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magari con un concordato in prefettura, questo turno o avvicendamento tra liberi requisitori e truppa, così che non s’incontrassero e non s’urtassero mai, come nelle quadriglie dei balli diplomatici. Ma anche qui a sconvolgere tutti i piani e tutte le ipotesi capitò l’Imprevisto: quello che una volta si chiamava il Caso e che adesso, in questi tempi di pura filosofia, si chiama l’Imponderabile. La guerra ci ha insegnato a rispettare la sua alta sovranità. I Comandi preparavano un’azione? L’aziono riusciva male? La colpa era sempre degli elementi imponderabili: il nemico più forte di quel che s’era calcolato, i nostri più deboli di quel che s’era preveduto, le munizioni troppo scarse rispetto alle necessità improvvise, il terreno più difficile di quel che era segnato sulle carte, e poi la pioggia inattesa, la nebbia vagante, la luna velata. Fino al 1914, l’uomo lavorava lavorava a restringere il Caso nel suo cantuccio, a mozzargli le ali, a impastojarlo, ad ammanettarlo, ad ammutolirlo, a soffocarlo. Lo si trattava come un pazzo e come un nemico dell’ordine e della civiltà. Dalla guerra in qua, il Caso s’è riscatenato. Nei calcoli delle probabilità (se c’è ancora qualche professore o qualche impiegato che perda tempo a farne) prima all’Imponderabile caso era lasciato, mettiamo, il dieci per cento; adesso, il novanta. Andate a pranzo: forse non trovate da mangiare. Vi mettete in treno: forse si ferma in aperta campagna. Aspettate al solito cantone, il solito tranvai: forse c’è sciopero. Andate a pagare le