Lirica (Ariosto)/Egloghe/I. - Descrive il vivo stupore e dolore...
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I
Descrive il vivo stupore e dolore suscitato dalla scoperta della congiura ordita da don Giulio e da don Ferrante d’Este contro Alfonso e Ippolito (maggio 1506).
Interlocutori: Tirsi e Melibeo
tirsi
Dove vai, Melibeo, dove sì ratto,
or che da’ paschi erbosi alle fresche onde
col gregge anelo ogni pastor s’è tratto;
or che non pur crolar vedi una fronde,
5or che ’l verde ramarro all’ombra molle
de la spinosa sepe si nasconde?
Non odi che risuona il piano e il colle
del canto de la stridula cicada?
non senti che la terra e l’aria bolle?
melibeo
10Tirsi, qualor bisogna andar, si vada;
né si resti per caldo né per gelo,
né per pioggia né grandine che cada.
Anch’io saprei sotto l’ombroso velo
d’un olmo antico o d’un fronzuto faggio
15godermi sin che si temprasse il cielo;
ma piú che vinti miglia ho di viaggio,
e qui, prima che sia l’ora di aprire
alle lanose torme, a tornare aggio.
Mopso non longi mi dovria seguire;
20ch’ambi a condurre andiam pecore e boi
che Titiro a Fereo solea notrire.
tirsi
Comprili tu che gli abbiano esser tuoi?
o pur di Mopso? o pur altri t’invia,
forse piú ricco spenditor di voi?
melibeo
25Io so ben che tu sai che né la mia
né la condizion di Mopso è tale
ch’abbi a pensar che per noi questo sia.
Tanto di chi ne manda il poter sale
che dietro lui la nostra umil fortuna
30a mille gradi non pò batter l’ale.
Mandaci Alfenio; Alfenio è che raduna
ciò ch’esser di Fereo prima solea,
campo, pasco, orto, ovil, bosco e lacuna.
Così, s’al pensier l’opra succedea,
35Fereo non a lui solo e mandre e ville,
ma, quel ch’è piú, la vita tôr volea.
E cadean con Alfenio piú di mille,
e davamo ancor noi forse in le reti,
se Fereo le tendea ben come ordille.
40Io ho da dirti mille altri secreti
da far te uscir di te; ma quella fretta
che gir mi fa, mi fa tenerli cheti.
tirsi
Sin che sia giunto Mopso almeno aspetta;
intanto quel che po’ narrar mi narra,
45e stianci qui su questa fresca erbetta.
Se ’l fai, ti do la fede mia per arra
di star un giorno intègro a tuo comando
o vogli con la falce o con la marra.
melibeo
Villan sarei s’io te ’l negasse, quando
50mi preghi tanto; ma non stiam qui fermi,
gli è meglio passo passo andar parlando.
tirsi
Non so a cui possa o debbia fede avermi,
se con quei che ci son tanto congiunti
non possiam star securamente inermi.
melibeo
55Li mal consigli che v’ha Iola aggiunti
a quella cupidigia di Fereo,
i molli fianchi han stimulati e punti.
Ma che sia Iola d’ogni vizio reo
meraviglia non è, ché mai di volpe
60nascer non viddi pantera né leo.
Egli ha cui simigliar de le sue colpe
che la malignitá paterna ha inclusa
ne l’anima, ne l’ossa e ne le polpe.
tirsi
Nol partorí ad Eraclide Ardeusa,
65nascosamente compressa da lui
ne li secreti lustri di Padusa?
melibeo
Cosí fu mai d’Eraclide costui
come sono io d’un asino o d’un bue;
nacque nel suo, ma il seme era d’altrui.
70Emofil, tra’ pastori orrida lue,
piú giotto a’ latronecci ed omicidi,
ch’al pampino le mie capre o le tue,
fe’ come il cucco l’ova in gli altrui nidi,
avendo dal patron la ninfa in cura;
75miser pastor che l’agna al lupo affidi!
Contempla le fatezze e la statura
di Iola, ed indi Emofil ti racorda,
e cosí il ramo all’arbor rafigura.
Pon’mente come l’un con l’altro accorda
80l’invida mente e l’ostinata rabbia,
d’oro, di sangue e d’adultéri ingorda.
tirsi
Non perché da te solo inteso l’abbia,
ma per spiarne tutta tua credenza,
fingendo ammirazion strinsi le labbia.
85Udito l’ho da piú di dieci, senza
l’ancilla de la giovena; or tu vedi
s’io ’l so, se per udir se n’ha scienza.
Ma lascia Iola ed all’inganno riedi;
e come me n’hai móstro il capo e il petto
90fa’ ch’io ne veda ancor le braccia e’ piedi.
Che altri aveano a questa impresa eletto
io vedo, ché dui soli erano pochi
a dare a tanta iniquitate effetto.
melibeo
Il comodo che aveano in tutti i luochi
95d’Alfenio, come quei ch’erano seco
sempre in convivi, in sacrifici, in giochi,
fe’ che vidde Fereo con occhio bieco,
che pochi piú bastavan, con breve arme,
a mandarlo cultor del mondo cieco.
100E non pur lui, ma che pensasse parme
occider gli altri dui suoi frati insieme,
per quanto da chi ’l sa, posso informarme.
tirsi
Oh desir empio! oh scelerata speme
ch’al nefario pensier Fereo condusse,
105di spegner tre con lui nati d’un seme!
Dirai ch’egli d’Eraclide non fusse,
se ne la ripa di Sebeto amena
la castissima Argonia gliel produsse?
melibeo
E il vero a forza a non negar mi mena,
110né stran mi par, quando d’eletto grano
il loglio nasca e la steril avena.
Ma perché chiesto tu non m’abbi invano
chi altri al tradimento è che prestasse
favor o col consiglio o con la mano;
115al canuto Silvan gran colpa dasse,
al gener piú, che quasi per le chiome
il ribambito suocero vi trasse.
L’altro non so se Boccio è detto o come;
Gano è l’estremo, anzi il primiero in dolo,
120a cui forse era Ingan piú proprio in nome.
tirsi
Che Gan sia in colpa, ho piú piacer che duolo;
perché fra tanti uomini del mondo
m’era, né so la causa, in odio solo;
se però parli d’un carnoso e biondo
125che solea Alfenio tra’ suoi cari amici
stimar piú presto il primo che ’l secondo.
melibeo
Io dico di quel biondo che tu dici
come nel corpo d’ésca, sonno ed ocio,
cosí grasso ne l’anima di vici;
130di quel che di vil servo fatto socio
aveasi Alfenio e facea cosa raro
senza lui, di piacere o di negocio.
Comperollo giá Eraclide, e tal paro
ho di boi di piú prezzo che non ebbe
135colui che gliel vendè, quantunque avaro;
a cui di sua ricchezza non increbbe,
e con publica invidia odi parlarne,
ma ’l fine ara ch’a sua vita si debbe.
Spero veder la sua putida carne
140pascer i lupi, e l’importuni augelli
gracchiarli intorno, e scherno e stracio farne.
tirsi
Come si son cosí scoperti, s’elli
non eran piú? Pere’ han tardato farlo,
s’aveano ognora i comodi sí belli?
melibeo
145Fereo fu come il sorco o come il tarlo,
che nascoso rodendo fa sentirse
da chi non avea cura di trovarlo.
Tacendo ne potea libero girse,
ma’ l timor ch’egli avea d’esser scoperto
150fu tanto ch’egli stesso andò a scoprirse;
e rende a’ suoi seguaci or questo merto,
che tratti gli ha come pecore al chiuso,
e poi la notte al lupo ha l’uscio aperto.
Né meno ancor fu dal timor confuso
155quantunque volte per conchiuder venne
con l’opra quel ch’avea il pensier conchiuso;
onde sin qui tra ferro e tosco indenne
è giunto Alfenio, mercé quel vil core
che la man pronta sul ferir ritenne.
160Siamo adunque obrigati a quel timore
che dal ferro difese e dal veneno
la nostra guardia e ’l nostro almo pastore.
Come è nostro pensier ch’ora abbia fieno
e stalla il gregge, ora salubri paschi,
165e quando fiume o canal d’acqua pieno,
cosí gli è cura sua che non si caschi
in peste, in guerra, in carestia, che ’l grande
del minor le fatiche non intaschi.
Hai sentito ch’alcun mai gli dimande
170cosa che iusta sia, che da sé vuoto
o poco satisfatto lo rimande?
tirsi
Io credo che giá a quel chiedere a voto
piú non si pò, né dal patre traligni,
a cui fui, sua mercé, come a te noto.
175Lodando il figlio, Eraclide mi pigni,
del quale io, sebben nato ed uso in boschi,
trovai gli effetti in me tutti benigni.
melibeo
Oltra che umano sia, vuo’ che ’l conoschi
pel piú dotato om che si trovi, e volve
180gli ombri, gl’insubri, li piceni e tòschi.
Che saggio e cauto sia, te ne risolve
questo ch’al varco abbia saputo accôrre
quei ch’aver sel credean sotto la polve.
Chi sa meglio espedir, meglio disporre
185quel che conven? Non è intricato nodo
che l’alto ingegno suo non sappia sciôrre.
Qual forte ’sbergo è del suo cor piú sodo?
a cui fortuna far pò mille insulti,
ma non che sia per sminuirne un chiodo.
190Vedi tu in altri costumi sí culti?
Gli po’ tu in sí vil cosa esser cortese,
ch’amplissima mercé non ti risulti?
Hai tu sentiti i ladri nel paese,
di che prima solea dolerse ognuno,
195poscia ch’egli di noi custodia prese?
Mira che qui pò quel che pò nessuno,
né però vuol conceder contra il iusto
cosa a sé che negata abbia ad alcuno.
Io non ti lodarò l’aspetto augusto,
200né quell’altro che fuor vedi tu stesso,
il corpo alle fatiche atto e robusto.
tirsi
Quanto è miglior tanto piú grave eccesso,
e meritevol di maggior supplicio
chi ha cercato occiderlo ha commesso.
melibeo
205Ben si pò dir che ’l ciel ne sia propicio;
che non pur d’un, di tre, di quattro ed otto,
ma vetato abbia un gran publico exicio.
Una tanta roina e sì di botto
non è quasi possibil che si spicchi,
210che molta turba non v’accoglia sotto.
Prima ai nimici, e poi veniano a’ ricchi,
fingendo novi falli e nòve leggi,
perché si squarti l’un, l’altro s’impicchi.
Ch’era di ciò cagion credo tu ’l veggi;
215per non pagar del suo gli empi seguaci,
ma de li solchi altrui, de li altrui greggi.
Veduto aresti romper tregue e paci,
surger d’un foco un altro e di quel diece,
anzi d’ogni scintilla mille faci.
220Qual cosa non faria, qual giá non fece
un popular tumulto che si trove
sciolto ed a cui ciò ch’appetisce lece?
tirsi
Queste son strane e veramente nòve
nuove che narri, e viemmene un ribrezzo,
225che ’l cor m’aggiaccia e tutto mi commove.
Deh! se dovunque vai trovi aura e rezzo,
che credi tu ch’avria fatto la moglie,
se ’l caro Alfenio tolto era di mezzo?
melibeo
Come tortora in ramo senza foglie,
230che, poi ch’è priva del fido consorte,
sempre piú cerca inasperar le doglie.
tirsi
Sarebbe stato, appresso il caso forte
del iusto Alfenio, e quella orrenda e vasta
ruina che traea con la sua morte,
235gran duol veder che la sua donna casta,
saggia, bella, cortese e pellegrina,
in stato vedovil fusse rimasta.
Io me trovai dove in dui rami inclina
il destro corno Gridano e si dole
240che tanto ancor sia lungi alla marina.
Godease la lucertola giá al sole,
e’ pastorelli in le tepide rive
ivan cercando le prime viole;
quando in manere accortamente schive
245giunse Licoria in mezo onesta schiera
di bellissime donne, anzi pur dive;
dove sposolla Alfenio, ove l’altèra,
pomposa e mai non più veduta festa
il padre celebrò, ch’ancor vivo era.
250Io vidi tutte l’altre, e vidi questa,
or sole ad una ad una e quando in coro
e quando in una e quando in altra vesta.
Quale è il peltro all’argento, il rame all’oro,
qual campestre papavero alla rosa,
255qual scialbo salce al sempre verde alloro;
tale era ogn’altra alla novella sposa,
gli occhi di tutti in lei stavano intenti
per mirarla obliando ogn’altra cosa.
Quivi di Ausonia tutta i piú eccellenti
260pastori eran; quivi era il fior raccolto
de le nostrali e de l’estrane genti.
Tutti la singular grazia del volto,
le liggiadre fattezze, il bel simbiante
e quel celeste andar laudavan molto.
265Ma chi noticia avea di lei piú inante,
extollea piú l’angelica beltade
de l’altissimo ingegno e l’opre sante.
Davano a lei quella inclita onestade
che giunta con beltá par che si stime
270al nostro tempo ritrovarsi in rade.
Locava, fra le gloriose e prime
virtuti d’ella, il grande animo, sopra
il femenil contegno alto e sublime.
Onde esce quella degna ed util opra,
275la qual non pur nei boni irraggia e splende,
ma ne li iniqui par che ’l vizio copra;
parlo de la virtú che dona e spende,
in che fulge ella sì che d’ogn’intorno
i raggi vibra e i prossimi n’accende.
280Tant’altre laude sue dette mi fôrno,
che pria che ad una ad una fuor sian spinte,
temo che tutto non ci basti un giorno.
melibeo
Son queste cose indarno a me depinte,
ché, se per l’altrui dir tu note l’hai,
285io per esperienza le ho distinte.
Ma volta gli occhi e lá Mopso vedrai,
sì che non poter star piú teco dolmi,
onde conchiudo brevemente ormai:
che come ben confan le viti e gli olmi,
290confanno i dui consorti, e Dio gli scelse
maggior degli altri, quanto tra gli colmi
de l’umil case escon le torri excelse.