Memorie di un pulcino (1918)/Il galletto della Lena
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II.
Il galletto della Lena.
E prima di tutto, due parole sulla famiglia dei contadini presso la quale io nacqui, fui allevato e trascorsi i giorni più lieti della mia giovinezza.
Essa componevasi di quattro persone solamente: la massaia, il suo marito, la Mariuccia e il signor Giampaolo, fratello del marito, e per conseguenza zio della padroncina. Di esso ho già fatto cenno qui innanzi. Parlerò dunque degli altri tre.
La massaia, ossia la Tonia, come tutti la chiamavano, era una donnona su’ quaranti’anni, grassoccia, ben portante e tutta pace. Nessuno si ricordava d’averla mai vista montare in furia; anzi, una volta che un gatto forestiero (in casa, grazie a Dio, di quegli animalacci non se ne vedevano) le rubò un bel pezzo di carne dalla pentola, invece di rincorrerlo o di sfogarsi a mandargli delle imprecazioni, si strinse nelle spalle dicendo:
— Povera bestia, chi sa che fame gli avrà avuto!
— E finì lì.
Anche Geppino, il suo marito, era una buona pasta d’uomo; ma lui, una faccenda simile non l’avrebbe presa in santa pace; chè, se si deve dir la verità, buono era, ma stizzoso la su’ parte.
La Marietta poi, oh che cara fanciullina!
Ohi la voleva vedere, era sempre accanto alla mamma ad aiutarla nelle faccende di casa; in certe ore andava a scuola, e quando tornava, o si baloccava con la bambola, oppure, se il tempo lo permetteva, veniva nel campo a divertirsi con noialtri pulcini; io, come dissi, ero il suo prediletto, e non c’era giorno in cui non mi regalasse qualche coserella: quando un pinolo, un po’ di pane o un seme.
Ed era buona con tutti ugualmente; se picchiava alla porta qualche poverello, si sarebbe levato il pan di bocca per non lo rimandar via scontento: e spesso e volentieri l’ho vista divider la sua merendina con delle povere bambine, che non avevano da sdigiunarsi.
Le cose, come vedete, ragazzi miei, non potevano andar di meglio; ero in mezzo a bonissima gente, che mi voleva tutto il suo bene; non mi mancava nulla, ed io poteva chiamarmi addirittura il più felice tra i pulcini.
E buon per me, se mi fossi sempre contentato di quella vita, e mi fossi mantenuto buono e obbediente! Lo ripeto: ho avuto moltissimi dispiaceri, ma devo però convenire che la maggior parte me li son procacciati da me medesimo, con le mie imprudenze. Una mattina, per dirvene una, venne nel podere una vecchierella tutta vestita da festa con un fagOttino da una mano e un galletto vivo da quell’altra; cercò della Tonia, e appena l’ebbe scorta da lontano, le andò incontro piangendo.
— Oh nonna, — disse la massaia — che miracolo è egli questo? che siete venuta a mangiare un boccone con noi! Ma vo’ piangete.... per carità, ditemi quel che v’è successo.
— Figliuola mia, — rispose la vecchina, asciugandosi gli occhi con la còcca del grembiule — i’ ho ch’i’ son venuta a dirti addio...,
— Come! o dove andate?
— A S.... dalla mi’ figliuola maritata. Ohe volete? Da quando quella benedetta ragazza la si accasò, i’ rimasi sola come un cane in quella po’ di casuccia che mi lasciò il mi’ povero Lucantonio buon’anima. Non dico, delle persone perbene e’ ce n’è sempre, e tutti, per consolarmi, mi facevan tuttavia una gran festa: «Lena, qua; Lena, là; Lena, venite da noi....» Oh per questo non mi posso lamentare, ma io, Tenia, vo’ lo sapete, non sono mai stata una donna da girandolar per le case degli altri. M’è sempre piaciuto di starmene a me, a casa mia, con la famiglia. Questa volta, però, non mi ci sono potuta adattare. La sera ero avvezza a lavorucchiare insieme a quella figliuola, che sempre ne trovava delle nuove per farmi stare allegra; alle dieci si diceva il rosario e a letto. L’era una gran bella vita!
— Ve lo credo, povera Lena!
— E dacché la Teresina andò a marito e mi lasciò sola, non ho avuto più un momento di bene. In quella casa non mi ci potevo più vedere. Mangiavo un boccone tanto per non lasciarmi rifinire, ma la malinconia mi rodeva; ero sempre a piangere. A dirla in poche parole, sapete quel che feci?
Oggi a otto scrissi alla mi’ figliuola e al su’ marito; raccontai ogni cosa, e loro, poveretti, indovinate quel che mi hanno risposto: «Venite subito da noi, mamma, dove si mangia due si mangia tre.» E io, Tonia, non me lo son fatto ridir due volte.
— Avete fatto bene, Lena, — disse la massaia tutta intenerita. — E della vostra casetta che ne fate voi?
— Sentite, per dire, il vero i’ la volevo vendere: ma mi davano una miseria; poche centinaia di lire e basta. Ecco quel che ho fatto! La Bita, la moglie del campanaio morto, non aveva da pagar la pigione, e ieri la venne a pianger da me per sentire se le prestavo qualche quattrino tanto per dare un acconto al padron di casa. Povera donna! mezza malata, con quattro creature piccine, era una gran passione a sentirla singhiozzare a quel modo. I’ gli dissi: «Sentite, Bita, io di quattrini non mi posso spropriare, nè di roba; quel po’ di vezzo di corallo lo detti alla Teresina quando fu sposa; non mi resta che questa casuccia; s’ i’ fossi ricca e senza figliuoli ve la potrei regalare; ma anch’io, pur troppo, non ho nulla da buttar via: però, finchè campo io, fate conto che la casa sia vostra; tornateci co’ vostri figliuoli e non pensate più a guai. Ricordatevi di pagar le tasse al Municipio; e poi, se avrete qualche quattrinello d’avanzo me lo darete, e se no, per ora ne farò a meno.» —
Quanto, bambini miei, quanto in quel momento mi dispiacque di non essere che un povero pulcino! Chi sa quel che avrei dato per avere un paio di braccia come avete voi! E sapete quel che avrei voluto farne delle braccia? Buttarle al collo di quella buona vecchina.
Anche la Tonia era commossa; si vedeva dai suoi occhioni lustri lustri.
— E nella casa dunque....
— C’è tornata la Bita co’ suoi figliuoli, — rispose sospirando la Lena. — E glie l’ho raccomandata, sapete? E’ ci son nati tutti i mi’ ragazzi, ci è morta la mi’ socera, il mi’ marito.... Ma che ora è, il sole gli è tant’alto?
— Mezzogiorno in punto, Lena; e si scodella la minestra.... venite via a degnare....
— Grazie, i’ ho fatto tardi; la diligenza parte a mezzogiorno e mezzo, e di qui al borgo c’è un bel pezzetto. State bene, Tonia: a voi, scusate l’ardire: vi ho portato pochi metri di lino, filato da me, perchè vo’ ne facciate du’ camicie alla Maria. Datele un bacio per me, e voi godetevi questo gallettino per amor mio; fatelo arrosto per Ceppo. —
E la Lena, dopo avere abbracciata e baciata la mi’ padrona, prese la via de’ campi.
L’infelice galletto a cui era riserbata una sorte si lacrimevole, appena la Tonia gli ebbe sciolte le gambe state fin allora strette in un legacciolo, era andato ad accoccolarsi dietro un albero, e dava certe occhiate all’intorno tutt’altro che liete.
Scommetto io, che se avesse potuto beccar gli occhi della Lena, se ne sarebbe ingegnato.
Rimasi solo con lui.
Sulle prime e’ teneva il suo posto, e pareva risoluto di star sulle sue; ma io invece d’impermalirmi o di fare altrettanto, lo compativo. Povera bestia! Era stato per più d’un’ora col capo all’ingiù e con le gambe imprigionate in un pezzetto di spago; non sapeva a qual fine la sua padrona gli faceva prender quella posizione affatto nuova per lui, e mentre si lambiccava il cervello per veder di capirci qualcosa, si sente posare improvvisamente a terra e, cosa più terribile ancora, ode l’annunzio della futura sua strage.
Domando io se queste le non son cose da fare stare in pena, e se il galletto non aveva mille ragioni di pensare a’ casi suoi.
Peraltro, mi stava a cuore di fargli coraggio, e di dirgli che ove si fosse fatto benvolere dalla padrona e anco dalla padroncina, le cose male male non si sarebbero messe; il più stava in lui; finalmente a quel benedetto giorno di Ceppo c’erano almeno due mesi e mezzo, e in due mesi e mezzo c’è da saper mai quel che può succedere?
Cominciai dunque dall’andargli dintorno, dal pigolare nel modo più garbato che mi fosse possibile, e dal dimandargli se si sentiva disposto a fare una giratina nel podere.
Con mia grande sorpresa accettò, ed io m’affrettai a buttar fuori certe paroline affettuose, che riuscirono graditissime.
Allorchè si fu riavuto ed ebbe fatta una buona colazione, lo portai dalla mamma e da’ miei fratellini; quest’ultimi gli fecero molta festa, lo invitarono a visitare il pollaio, e uno di essi stava per cedergli perfino una bella farfalla acchiappata in quel momento, allorchè la povera bestiuola, colto il destro, riuscì a riprendere il volo con evidente stizza del galletto, il quale la seguì a lungo co’ suoi occhietti maliziosi.
Chi rimase fredda e sostenuta fu la mamma. Fece assai pulitamente gli onori di casa, ma con una
cert’aria che diceva chiaramente all’ospite: «Lei non mi va’punto a genio.» Io ci pativo, perché alla fine il galletto ce lo avevo portato io nel pollaio, e mi dispiaceva di fare una brutta figura.In quel mentre tornò da scuola la Manetta, e dopo aver posata la cartella in casa, corse subito da noi per vedere il nuovo arrivato di cui sua madre le aveva certamente fatto parola.
— Dov’è, — gridava saltellando — dov’è il galletto forestiero? Qua, ch’io lo veda! —
Un ragazzetto che stava lì a far erba, glielo accennò, ed ella subito si chinò per pigliarlo in collo; ma il galletto, non so se stizzito dalla fredda accoglienza di mia madre, o perchè forse non era avvezzo a quei modi cortesi, invece di lasciarsi prendere, fuggì via come un razzo, dopo averle beccato ben bene la mano.
— Cattivo vero! — esclamò la Maria con le lacrime agli occhi, — devi aspettare ch’io ti ripigli.... Già io non voglio altri che il mio pulcino obbediente, carino, buono! —
Quantunque quegli elogi fossero fatti piuttosto con l’idea d’indispettire il galletto, che di far piacere a me, ne restai però contento, e corsi incontro alla padroncina che mi prese in mano, mi baciò replicatamente e mi portò in camera sua.
Lì, si divertiva quasi tutti i giorni a mettermi davanti ad una certa lastra di vetro, nella quale vedevo un altro pulcino che mi somigliava tutto, e che, da quel grullerello ch’egli era, mi faceva sempre il verso.
Io, sul primo, mi ci arrabbiavo e dimolto; ma la Marietta rideva a più non posso, dicendomi che la pigliavo con me medesimo, e che quell’altro pulcino ero io, proprio io. Ci capite voi nulla, bambini miei?
Io vi confesso di no, e non sono ancora riuscito a persuadermi che io potessi essere un altro e che quest’altro, per conseguenza, potesse esser me.
Sicuro, la Marietta che leggeva tanti libri con le figure, avrebbe potuto spiegarmi un po’ più chiaramente la cosa, ma la bricconcella si contentava di ridere e d’accarezzarmi, persuasa che tutto ciò fosse una spiegazione sufficiente.
Anche quel giorno mi toccò a stare a guardare per tre o quattro minuti quello sfaceiatello di pulcino e poi, siccome si faceva buio e la mamma ci chiamava, la padroncina mi riportò giù, dopo avermi augurato mille volte la buona notte.
Non tardammo a raccoglierci tutti sotto le ali della mamma.
Il galletto era stato messo nel pollaio, e anch’egli, appollaiatosi su un bastoncello, se la dormì tranquillamente.