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Fiori, un paesotto lontano da qui cinque miglia, la cui popolazione per l’apertura d’una cava di lignite lì vicino, s’era triplicata durante la guerra, erano state assaltate due osterie, la drogheria, qualche cascinale più ricco. Danni alle persone, dicevano, nessuno, salvo qualche bastonata che di questi tempi non conta; ma il vino, l’olio, i polli, i prosciutti, la farina, il formaggio, tutto era scomparso in un attimo ed era stato portato, dicevano, alla Camera del Lavoro, sano e salvo meno una coniglia che s’era messa a far figli per la strada: colpa sua. Capo ufficio del Dazio lì a Porta Romana è il povero Santi, malato di cuore; e sebbene egli avesse da temere saccheggi meno di chiunque altro, pure s’era messo fuori del suo ufficio accanto alla basculla, e terreo, gli occhi fuori dell’orbita, ordinava coram populo a uno dei dazieri di portare di corsa l’incasso della giornata su in Comune, e a un altro di volare a casa a dire alla signora Santi di non uscire, per carità di Dio. La gente l’ascoltava, e quelli più vicini sgranavano gli occhi e ripetevano le notizie a quelli più indietro, e questi partivano su per la via di Borgo e, abbottonandosi la giacca, prima sottovoce poi ad alta voce, annunciavano ai bottegaj i fatti di Fiori. Mentre salivo verso casa, non vidi così che padroni e garzoni affannati a sbarrare vetrine, porte e portoni. Perfino le erbivendole in piazza, diventate per miracolo silenziose, non badavano che ad ammainare le tende, a chiudere le ombrelle, a ricaricare sui carretti le ceste, in fretta e furia, come se la rivoluzione