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Non ebbi cuore di disingannarla, non potei dirle che la scellerata serva col far lume al padrone s’era resa complice dell’assassinio; e seguitai a piangere sommessamente.

Ecco intanto la Caterina; sapete quel che fece? Diè di piglio ad un coltello, sbuzzò la povera morta, e parte delle viscere buttò al gatto, che aggrappato alla sottana di lei non faceva altro che miagolare, e parte ne ripose dentro la madia. E poi, quasi che lo strazio non fosse bastante, la lacerò con ben cento ferite, e ne’ buchi ficcò pezzetti di prosciutto e frondicelle di ramerino.

— Ho capito tutto ora; mi sussurrò all’orecchio la povera sorella — la Caterina, astiosa del bene che il padrone voleva alla nostra infelice mamma, l’ha ammazzata lei; lascia che venga il sor Biagio e vedrai. —

Ero per risponderle e trarla così dall’errore in cui miseramente era caduta, allorchè l’avvocato entrò in cucina. Non inorridì, non pianse, non si scagliò contro la serva, ma prese uno spiedo, trapassò la già prediletta gallina, e accomodatala con alquante foglie di salvia, l’espose, senza tanti discorsi, a’ tizzi ardenti del focolare.

Io rimasi come fulminato; tanta raffinatezza di crudeltà non l’avrei mai immaginata. La mia sorella, poverina, perse il lume degli occhi e aperte le ali, le scosse alquanto, e poi, tirati gli ultimi tratti, spirò. L’avvocato, chinatosi a terra, vi raccolse un cada vere, e sportolo verso la Caterina, esclamò:

— È morta di morte violenta; dunque è sana; la mangeremo domani rifatta co’ piselli. —