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avrai su me morto la facile superiorità d’essere vivo. Devo dunque descriverti anche il luogo da dove ti preparo queste pagine, e lo stato d’animo in cui mi trovo per confidarti che quel famosissimo pranzo meglio mi convinse, tra il bene e il male che ci ha dato la guerra, un fatto intanto essere certo: che essa ha moltiplicato la vanità universale. Dall’agosto del 1914, la vanità ha attaccato tutto e tutti come un incendio, e gli sterpi hanno lanciato più fiamme degli alberi. D’un tratto, in pochi giorni o in poche settimane non c’è stato, credo, italiano che non si sia creduto degno d’un monumento in bronzo o d’un patrimonio di venti milioni, capace di capitanare la guerra o, a scelta, la rivoluzione. I più modesti s’accontentavano d’essere chiamati eroi. L’aggettivo eroico, a un certo punto ho creduto che si sarebbe adoperato negli indirizzi delle lettere, correntemente, come si scrive pregiatissimo o illustrissimo. Non c’era più nessuno che volesse fare da anonimo spettatore alla grandezza e al genio degli altri. – Tutti in prima linea, – si gridava nei comizii, e se là per là credetti che quel grido volesse dire nella linea dei fanti in trincea, primi davanti al nemico, presto capii che significava tutti alla ribalta. Chi applaudiva stasera, domani reclamava il suo turno per essere applaudito. Donne, uomini e ragazzi (esploratori). Prima ci fu la neutralità. E per la mostra c’era spazio in ogni villaggio su due palchi: quello degl’interventisti e quello dei neutralisti.