si provano a farne l’ascensione in fila indiana, ne unge il piede con acqua e petrolio. Ridi, lettore? T’ho detto la mia età, ma t’ho promesso di non nasconderti niente di quel che ti possa ajutare a conoscermi e a giudicarmi, anche male, se così ti piace, perchè sono un uomo come tu sei, se pure, quando mi leggerai, avrai su me morto la facile superiorità d’essere vivo. Devo dunque descriverti anche il luogo da dove ti preparo queste pagine, e lo stato d’animo in cui mi trovo per confidarti che quel famosissimo pranzo meglio mi convinse, tra il bene e il male che ci ha dato la guerra, un fatto intanto essere certo: che essa ha moltiplicato la vanità universale. Dall’agosto del 1914, la vanità ha attaccato tutto e tutti come un incendio, e gli sterpi hanno lanciato più fiamme degli alberi. D’un tratto, in pochi giorni o in poche settimane non c’è stato, credo, italiano che non si sia creduto degno d’un monumento in bronzo o d’un patrimonio di venti milioni, capace di capitanare la guerra o, a scelta, la rivoluzione. I più modesti s’accontentavano d’essere chiamati eroi. L’aggettivo eroico, a un certo punto ho creduto che si sarebbe adoperato negli indirizzi delle lettere, correntemente, come si scrive pregiatissimo o illustrissimo. Non c’era più nessuno che volesse fare da anonimo spettatore alla grandezza e al genio degli altri. – Tutti in prima linea, – si gridava nei comizii, e se là per là credetti che quel grido volesse dire nella linea dei fanti in trincea, primi davanti al nemico, presto capii che significava tutti alla ribalta. Chi applaudiva stasera, domani reclamava il suo turno per essere applaudito. Donne, uomini e ragazzi (esploratori). Prima ci fu la neutralità. E per la mostra c’era spazio in ogni villaggio su due palchi: quello degl’interventisti e quello dei neutralisti. Poi, l’intervento: e cominciarono i nastrini, bianchi, rossi, verdi, azzurri, e, nei militari, le promozioni e, nei borghesi, le cariche. Poi, i nuovi ricchi: l’automobile più grossa, l’amante o la moglie più ingiojellata, il palazzo più storico, il quadro più di Raffaello, i tacchi più alti, il confessore (a costo anche d’una rapida abjura) più rinomato, le camicie (per le donne) più corte. Poi, la beneficenza: presidenti e presidentesse, capolista nelle sottoscrizioni, concerti negli ospedali, bandiere e gagliardetti pei reggimenti, due o tre feriti in automobile fasciati di fresco e molto fasciati, balli pro mutilati alle gambe: uno chèque, insomma, con la firma ben visibile deposto ai piedi di Gesù crocifisso, anzi infilato allo stesso chiodo insanguinato che gli trapassa i piedi. Poi, le elezioni: comitati, discorsi, i nomi sui muri, il voto di preferenza. Io, io, io! Un principio di salvezza è stato più tardi l’agente delle tasse, incomparabile maestro di modestia. Sì, la vanità è stata sempre una legge fondamentale della vita umana più potente della fame e dell’amore. Gli stessi santi, per essere umili, hanno sperato sempre d’essere i più umili; e anche fra loro le medaglie d’argento hanno sempre un po’ sofferto di non essere medaglie d’oro, tanto che lo stesso Giobbe, nel fondo dell’umiliazione, gridava che a lui solo, a lui solo, Dio doveva ormai apparire e parlare senza veli. Se credessi negli spiriti, giurerei che le ombre dei morti sono le prime a rileggersi e a godersi ogni notte i loro veridici epitaffi, con eterna soddisfazione. Ma questa guerra che ci ha messi tutti a nudo, non avrei mai creduto che avesse da rivelare così brutalmente questo nostro scheletro di vanità, sotto le tante vesti del viver sociale e la tanta carne dei personali interessi. Per me, dopo i primi mesi, è stata un’ossessione. Vanità, vanità, vanità: la vedevo da per tutto, e i diavolini intorno ai quali la mia povera vecchia moglie ogni sera s’avvolge sulla fronte i capelli per ritrovarseli ricci l’indomani, a vedermeli così sul guanciale vicino, ogni notte, m’apparivano come l’emblema del mondo. Vanità, vanità. Anche l’amor di patria, questo volerla bella forte vasta giusta amata, e temuta per giunta, questo affannarci con tutti i sofismi e con tutti gl’inni a trasformarne i difetti in virtù, non è anche questo, povero me, vanità? Mi consolavo e mi consolo pensando che tra tutti i miraggi che ci fanno sospirare, penare ed agire, se proprio non volevo mettermi a ridere come un pazzo e così ridendo svanire, dovevo e devo pure, per via di ragione, provarmi a stabilire dei gradi di durata; e quei miraggi che illudono più uomini e durano più a lungo, sforzarmi a rispettarli e anche a venerarli, – la patria, la giustizia, Dio, la bellezza. Solo Margherita coi suoi occhi tondi, i suoi denti bianchi e la sua lenta parlata, e questo rifugio col viale di rose breve tra quattro cipressi, mi rasserenavano. Remoto ed ignoto, esso era fuori dei paragoni e contrasti della vanità. Ma a dire rifugio, si dice fuga. Dopo poche ore, così rasserenato, riprendevo coraggio e ridiscendevo in città, pur ammonendo me stesso: – Ora, in silenzio, tu te ne torni contento tra i tuoi simili per giudicarli. E anche questa è vanità. Ho detto della vanità ma non devo dimenticar la paura. Quando c’era la guerra, anche la paura si vestiva da coraggio, con tanto di pennacchio e di spadone, ovverosia fiamme e pugnale; ma allora, almeno noi vecchi rimasti quaggiù a casa, non avevamo il tempo d’andare a cercarla tra la folla, la voglia di smascherarla, chè di animi leali e di fegati sani ce n’erano molti in Italia: e s’è veduto. Ma dopo la guerra la proporzione si rovesciò, e su cento italiani che incontravi, novanta battevano i denti e tiravano a nascondersi: e chi aveva paura del fisco e chi dei ladri, chi della serva e chi del curato, chi degli scioperi e chi dei bottegaj, chi degli alleati e chi dei nemici, chi della guardia regia e chi dei comunisti, chi dei fascisti e chi dei carabinieri. Sul tricolore aveva stinto il verde: cominciando dal tricolore che nei giorni di festa, quando cioè i ministeri sono vuoti, sventola sui ministeri romani. I giorni gloriosi per questa paura sono stati, due anni fa, i giorni dei saccheggi al quali per cortesia ai gentili saccomanni la storia ha dato il nome legale di giorni delle requisizioni. Tornavo a piedi una mattina di luglio da un giro di visite di là dal torrente, quando a Porta Romana quelli del dazio m’annunciarono che a Fiori, un paesotto lontano da qui cinque miglia, la cui popolazione per l’apertura d’una cava di lignite lì vicino, s’era triplicata durante la guerra, erano state assaltate due osterie, la drogheria, qualche cascinale più ricco. Danni alle persone, dicevano, nessuno, salvo qualche bastonata che di questi tempi non conta; ma il vino, l’olio, i polli, i prosciutti, la farina, il formaggio, tutto era scomparso in un attimo ed era stato portato, dicevano, alla Camera del Lavoro, sano e salvo meno una coniglia che s’era messa a far figli per la strada: colpa sua. Capo ufficio del Dazio lì a Porta Romana è il povero Santi, malato di cuore; e sebbene egli avesse da temere saccheggi meno di chiunque altro, pure s’era messo fuori del suo ufficio accanto alla basculla, e terreo, gli occhi fuori dell’orbita, ordinava coram populo a uno dei dazieri di portare di corsa l’incasso della giornata su in Comune, e a un altro di volare a casa a dire alla signora Santi di non uscire, per carità di Dio. La gente l’ascoltava, e quelli più vicini sgranavano gli occhi e ripetevano le notizie a quelli più indietro, e questi partivano su per la via di Borgo e, abbottonandosi la giacca, prima sottovoce poi ad alta voce, annunciavano ai bottegaj i fatti di Fiori. Mentre salivo verso casa, non vidi così che padroni e garzoni affannati a sbarrare vetrine, porte e portoni. Perfino le erbivendole in piazza, diventate per miracolo silenziose, non badavano che ad ammainare le tende, a chiudere le ombrelle, a ricaricare sui carretti le ceste, in fretta e furia, come se la rivoluzione volesse divorare solo fagioli e peperoni. In dieci minuti non si vide più sulla piazza deserta che un mucchio d’uova rotte precipitate in quel tramestio giù da una cesta, e ci s’era conficcata in cima la canna col cartellino benedetto “10 lire la dozzina”. Feci notare a un ciabattino, all’angolo di via della Posta, che era un peccato lasciar cuocere quella frittata al sole; e quello chiamò la moglie e in due travasarono dentro un pajolo le uova rotte e le uova crude, e se lo portarono a casa uno per parte, beati, così che ebbero il vanto d’essere stati i primi a “requisire”. Ma tanta era la paura che, di quanti col cuore in gola, dalle finestre e dagli usci socchiusi, avevano spiato quel fuggifuggi, nessuno osò imitare il ciabattino, salvo tre cani che arditamente si misero a leccare con metodo quanto restò della preziosa poltiglia. Anche le guardie comunali erano sparite. Ma la meraviglia più viva m’aspettava a casa mia perchè, invece di fermarmi qui a studio, pensai di salire al primo piano per avvertire Giacinta, e la trovai in piedi nella stanza da pranzo, le maniche rimboccate, tra una ventina di prosciutti e una ventina di galline le quali giacevano sul pavimento, le zampe legate a mazzo, e speravano di fuggire strisciando il gozzo e allungando il collo una da una parte una dall’altra, più matte e spaventate, se era possibile, degli uomini loro concittadini. Prima ancóra che riuscissi a sapere il perchè di quell’invasione di suini morti e di pollame vivo, apparve Teta, la nostra serva, cuoca e cameriera, che portava sulle braccia quattro grandi barattoli di vetro colmi, mi parve, di marmellata con la loro gialla cuffia di pergamena; e che recava intorno al collo, legati per la coda, due davanti e due di dietro, quattro salami di montagna dalla pelle ormai color d’argento tanto erano vecchi e prelibati. Tutta roba che alla prima occhiata non mi parve di casa mia. Giacinta, spettinata, le maniche rimboccate, la faccia lustra di sudore, appena mi vide, dette un calcio a due prosciutti che scivolavano giù dalla catasta, mi corse incontro, mi pose le due mani sulle spalle, m’intimò: – Zitto! – e mi spinse nel salotto dove, appena ebbe richiusa con cura la porta, m’annunciò trionfante: – Roba del sindaco. Dovetti fare una faccia più balorda di quella delle galline impastojate perchè Giacinta, pronta sempre ad aspettarsi il peggio dalla mia mediocre intelligenza, s’affrettò a spiegarmi: — Credi che sia roba rubata? L’ha mandata il sindaco, l’ha mandata la moglie del sindaco, supplicandomi di tenerla nascosta noi fino alla fine dei tumulti, – e si tolse dal seno una lettera con cui proprio la moglie del sindaco la supplicava, con ansiose parole, d’ajutarla in quel salvataggio: – Capirai. La casa di Nestore, lo sanno tutti che è sacra. Gli spiegai che a vederci entrare tutte quelle montagne di roba, sarebbe venuta la voglia a chiunque di venircisi a rifornire alla lesta. E mi meritai un altro sguardo di compassione: — Nessuno vede. Dovrei essere matta per compromettere Nestore così. Facciamo passare la roba dalla soffitta. Ho aperto la comunicazione con la Rosina. — Scusa. Ma, se ci fossi stato io, quando è venuta la lettera della moglie del sindaco, le avrei risposto di cercarsi un’altra casa per suo magazzino. Terzo sguardo di pietà: — Impossibile. Capisci! Impossibile. E non posso dirti altro. E nemmeno io, caro lettore, voglio dirti altro adesso per non interrompere il racconto, e per spiegarti súbito chi è Rosina. Rosina è una sarta, la più elegante sarta, dicono, di questa nobile città, e ora deve essere sui cinquanta. Ha vissuto a Roma fin verso i trenta, e allora era bruna. Adesso è bionda e ha il suo laboratorio in via San Biagio, come a dire alle spalle della nostra casa. Che tra le soffitte di lei e le nostre soffitte vi fosse un uscio di comunicazione sbarrato da secoli, lo sapevo, ma me l’ero giustamente dimenticato. Nè lì per lì mi parve straordinario che mia moglie, nata e vissuta in quella casa, se lo ricordasse meglio di me. — Che dirà Nestore se cápita a casa? Quarto sguardo di misericordia, senza parole, chè mia moglie mi voltò le spalle e tornò al suo lavoro, e io discesi nel mio studio. Fino all’ora di colazione udii al primo piano e giù per le scale un gran traffico e lo scalpiccìo di Giacinta e di Teta che passavano cariche di grasce, di barattoli e di scatole. A colazione la sala da pranzo era vuota, ma tutto esalava un così denso odore di pizzicheria che sentivo sapore di formaggio anche nel caffè. — La moglie del sindaco come ha saputo dei fatti di Fiori? — L’ha telefonato il sottoprefetto al sindaco. Al sottoprefetto glielo avevano telefonato i carabinieri di Fiori. — Ha mandato rinforzi, che tu sappia? — Li tiene per la città, per quando scoppieranno i tumulti in città. — Sa che scoppieranno? — C’è riunione alla Camera del Lavoro. — Come lo sai? — Filiberti ha mandato qui un gran pacco di carte suggellato. L’ho chiuso in soffitta nella cassa con la canfora, dove tengo gli abiti d’inverno. Possono accader cose grosse, anche la rivoluzione. Pare che ci sia un’intesa sicura, anche fuori d’Italia. E se scoppia la reazione.... — Ho capito. Il sindaco borghese ci manda i prosciutti, il segretario della Camera del Lavoro ci manda le carte. La rivoluzione ha paura della reazione e del carcere; la reazione ha paura della rivoluzione e del saccheggio. Giacinta, io non m’occupo di politica, lo sai. Ma dai retta a me: non succederà niente. Tutti hanno troppa paura. — A Fiori non hanno avuto paura. — Voi donne avete la fortuna di procedere per assoluti. Invece anche la paura è relativa. Chi per un momento ha meno paura di quanta no ha l’avversario, ha più coraggio di lui. E basta che l’avversario, spingi spingi, si faccia un poco di coraggio, perchè la paura torni a quell’altro. Fanno l’altalena. Ma l’importante sarebbe non aver mai paura e andare fino in fondo. Solo allora si ha la rivoluzione, o si ha la reazione. Noi s’ha lo sbadiglio. Noi si vive di sbadigli, come gli anemici. — Non ti mettere a parlare difficile che mi gira la testa. — Hai ragione. Quanti prosciutti hai in casa? — Ventiquattro del sindaco, dodici del conte Zacchei.... — Anche lui? — Colpa della sarta. La contessa era lì a provarsi i vestiti pei bagni. Ha veduto, e quella non s’è tenuta. Aspetta.... Otto del curato qui di San Biagio.... — Al curato poi avrei detto di nasconderseli in chiesa. — Gliel’ho detto anche io. Non ha i suoi confessionali? Non ha le sue tombe che sono fresche come cantine? Voleva mandarmi trenta prosciutti. Li ho rifiutati. Poi ne ho accettati otto perchè non stesse a chiacchierare. Sai come sono i preti. Ma di galline non ho accettate che quelle del sindaco. Le galline si sentono, le galline sporcano, tutto. Volevo dir: – Donne.... –, ma chi sa dove si sarebbe andati a finire, e nei giorni di sicura rivoluzione è bene mantenersi calmi. Preferii arrivare in farmacia a trovare notizie. Tutto pareva tranquillo anche perchè faceva un gran caldo e qualcuno annunciava che nel pomeriggio pel fresco si sarebbero riaperti i negozii. Gli animi si rassicuravano. Dieci carabinieri erano partiti in autocarro per Fiori perchè ormai tutto v’era tornato tranquillo. Anche si diffuse la voce che il sottoprefetto era andato a fare la siesta. A immaginarsi l’autorità in una dolce penombra, supina sul letto, in maniche di camicia, cullata dal ritmo del proprio russare, la piccola città tornò a guardare con fede al domani. Verso le cinque infatti, quando riuscii a vedere i miei malati, trovai riaperti anche i caffè. Mi rammento che proprio in quel pomeriggio mi capitò di visitare per l’ennesima volta un povero tisico che viveva con una sorella maggiore in un quarto piano su via della Maestà, di fianco al duomo. Quella sorella non aveva menato una vita da santa in gioventù; nè giuro che fosse anche allora un modello di castità, con quelle sopracciglia nere folte folte, i capelli lucidi come unti, le narici aperte come due froge, due sbaffi di nerofumo sotto gli occhi, e un repugnante profumo di pacciuli che è il profumo dei poveri e che, da quando studente entravo in sala d’anatomia, m’è sempre sembrato un odore di carni in decomposizione. Pure ad assistere quel gemente scheletro di suo fratello era così attenta, delicata, devota che pareva aver raccolto lì, d’istinto, la sua maternità mancata. E poichè io non la vedevo che in funzione d’infermiera, non sapevo che parlarle con rispetto e quasi con umiltà, tanto mi riconoscevo impotente a soccorrerla nell’ ostinata speranza di vedere suo fratello guarito. Da dieci giorni nessuna emottisi; appena qualche linea di febbre verso sera. Per la millesima volta quei due vedevano la fata della guarigione apparir loro sulla soglia, apparire loro fuor dallo specchio in cui il malato spiava la sua miseria e la sua illusione, apparir loro dal cielo di quelle due finestrelle dove la sorella aveva disposto una vera siepe d’erbe aromatiche, timo, maggiorana, camomilla, basilico, rosmarino, reseda, perchè l’aria giungesse alla bocca del condannato pura, credeva, e profumata. D’un tratto verso mezzodì la febbre era salita a 39 e capii súbito perchè. — Dottore, la rivoluzione! È vero che è scoppiata la rivoluzione? I grandi occhi gli scintillavano di speranza, rideva, convulso, tutti i denti bianchi fuor dalla barba nera, e mi lanciava gesti sconnessi a braccia spalancate, battendo le palme l’una contro l’altra e poi sui lenzuoli e poi sugli stecchi delle braccia, con una gioja infantile: — La rivoluzione! La rivoluzione! Io e la sorella cercavamo di quietarlo, una mano sulla fronte, l’altra al polso. Tutto il corpo fino ai piedi gli sussultava sotto le coperte, tutto il lettuccio di ferro era scosso da quella follia: — La rivoluzione! La rivoluzione! – E mi chiedeva notizie e non riusciva ad ascoltarle. Pareva che dovesse guarire con la rivoluzione; pareva che si trattasse della sua salvezza e della sua vendetta; pareva che solo ad immaginare, chi sa, rivi di sangue e mucchi di scannati e tregende di rivoltosi contro la società che gli aveva negato la forza, la salute, l’amore, la ricchezza, egli impazzisse di gaudio. — Ma mi dica la verità! So che a Fiori è scoppiata. So che qui scoppia oggi. Perchè me lo vuole nascondere? – e dette un ultimo guizzo e ricadde sul guanciale, le due mani alla gola, come soffocato. Avemmo appena il tempo d’alzargli la testa. Un catino di sangue egli ci empì, e poi ricadde supino, le palpebre gialle traperte sui globi degli occhi che continuavano a sussultare. Credetti che ci restasse. Dopo un’ora si riebbe, ci chiamò, ci sorrise. Un altro pensiero gli passò pel capo. Parlò sottovoce alla sorella. Diceva: – Al dottore si può dir tutto. Il dottore non parla. – Quella mi guardava dubbiosa, cercando di nascondere il suo dubbio dietro un sorriso. Dovette acconsentire. Dal fondo d’un cassetto trasse un involto, l’aprì sul letto, ai piedi del fratello. Tre orologi d’oro, due catene d’oro, una trentina di monete d’oro, austriache. Gliele aveva confidate nell’autunno del 1916 un loro cugino soldato di fanteria sul Carso, ravvolte in una pezza da piedi. Poi era ripartito, e al tempo di Caporetto era scomparso. Oramai si poteva dir morto. Quel tesoretto rubato a rischio della vita, forse sui cadaveri dei nemici, era loro, era del malato, era la ricchezza su cui egli contava appena fosse guarito. — Se ci saranno trambusti, – mi spiegava con un filo di voce, – non si sa mai, può andare perduto. Lo tenga lei, dottore, ce lo custodisca lei. E a rassicurarlo che nessuno avrebbe pensato a lui e al suo oro, s’angosciava perchè sperava e credeva nella violenta improvvisa confisca dell’oro di tutti.... Ma era solo quell’agonizzante a sragionare così? Venivo giù verso piazza quando udii il primo clamore dei tumulti, e m’investì una frotta di seminaristi che correva a gambe levate, verso il duomo vicino e il vicino seminario, una mano sul cappello, una sul ventre ad alzare la veste. Due li trovai, più furbi, dietro l’angolo del palazzo Benedetti, che cercavano di nascondere sotto l’abito talare un pajo di bottiglie di cognac e che, quando mi videro, arrossirono, mi sorrisero ebeti, con l’aria d’assicurarmi: – È uno scherzo..., – e via ricominciarono a correre dietro i compagni, nel polverone. Era stato assalito il magazzino della drogheria Schiantelli, e vi trovai davanti un carretto e una fila di donne, di giovanotti, di ragazzi col bracciale rosso, che si passavano barattoli, balle, bottiglie, da dentro il magazzino fino al carro. Sul collare del cavallo avevano conficcata una bandierina rossa. Un capo, a gambe aperte sull’alto del carro, ordinava serio: – Lasciate il caffè, prendete lo zucchero e i liquori. – M’avvicinai. Qualcuno mi riconobbe: – Lo vede, dottore, quanto ben di Dio! E ci fanno pagare venti lire un chilo di zucchero. Porteremo tutto alla Camera del Lavoro. E i prezzi li faremo noi. – Qualche bottiglia di rum e di cognac s’era rotta e l’afrore inebbriava la folla sudata. Qualche donna, fuor dalla fila, supplicava cogli occhi lucidi e le mani tese: – Dammene una bottiglia a me, una sola.... – E l’uomo sul carro, serio e regale, gliela porgeva: – Tieni, vecchia! Abbasso gli affamatori! All’angolo tra il Corso e via Guidi un altro manipolo aveva rotto le vetrine agli sporti della sartoria Maestrini, e lì il saccheggio correva più disordinato. Giù dagli scaffali e dai banchi le pezze di panno, di seta, di raso e i rotoli di nastri e di merletti erano stati gittati in mezzo al negozio, fin sulla strada, s’erano svolti e aggrovigliati e la folla v’incespicava frugando, tirando, liticando. In fondo, il proprietario alzava le braccia, gridava, invocava ajuto, protestava: – Io sono suddito svizzero. Ricorrerò al mio governo. – Maestrini svizzero? In quarant’anni chi l’aveva mai saputo? Nella lotta aveva perduta una manica della sua giacca di lustrina nera, e scandiva solenne i gesti con un braccio bianco e uno nero, come un semaforo. Un monello era salito, come su per una scala, da un piano all’altro d’uno scaffale e da lassù rovesciava rotoli, involti, scatole. Una, se ne capovolse grandinando bottoni sulla testa della folla e del padrone. E il monello in alto a ridere, come avesse lanciato coriandoli. Per le straducce vicine già s’incontravano donne e donnette in fuga con quel po’ di bottino che avevano potuto acciuffare: una ragazzina bionda e scalza si stringeva al petto un pacco di ricamucci a macchina, e ogni tanto sostava a guardarli come, fossero stati merletti di Venezia; due beghine curve cercavano di nascondere alla meglio dentro un giornale uno scampolo di raso celeste macchiato d’inchiostro e si ripetevano desolate: – Gesummaria, ma come sì sarà macchiato così, Gesummaria? Ma il più bello spettacolo m’aspettava dietro casa mia, sulla piazza di San Biagio, davanti alla chiesa. Anche lì, un carretto e i bracciali rossi. Uno di questi, che affitta e ripara biciclette in una botteguccia accanto al Municipio, mi chiamò da lontano: – Venga, dottore, venga a vedere. Corra! – Lo seguii, in chiesa. Con una dozzina di compagni suoi quello aveva alzato tre lapidi terragne e dai loculi cavavano su scarpe: scarpe d’ogni forma, dai sandali pei bambini agli stivaloni da caccia, scarpe in scatole, scarpe legate a mazzi pei tiranti. Si udiva dal fondo del sepolcro una voce: – Scarpini da signora, – e volavano su scarpini che ti parevano lanciati dal piede d’una ballerina. Saranno state per lo meno due o trecento paja di scarpe. Ve n’erano ormai sui banchi, sugli altari, sulla scaletta del pulpito. E il biciclettajo, in testa un berretto ornato da uno smalto blu della Fiat, al braccio la fascia rossa della Camera del Lavoro, mi spiegava: – Il canonico Terzetti è curato qui di San Biagio. I capitali per aprire il calzaturificio sul Corso, l’ha dati lui. Lei capisce. Ma ce n’è anche, pare, d’altri due o tre canonici. — Ma voi come l’avete saputo? — Come l’ho saputo, dottore? Lo chieda a Nestore. Nella chiesa non c’era nemmeno un chierico. Al momento dell’invasione, il curato, il cappellano, il sacrestano s’erano rifugiati in sacrestia, vi s’erano barricati spingendo contro la porta l’armadio; e adesso s’udivano solo dei sospiri su dalla grata d’un coretto in fondo alla navata, sopra il cornicione. Intanto cominciava ad accorrere gente; e quelli col bracciale rosso erano pochi per parare alle mani tese verso tutta quella, come si suol dire, grazia di Dio. Più che salvare la merce, a loro premeva che dilagasse lo scandalo, con tanto di scarpe per prova. E in breve fu una ressa confusa, a spintoni, a grida, a risate. Mi trovai accanto Teta la mia cuoca, che si stringeva al petto due scarpette di coppale fiammanti, con un alto fiocco da Re Sole. — Anche tu? — Ho sentito dalla cucina tutto questo baccano e sono scesa a vedere che cos’era. — Ma questo è prendere, non è vedere. — Signor padrone, se non le prendevo io, le prendeva un’altra. — Hai scelta la tua misura, almeno? – le chiesi indulgente, che sommando ipoteticamente la capacità delle due scarpette si sarebbe sì e no trovato spazio per una sola delle piote della mia vecchia Teta. — A occhio, credo che mi vadano, – e rideva. Tutti erano giulivi, e le facce sudate di quelli che sgusciavano via con la preda, e le voci di quelli giù nelle tombe. Lavoravano al lume dei ceri sfilati dai candelieri degli altari. Una sartina più delicata, tirandosi il gonnellino più su del ginocchio e scoprendo fino in cima le sue calze di seta, si chinò sulla tomba e ammonì: — Non sgocciolate di cera le scarpe gialle. Le rovinate tutte. E quello da dentro: — Più su. — Che cosa? — La gonnella. Più su! E lui rideva, in tomba. E quella bionda con una gran chioma ravviata a turbante secondo la moda, rideva sgambettando via e dimenticandosi di lasciar ricadere la gonnella. Mi tornò in mente la risata del deputato quella sera in casa mia. Bastonate, sì, revolverate, imprecazioni e fischii. Ma in fondo, quando si poteva, tutti, da Nestore alla sartina, la volevano fare allegramente la rivoluzione, e volevano che i borghesi si ritrovassero nudi nudi ridendo della burla a vedersi così buffi, senza nemmeno la camicia, nel bel mezzo della strada. Una gran burla, da ragazzi in vacanza. Un po’ crudeli come tutti i ragazzi; ma ragazzi. Leggeroni, spensierati, capiscarichi, questi italiani, cioè, purtroppo, questi ragazzi: con la convinzione che al momento buono interverranno i genitori. Chi? Magari Lenin col pelliccione d’astracan. Evviva Lenin! “Bono taliano”: un ragazzo. Il fatto si è che alla Camera del Lavoro erano giunti la mattina prestissimo quelli di Fiori a descrivere i saccheggi di laggiù, o requisizioni che dir si voglia, e la loro facilità, a patto d’essere lesti e sfacciati, e i profitti. Offrivano la loro esperienza ed audacia. Vedendo che tutti i negozii si chiudevano, s’era pensato di differire l’assalto ai giorni successivi; ma i più frettolosi ed astuti s’erano dati a spargere la voce che niente sarebbe accaduto, che la Camera del Lavoro aveva anzi condannato per selvaggi i fatti di Fiori. E i bottegaj, accorati di perdere il piccolo guadagno della giornata, avevano cominciato a riaprire, come ho detto. Allora piccole schiere dietro quattro o cinque capi s’erano divisa la città e dato convegno, nelle ore più calde e deserte, o fuori delle mura o in vicoli fuori mano. E alle quattro in punto avevano cominciato, ognuno nel suo raggio, a lavorare. I carabinieri erano partiti per Fiori, le guardie comunali favorevoli o indifferenti, la truppa in quartiere, che il sottoprefetto poveruomo non l’avrebbe mossa senza un telegramma preciso da Roma; e magari, sul consiglio della moglie e delle figliole, avrebbe chiesto che, per prudenza, quel fiero telegramma glielo ribattessero parola per parola. Ore e ore, insomma, di libertà. Ma non avevano contato sul vino. Calcolando che i requisitori d’ogni età e sesso, avessero cominciato a bere vino borghese, cognac di pescicani, grappa di tiranni sulle quattro pomeridiane, alle otto e alle nove di sera eran tutti fracidi, a terra. A questo non avevano pensato nè il prefetto nè la Camera del Lavoro. Così quando alle 22 il sottoprefetto decifrò da sè il telegramma con cui Sua Eccellenza il sottosegretario di Stato agl’Interni gli permetteva di fare uscire “con le dovute precauzioni” la truppa, e s’accordò col colonnello dei bersaglieri che da due ore stava sbadigliando e fumando lì in prefettura senza che la prefettessa gli avesse offerto altro che un cicorioso caffè, e quattro autocarri uscirono dalla caserma, con una mitragliatrice e dieci uomini in ciascun carro, il rombare degli autocarri era (mi si perdoni l’iperbole) superato dal ronfare di quelli che dormivano, magari per strada, la testa sopra un paracarro. Vegliavano solo i saccheggiati, e quelli che ancóra temevano d’esserlo, e quelli che nelle case si consigliavano sul modo più provvido per nascondere l’insperato bottino. Gli autocarri rientrarono verso mezzanotte. Ma la città restò sorvegliata da pattuglioni di quattro uomini e un graduato. All’aurora queste misure rassicuranti erano così note a tutti i cittadini che i requisitori ridesti pensarono bene d’andare a visitare la campagna e le ville senza scomodarsi ad andare troppo lontano, perchè di luglio, nonostante l’ora legale, alle dieci il caldo è già fastidioso. Alle dieci, avvertiti dai primi messaggeri dei nuovi saccheggi fuori dalle mura, mentre i requisitori già si separavano e alla spicciolata rientravano in città per riposarsi all’ombra, uscirono puntualmente dalla porta i detti quattro autocarri di bersaglieri. Sarebbe stato il caso di ricominciare in città il lavoro di semplificazione delle vendite e di stabilire definitivamente, magari con un concordato in prefettura, questo turno o avvicendamento tra liberi requisitori e truppa, così che non s’incontrassero e non s’urtassero mai, come nelle quadriglie dei balli diplomatici. Ma anche qui a sconvolgere tutti i piani e tutte le ipotesi capitò l’Imprevisto: quello che una volta si chiamava il Caso e che adesso, in questi tempi di pura filosofia, si chiama l’Imponderabile. La guerra ci ha insegnato a rispettare la sua alta sovranità. I Comandi preparavano un’azione? L’aziono riusciva male? La colpa era sempre degli elementi imponderabili: il nemico più forte di quel che s’era calcolato, i nostri più deboli di quel che s’era preveduto, le munizioni troppo scarse rispetto alle necessità improvvise, il terreno più difficile di quel che era segnato sulle carte, e poi la pioggia inattesa, la nebbia vagante, la luna velata. Fino al 1914, l’uomo lavorava lavorava a restringere il Caso nel suo cantuccio, a mozzargli le ali, a impastojarlo, ad ammanettarlo, ad ammutolirlo, a soffocarlo. Lo si trattava come un pazzo e come un nemico dell’ordine e della civiltà. Dalla guerra in qua, il Caso s’è riscatenato. Nei calcoli delle probabilità (se c’è ancora qualche professore o qualche impiegato che perda tempo a farne) prima all’Imponderabile caso era lasciato, mettiamo, il dieci per cento; adesso, il novanta. Andate a pranzo: forse non trovate da mangiare. Vi mettete in treno: forse si ferma in aperta campagna. Aspettate al solito cantone, il solito tranvai: forse c’è sciopero. Andate a pagare le solite tasse: forse sono il doppio dell’ultimo bimestre. Guardate l’orologio: forse finisce l’ora legale, forse ricomincia l’ora solare. Impostate una lettera: forse è meglio affidarsi alla telepatia. E da voi umile e anonimo cittadino, su su fino al governo del Re, tutti alla mercè dell’Imponderabile. L’impreveduto, nei fatti speciali che vengo, lettor mio, ricordando, fu che i locali della Camera del Lavoro erano troppo angusti per contenere tanto bottino. Olio, scarpe, vino, tabacco, prosciutti, sete, polli, liquori, merletti, grano, conigli, farina, baccalà, camicie, occupavano ormai anche la stanzetta del segretario, dal pavimento al soffitto, tanto che non si riusciva più ad aprire le finestre per mettere fuori la bandiera rossa, e si dovette chiedere a due dei pompieri iscritti di salire (vestiti in borghese) sopra una scala perchè il simbolo della libertà, con la falce e col martello inghirlandati nel modo che sapete, potesse sventolare da lassù tra gli evviva. Ma ancóra questo era prevedibile. Il peggio si fu che, senza avvertire il sottoprefetto, i carabinieri tornati da Fiori cominciarono le perquisizioni. Tre piccole perquisizioni in tutto; lo si seppe poi. Ma la minaccia spaventò borghesi e proletarii a tal punto che il sottoprefetto ordinò al capitano dei carabinieri di sottoporgli la lista delle case e degl’inquilini che voleva perquisire, prima di perquisirli. Il giorno dopo, a veder passare nella città tranquillissima quei quattro fragorosi autocarri coi bersaglieri traballoni e le mitragliatrici incappucciate, i più reazionarii cominciarono ad osservare che si sciupava la benzina. E gli autocarri tornarono in caserma. Ormai i dieci o dodici negozianti saccheggiati speravano di riavere un po’ del loro dalla Camera del Lavoro; e con qualche mancia sottomano, infatti lo ritrovavano e, computando il perduto, s’adattavano a rifarsi aumentando i prezzi di quel che avevano salvato e di quel che avrebbero recuperato. I più dei “consumatori” s’illudevano che una buona lezione a quelli esosi poteva essere stata di pratico giovamento. E tutti si facevano un coraggio proporzionato alla paura altrui. Le conclusioni, per me, memorabili furono queste: che all’aurora dell’altro giorno s’arricchirono gli spazzini comunali perchè ad ogni angolo di strada trovarono abbandonati furtivamente, durante la notte, dai rapinatori più spaventati, tutto quel che vollero, dalle suddette scarpe ai polli sullodati, e solo s’adirarono a vedere pozze di vino e d’olio versato per dispetto sul selciato; che le uova salirono d’un balzo a lire 18 la dozzina e, anche a quel prezzo, beato chi le trovò; che solo la farmacia del Corso vendette in un giorno quarantadue purganti d’ogni calibro, mentre normalmente ne vende, sì e no, cinque nelle ventiquattr’ore. E per l’ultima conclusione vado a capo perchè riguarda casa mia. Di giorno in giorno, tornata la pace, tutti quelli che sotto la sovrana egida del socialismo del mio Nestore vi avevano accumulato grasce e tesori, vennero cautamente a riprenderseli. Ma tutti per gratitudine vollero lasciare a Giacinta un dono o, come si dice volgarmente, una tangente. E i doni, paragonati alla modestia della nostra vita, furono tanti che di capponi ne avemmo fino a Natale, e il prosciutto che stamane Teta m’ha servito per colazione, viene ancóra da uno dei prosciutti guadagnati in quei giorni. Che dici, lettore? Che non avrei dovuto mangiarli? Ma non erano essi un legittimo dono dei loro legittimi proprietarii? E questi proprietarii li avevo io invitati a nascondere a casa mia le loro salate ricchezze? A me, come premio di salvataggio, sarebbe bastato lo spettacolo della loro paura. Dunque non mi rimproverare. E se hai almeno l’ombra della filosofia ricordati di che è fatto uno stoico. È stoico colui che, riconosciuta la vanità di tutto, s’accomoda al proprio destino cercando di trarne un partito ragionevole. Io sarei uno stoico. Perchè mi biasimi? Sii italiano, ed imitami.