Le vie del peccato/La novella
Questo testo è completo. |
◄ | Per l'anima dei defunti | L'esempio | ► |
LA NOVELLA.
A Dino Mantovani.
La novella
Il biondo Luigino Degliastri era studente in lettere all’Università di Roma e cugino di Tommaso Paterni notaio sulla piazza del Mercato a Spoleto. La famiglia Degliastri veramente non viveva su a Spoleto, ma giù nella valle a San Giacomo perchè viveva con quel po’ di grano, di vino, d’olio e anche di fave che due piccoli poderi del piano producevano. La prima speranza era stata che il biondo Luigino entrasse nello studio notarile del cugino perchè cogli anni, essendo Tommaso senza figli, potesse succedergli nell’ufficio lucroso. Ma quando ancora Luigino era in liceo un giornale settimanale «La vespa dell’Umbria» aveva pubblicato parecchie poesie sue: Lembo di cielo, Foglia di vite, Pianto d’amore, Lacrymae rerum... dove si piangeva sotto un velo lirico la freddezza della maestra di San Giacomo la quale poi mostrandosi di fatto molto calda pel poeta biondino gli ripeteva meravigliata mentre si stringeva il busto e si riallisciava i capelli:
— E dopo questo sei capace di chiamarmi su la Vespa, in pubblico, la crudele carnefice del cuore!
Quello era per l’uso audace di quel «sostantivo comune» uno dei più lodati endecasillabi di Luigino.
Il fatto si è che egli andò a studiar lettere in Roma con tanto ardore che non ne scrisse nemmeno una alla maestrina «crudele carnefice»; e per quell’abbandono inaspettato la sua fama locale di poeta erotico crebbe come quella di un avvocato che per troppa clientela rifiuti qualche litigio.
La maestra finse di acquietarsi facilmente, anche perchè un suo alunno malignetto che la sera andava a imparare il latino dal curato, una mattina scrisse su la lavagna della classe «Luigino fa l’amore con la maestra.» E al poeta biondo succedette l’ispettore comunale canuto ma tinto in nero.
A giugno tornò Luigino, e a casa con tanta maestà parlò di certe radici neolatine e di certi processi ideologici e con tanto disdegno guardò al desco famigliare e al gatto bianco e al morigelso del cortile che i suoi gli permisero di passare qualche giorno delle vacanze a Spoleto presso suo cugino Tommaso Paterni, notaio sonnolento in piazza del Mercato. In fondo in fondo essi speravano anche che la vista dei lauti guadagni e della poca fatica di quel cugino grassoccio e sbarbato ancóra potesse distoglierlo dal mestiere del poeta.
Ma più che le carte e le formule e i quattro codici e il berrettino amaranto e la poltrona del cugino Tommaso, fu la moglie di lui che eccitò le speranze di Luigino Degliastri. Tommaso aveva sposato da quattro anni una ragazza senza un soldo, attorniata da molti adoratori platonici, custodita prudentemente in un borgo di montagna da suo padre cacciatore emerito e, a tempo perso, anche medico condotto. Per quattro anni ella era vissuta contenta, ingrassando salutevolmente e godendosi tutta quell’abbondanza di cibo, di vini, di pollame, di biancheria che i risparmii e la professione del marito le offrivano lautamente. Poi, dopo che nell’estate erano apparse a Spoleto molte signore romane tanto eleganti e al Teatro Nuovo era stata data una stagione teatrale con la Traviata, ella era divenuta sentimentale, assetata di amore come una gattina in gennaio; ma era troppo timida e istintivamente prudente per cadere, era troppo rosea e grassoccia e amava troppo i buoni cibi e la bella biancheria e gli abitucci nuovi per rischiare di perdere tutto con un peccato solo.
A casa sua non venivano che le mogli di avvocati e di ricchi campagnoli clienti del signor Tommaso; e rarissimamente i mariti le accompagnavano. Solo l’economo del Convitto che cinque anni prima era stato in cavalleria e conservava una certa eleganza e una certa arroganza soldatesca, veniva spesso con la moglie a far visita alla signora Giulietta; qualche volta anche era venuto solo per organizzare un festicciuola o per chiedere un piccolo contributo a qualche sottoscrizione per portare qualche gialla traduzione di romanzi francesi. Nè il signor Tommaso aveva osato interrompere quelle assiduità e perchè temeva di suggerire con qualche parola sospettosa il male alla sua moglie innocente e perchè i baffi rialzati dell’economo e le sue sopracciglia aggrottate e i suoi calzoni fermati sotto le scarpe da una staffa di pelle alla moda militare e la sua giacca attillata e un po’ corta come fosse una giubba gallonnata e fulgente, lo impensierivano vagamente.
Ma, anche priva dei gelosi consigli di suo marito, Giulietta sapeva resistere alle seduzioni dell’economo. E soltanto quando nei romanzi prestati da lui trovava qualche segno in margine proprio di passaggi terribili e disperati, alzava gli occhi dalla lettura e li fissava sognando alla finestra donde le apparivano sotto un rettangolo alto di cielo azzurro la casetta bianca dei Merini e la loro loggia stretta con la ringhiera coperta di logori tappeti distesi e di panni lavati.
Quando uno dei ragazzi Merini veniva in loggia a giocare, a cantare, o a far qualche cosa di peggio, ella riponeva i quieti occhi azzurri sul libro piegato, e la fantasia si riaddormiva. Una volta o due l’Economo aveva osate il bacio della mano, ma ella lo aveva respinto pur senza sdegno ripetendo sempre lo stesso scherzo:
— Mi avete presa per una monaca?
E la sua civetteria finiva lì.
A quei giorni venne su Luigino Degliastri, e Giulietta gli apparecchiò una camera all’ultimo piano, perchè quella camera aveva anche un ingresso separato sopra una viuzza finitima alla Piazza del Mercato, e, quando la notte il signor Tommaso aveva chiuso una solida porta di comunicazione a capo delle scale, restava interamente separata dal resto della casa.
Luigino venne, e in tre o quattro giorni declamò tutte le sue poesie alla cugina e anche le descrisse con qualche amplificazione lirica le varie donne e le varie occasioni in che aveva scritto quelle poesie. Ma nel fatto, fuori della poesia e dei racconti, Luigino era timidissimo, e a pranzo e a cena, avanti al cugino, ostentava una grande onestà di propositi e una sovrana indifferenza per Giulietta.
Al caffè, pel Corso, al Circolo dove la sera egli giocava a tressette con qualche ufficiale di fanteria e qualche compagno di studii, due o tre volte udì le lodi di sua cugina e vide il furbo ammiccare di qualche presente che aggiungeva lusinghevolmente: — Eh, beato te! Eh, con un cattivo soggetto come te! — Nè mai fece altro che sorridere vagamente perchè quei dubbii altrui non si dileguassero interamente a danno della sua fama di poeta fortunato. Pure i giorni passavano, e una volta che egli osò prendendo a due mani tutto il suo coraggio di baciare un dito della cugina, ricevette uno schiaffo sonante e la frase prediletta:
— Mi hai presa per una monaca?
A peggiorare le sue condizioni, un amico suo che allora dirigeva la Farfalla dell’Umbria succeduta alla Vespa omonima, un giorno gli disse all’orecchio:
— Bada a tua cugina... Quell’Economo...
E il giorno stesso infatti, scendendo dalla sua cameretta verso le camere di sua cugina, udì dal salotto la voce dell’Economo soldatesco senza poter intendere una parola. Si fermò lì sul pianerottolo. Una voce lontana gli diceva: «Entra, mostragli i denti, fagli vedere che non ammetti competitori.» Una voce più vicina che pareva gli salisse su dallo stomaco gli diceva: «Vattene, vattene. Che te ne importa? Ti rammenti i baffi dell’Economo, e le ciglia aggrottate, e i calzoni fermati sotto le scarpe, e la giacca alla militare? Vattene, vattene. Che te ne importa? Giulietta è tua amante o tua moglie? Ci deve pensare il cugino Tommaso...» E cominciò a discendere lentamente, ma aveva disceso pochi scalini che la porta del salotto si aprì e i due escirono sul pianerottolo e la cugina lo chiamò per nome ed egli dovette salutar l’Economo terribile, il quale lo stimò degno appena di un cenno del capo, ed anche dovette udire la sua frase d’addio a Giulietta:
— Pensi ad essere più buona.
L’Economo escì facendo grandi gesti con le braccia per mostrare i polsini bianchi che avevano alle asole per bottoni due piccole stelle d’argento a cinque punte, ricordo delle vecchie stelle sul bavero della giubba militare. Luigino lo guardò escire, poi si volse a Giulietta e coraggiosamente seppe mostrar la sua ira?
— Che ti diceva? Perchè viene tanto spesso? Che significa quell’«esser più buona»? Che vuole? Tutta Spoleto parla di voi due. Lo sai? Rispondi.
Ma Giulietta pareva occupata da altri pensieri perchè gli rispose soltanto:
— Che c’entri tu? Sei matto? – e ritornò nelle sue camere sbattendo la porta e lasciandolo lì per le scale con un piede sul primo gradino.
Egli uscì per strada, andò al circolo dove l’Economo nemmeno rispose al suo saluto, cenò senza parlare tra Giulietta che s’era portato a tavola un romanzo molto gualcito e lo leggeva tra una portata e l’altra, e Tommaso che ripeteva:
— Che t’è successo, Luigino? E tu pure, Giulietta, potresti lasciare quei benedetti libri sporchi e dir qualche cosa a tuo cugino.
Dopo cena il poeta si chiuse in camera e provò invano a fare una nuova edizione del Lacrymae rerum. Non scrisse che un verso e all’improvviso si ricordò che non era suo e che l’aveva letto in un giornale a Roma.
Ma anche questa volta l’Arte lo soccorse. Dopo qualche giorno pensò di fare una novella dal soavissimo titolo: «Madonnina bionda». La madonnina bionda sarebbe stata sua cugina e la novella invece di cominciare con una parola sarebbe cominciata con sette od otto puntini, originalissimamente, e sarebbe stata stampata su la Farfalla dell’Umbria.
Le voci però lusinghiere dei suoi compagni di tressette lo dissuasero dallo scrivere una novella desolata con un finale suicidio, come prima aveva pensato per commuovere e spaventare Giulietta, e lo indussero invece a metterci tutta la verità fino al bacio della mano, e alla risposta: «Mi hai presa per una monaca?», sostituendo allo schiaffo una vittoria solenne dove egli apparisse come il conquistatore di tutta la terra... anche dell’equatore.
La novella fu finita in cinque giorni e la finzione tanto occupò il poeta che egli poco si curò della vera Giulietta e dell’economo ostinatissimo. Quando egli consegnò lo scritto all’amico della Farfalla gli disse:
— È una cosetta dal vero. Un autentico documento umano.
L’amico la lesse e la sera al Circolo lo avvisò:
— Non temi che si scoprano i personaggi veri?
— No. E poi, quali si siano le conseguenze, è l’Arte che lo vuole.
E la novella apparve la domenica seguente Il cugino Tommaso era andato a Norcia per un testamento, e lo studio era chiuso. A pranzo, dopo il pollo in umido, Luigino lesse a Giulietta con molta ansia la novella, alzando di quando in quando gli occhi a lei che sbucciava una mela e che quando il narratore giunse alla catastrofe sollevò il capo con attenzione. La novella terminava con queste parole dell’eroe trionfatore alla sua amante: «E adesso pensa, o Leonilde, che io sono felice, che io ho toccato, come si suol dire, il cielo con un dito, perchè nell’amore soltanto sta riposta la vera felicità.»
Luigino guardò la cugina e vide che aveva gli occhi un po’ lucidi e le guancie un po’ rosse, e osò prenderle la solita mano e attirarla alle sue labbra; ma Giulietta balzò in piedi e con grande dispetto gli gridò sulla testa:
— Ma insomma quando finisci di far l’imbecille? – e se ne andò.
Il poeta restò sbalordito, bevve mezzo bicchiere di vino e uscì di casa.
Verso le cinque del pomeriggio tornò, ma invano bussò alla porta della piazza, e rammentandosi che il cugino Tommaso era fuori, che di domenica la serva doveva essere uscita a passeggio, andò a provare dalla piccola porta nel vicolo vicino. Mise la chiave nella toppa, spinse, ma la porta restò chiusa e gli parve di udir da dentro la resistenza del catenaccio. Alzò gli occhi alla finestra della sua camera che era senza persiane e vide gli sportelli chiusi dietro i vetri sebbene egli si rammentasse di averli lasciati aperti alla mattina. Se ne andò supponendo che Giulietta pure fosse escita per qualche visita.
Più tardi, rientrando dalla sua porticina che non era più serrata di dentro, salì in camera e trovò il letto un po’ scomposto e per terra accanto al letto una copia aperta della Farfalla, una copia che egli era certo di non aver portata lassù, e sul tavolino una piccola stella d’argento a cinque punte, proprio come quelle che l’Economo portava ai polsini.