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compromettere Nestore così. Facciamo passare la roba dalla soffitta. Ho aperto la comunicazione con la Rosina. — Scusa. Ma, se ci fossi stato io, quando è venuta la lettera della moglie del sindaco, le avrei risposto di cercarsi un’altra casa per suo magazzino. Terzo sguardo di pietà: — Impossibile. Capisci! Impossibile. E non posso dirti altro. E nemmeno io, caro lettore, voglio dirti altro adesso per non interrompere il racconto, e per spiegarti súbito chi è Rosina. Rosina è una sarta, la più elegante sarta, dicono, di questa nobile città, e ora deve essere sui cinquanta. Ha vissuto a Roma fin verso i trenta, e allora era bruna. Adesso è bionda e ha il suo laboratorio in via San Biagio, come a dire alle spalle della nostra casa. Che tra le soffitte di lei e le nostre soffitte vi fosse un uscio di comunicazione sbarrato da secoli, lo sapevo, ma me l’ero giustamente dimenticato. Nè lì per lì mi parve straordinario che mia moglie, nata e vissuta in quella casa, se lo ricordasse meglio di me. — Che dirà Nestore se cápita a casa? Quarto sguardo di misericordia, senza parole, chè mia moglie mi voltò le spalle e tornò al suo lavoro, e io discesi nel mio studio. Fino all’ora di colazione udii al primo piano e giù per le scale un gran traffico e lo scalpiccìo di Giacinta e di Teta che passavano cariche di grasce, di barattoli e di scatole. A colazione la sala da pranzo era vuota, ma tutto esalava un così