Memorie di un pulcino (1918)/Sono rubato!

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Notizie di alcuni miei parenti Sono venduto!
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XI.

Sono rubato!


Trascorse alcun tempo, durante il quale ebbi a patire mille persecuzioni dal micio, che non lasciava sfuggire nessuna occasione per darmi addosso e per tormentarmi.

Fortuna che il canino per lo più prendeva le mie difese; ma che cosa succedeva? Spesso spesso, l’uno per cattiveria e l’altro per troppo zelo, mi tiravano di qua e di là, e restavo indolenzito per parecchio tempo; quando potevo, procuravo di star vicino alla signora o al signorino, ma anch’essi avevano da sbrigar le loro faccende; o andavan fuori, o ricevevano visite, o lavoravano; e in que’ casi, capirete bene, la presenza del povero pulcino sarebbe stata inopportuna.

Che cosa facevo allora? Mi rifugiavo in qualche cantuccio solitario, o me la passeggiavo nel giardino (lontano dalle vasche, s’intende) in balìa de’ miei tristi pensieri.

Di vitto stavo benone, grazie alle premure di Alberto, il quale, per dire il vero, non mi trascurò un sol momento, e mantenne scrupolosamente le promesse fatte alla mia povera padroncina.

Intanto avevo cessato d’esser pulcino; chè i miei tre mesi gli avevo passati d’un pezzetto, e m’ero fatto grandicello, svelto e pieno di disinvoltura.

C’era anche un’altra novità. Non ero più solo. [p. 94 modifica]Si avvicinava a gran passi il Natale, e tutti i conoscenti del signor Angelo avevano fatto a gara chi a mandargli una coppia di piccioni, chi una bella pollastra da farsi lessa, altri un paio di capponi, e ci fu anche chi mandò più d’uno smilzo gallettino dalla cresta prepotente.

Sarebbero stati di gran bei giorni quelli, se la paura della morte non avesse angustiato il cuore dei miei sventurati compagni. Poveretti! Strappati a viva forza dalle loro famiglie e gettati là a caso presso persone sconosciute, erano proprio degni di compassione.

Uno specialmente, un capponcello giovanino a cui il signor Alberto avea posto nome Cocò, mi commoveva non poco per il suo aspetto triste e pensieroso.

Si vedeva subito che quel poveretto doveva aver sofferto molto. Nè m’ingannavo.

Poi c’era un galletto, il quale aveva sempre il capo al chiasso; buon figliuolo, però, veh! Con le sue barzellette, e ne trovava ogni momento delle nuove, ci teneva allegri tutti, e spess’e volentieri, poteva vantarsi di far sorridere anche il malinconico Cocò.

Di morire non ne parlava mai, e se qualcuno lo costringeva a metter fuori il suo parere su tal proposito, rispondeva ridendo:

— Morire presto o tardi bisogna; gli è un debituccio che in tutti i modi dobbiamo pagare, e non siamo soli, sapete? Chè anche gli uomini, con tutta la loro superbia, ci hanno a stridere anche loro. Anzi noi, siamo giusti, non si patisce mica dimolto! Una tiratina di collo e via. Mentre gli uomini, poveracci, sono condotti alla morte da certe malattie il più [p. 95 modifica]delle volte lunghe lunghe, che durano degli anni; c’è chi ha male al petto, chi al capo, chi alle braccia, chi alle gambe, per fino a’ denti. A noi, bisogna convenirne, il buon Dio ce l’ha risparmiate queste malinconie, e per lo più arriviamo alla famosa allungatura di collo, sani e freschi come pesci.

Eppoi ce n’è un’altra: gli uomini, quando son morti, puzzano che mai, e son buttati a marcire nè più nè meno come i ciuchi e i cani. Noi altri invece siamo ripuliti, lavati e cotti con ogni cura, e portati in tavola in mezzo a brave salse e a bottiglie piene di vin buono.

― Sì! ma ci mangiano! — esclamò melanconicamente un piccione secco allampanato, a cui era morta pochi giorni avanti la moglie.

― Ci mangiano? ― proseguì allegramente il gallettino ― meglio così! Segno che siam buoni a qualcosa anche dopo morti, e questo è un privilegio di cui gli uomini almeno non si possono vantare. Ma anzi, guarda, dico male; anche loro sono mangiati.

― E da chi?

― Da’ bachi; sissignore, da’ bachi. Ora, sia detto qui fra noi, mi pare molto meglio essere sgranocchiati da’ bianchi dentini d’un bel fanciullo, che da quelle schifose bestiacce. Eppoi ne dimenticavo un’altra: quanti poveri malati si sentono riavere e guariscono, dopo aver preso delle belle chicchere di brodo buono!

E questo brodo, sono i nostri corpicini messi in pentola, che lo fanno sì buono e sostanzioso. Sentite veh, quando con la mia morte potessi allungare i giorni d’una povera vecchiarella o procurare un [p. 96 modifica]po’ di sollievo a un malato, sento che morirei volentieri anche subito.

― Benone; questi sentimenti ti fanno onore! ― esclamò Cocò ― ma se invece la tua morte dovesse servire a soddisfar la gola, dico la gola, d’un mascalzone qualunque, moriresti con la stessa rassegnazione?

― No di certo, ma mi farei coraggio e penserei che per detto e fatto mio, il mascalzone passerebbe un bel quarto d’ora. Scusa; o che non è una bella cosa far del bene a tutti, anche a chi non se lo merita?

― Gran buon figliuolo! ― esclamò Cocò intenerito; ― se tu sapessi il bene che mi fanno le tue parole! È la prima volta, dopo le mie dolorose vicende, che trovo qualche conforto nelle parole dei miei simili.

― O bravo via! Ho proprio caro di averti sollevato un po’ lo spirito. Amici miei; ― seguitò l’allegro galletto, rivolgendosi agli astanti ― la mia ultima padrona era una donna grassa e fresca come una rosa; non aveva un pensiero al mondo, e se qualcuno le parlava di morire, rispondeva queste precise parole che ho tenuto sempre a mente, e delle quali v’esorto a far tesoro: «Io della morte non ho paura, perchè finchè ci sono io, non viene lei; e quando viene lei, vo via io.»

Una spontanea risata accolse le liete parole, e per quel giorno il buon umore regnò da sovrano nella pennuta conversazione.

Ma per il povero Cocò quelli erano lampi d’ilarità; lampi e nulla più. Il povero Cocò aveva un gran peso sul cuore; e se stava allegro un minuto o [p. 97 modifica]due, ripiombava dopo in una tristezza a mille doppi più intensa. Una sera, mi ricorderò sempre di quella sera, mancavano pochi giorni a Natale, e in casa c’era stato tutto il dì un gran via vai di gente.

Pioveva dirottamente, e tutti i miei compagni se ne stavano mogi mogi, i più grassi aspettando la morte e gli altri ripensando alla cara famigliuola, da cui sì bruscamente erano stati divisi.

Il povero Cocò era più serio che mai. Invano il gallettino brioso aveva tentato di avvivar la conversazione, invano anch’io m’ero provato a far rider la brigata col racconto di qualche giuccheria; erano fatiche inutili.

Finalmente Cocò, non so se commosso della nostra caritatevole intenzione, ovvero incapace di tener più a lungo chiuso in cuore il tristo segreto della sua mestizia, si decise a raccontarci i suoi casi. Gli facemmo cerchio, ed egli dopo essersi asciugate le lacrime, che fitte fitte gli cascavan sul becco, cominciò così:

― Amici miei, pochi mesi sono io era il più felice pulcino che vivesse sulla faccia della terra. Avevo una mamma e una sorellina che mi adoravano. Dei primi miei padroni non ho alcuna idea, perchè quando fummo regalati al sor Biagio io contavo pochi giorni di vita.

Questo sor Biagio, a quanto pareva allora, era una buona pasta d’uomo; faceva l’avvocato, un certo mestiere, a quello che ho sentito dire, in cui gli uomini s’hanno a sgolar delle ore intere per difendere i ladri, gli assassini e altre personcine simili. Questa era una cosa incoraggiante, perchè se il sor [p. 98 modifica]Biagio metteva tanto calore a difender que’ cattivoni, come avrebbe potuto far del male a dei polli innocenti? Non vi pare?

Approvammo col capo.

― Del resto, ― continuò il cappone ― era un uomo pacifico e puntuale quanto mai; alle sue ore si levava, alle sue ore tornava a casa, e non c’era caso che sgarrasse mai un minuto.

La Caterina, così si chiamava la serva, non faceva altro che lodarsene, del suo padrone.

Sfido io a far diversamente! Chi si sarebbe mai aspettato che sotto quel faccione di luna piena e sotto que’ modi giovialoni si nascondesse un cor di macigno?

Il sor Biagio ci voleva bene a tutt’e tre, ma la sua prediletta era la mamma, e più che ci si avvicinava alla primavera e per conseguenza al giorno di Pasqua, le attenzioni che l’avvocato aveva per lei erano tali e tante, che alla mia sorellina ed a me parevano perfino un po’ esagerate; figuratevi che per la mamma non si trattava più di mangiar crusca pan molle; quella era roba per noi; a lei la Caterina, per ordine del sor Biagio, s’intende, dava delle brave cucchiaiate di riso cotto nel latte! a lei noci, a lei mandorle; anzi, ve lo devo dire o no?

Ve lo dirò, affinchè conosciate meglio la perfida dissimulazione di lui.

La mamma, incoraggiata da quelle moine, si attentava a beccargli fin sulla bocca il pinòlo che l’avvocato le porgeva stretto fra i labbri; e l’innocente gallina non dubitava, neanche per ombra, che sotto tali smorfie ci covasse un mistero. [p. 99 modifica]

Intanto, ecco sopraggiungere la notte della vigilia di Pasqua, notte lieta per tutti i buoni cristiani, ma per le galline funesta, atroce, orribilissima notte!

L’avvocato, avanti d’andare a letto, col suo berretto bianco in capo, le pantofole in piedi e seguìto dalla Caterina, che teneva la lucernina in mano, si avvicinò alla stia dove stavamo tutt’e tre, non pensando mai e poi mai, a quel che doveva succedere lì per lì.

La mamma e la sorella dormivano saporitamente; io ne facevo le viste, e benchè tenessi il capo nell’ala, vedevo tutto benone. L’avvocato aprì la stia adagio adagio, agguantò la mamma che di nulla sospettava, e presala per il collo, la strangolò per colpa.... d’averla trovata troppo grassa.

Avvocato traditore! Se la grassezza era delitto, da quanto tempo non avresti dovuto essere strangolato anche te! Io fremevo; la mia sorella, povera innocente, seguitava a dormire.

Ma quando la mattina all’alba si destò, e contemplò lo spettacolo della madre priva del decoro delle penne e attaccata alla rastrelliera de’ piatti, fu lì lì per isvenirsi, fu per buttarsi nel fuoco (fortuna che a quell’ora era spento) fu per mettersi in ginocchioni davanti al gatto di casa e dirgli:

— Tu che mi hai desiderato tante volte invano, pigliami ora che è il momento. —

Ma pensando poi che il gatto non se lo sarebbe fatto ridir due volte, e sospettandolo anche reo della strage materna, mi disse tremando:

― Lascia che torni la Caterina, e vedrai se mi riuscirà di dirle le mie ragioni. ― [p. 100 modifica]

Non ebbi cuore di disingannarla, non potei dirle che la scellerata serva col far lume al padrone s’era resa complice dell’assassinio; e seguitai a piangere sommessamente.

Ecco intanto la Caterina; sapete quel che fece? Diè di piglio ad un coltello, sbuzzò la povera morta, e parte delle viscere buttò al gatto, che aggrappato alla sottana di lei non faceva altro che miagolare, e parte ne ripose dentro la madia. E poi, quasi che lo strazio non fosse bastante, la lacerò con ben cento ferite, e ne’ buchi ficcò pezzetti di prosciutto e frondicelle di ramerino.

— Ho capito tutto ora; mi sussurrò all’orecchio la povera sorella — la Caterina, astiosa del bene che il padrone voleva alla nostra infelice mamma, l’ha ammazzata lei; lascia che venga il sor Biagio e vedrai. —

Ero per risponderle e trarla così dall’errore in cui miseramente era caduta, allorchè l’avvocato entrò in cucina. Non inorridì, non pianse, non si scagliò contro la serva, ma prese uno spiedo, trapassò la già prediletta gallina, e accomodatala con alquante foglie di salvia, l’espose, senza tanti discorsi, a’ tizzi ardenti del focolare.

Io rimasi come fulminato; tanta raffinatezza di crudeltà non l’avrei mai immaginata. La mia sorella, poverina, perse il lume degli occhi e aperte le ali, le scosse alquanto, e poi, tirati gli ultimi tratti, spirò. L’avvocato, chinatosi a terra, vi raccolse un cada vere, e sportolo verso la Caterina, esclamò:

— È morta di morte violenta; dunque è sana; la mangeremo domani rifatta co’ piselli. — [p. 101 modifica]

Io svenni.

Il cappone tacque come sopraffatto da quelle memorie dolorose.

Nessuno s’arrischiava a dirgli nulla, temendo d’inasprir maggiormente quell’anima sventurata.

Ma il gallettino brioso, che sarebbe piuttosto morto anzichè starsene zitto, si avvicinò con aria amichevole a Cocò, e già apriva il becco per porgergli Dio sa che razza di condoglianze, allorchè alcuni passi risuonarono sulla ghiaia del giardino. I padroni non erano di certo, chè, a quell’ora se ne stavano conversando allegramente accanto al fuoco; i servitori neppure, poichè stavano preparando il pranzo; o dunque?

Ci stringemmo impauriti l’uno accanto all’altro, ascoltando con ansietà i passi de’ notturni visitatori, che sempre più si approssimavano. A un tratto alcune ruvide mani aprirono violentemente il pollaio, e io stava già per urlare con quanto fiato avevo in gola, allorchè un chiarore vivissimo come di fiamma ci percosse la vista, riempiendoci d’altissima meraviglia.

Le medesime mani profittarono di quel momento, e agguantati cinque prigionieri, con sorprendente destrezza sparirono di nuovo nell’oscurità del giardino. Lettori e lettrici, sospendete un pochino la lettura, tirate fuori la pezzolina da naso e mettetevi a piangere.

I notturni visitatori eran ladri.

Il chiarore che ci aveva abbagliati lo avevano acceso apposta per farci stare zitti.... e fra que’ prigionieri rubati c’era anche Cocò e.... l’amico vostro.