Le solitarie/L'altra vita
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L’ALTRA VITA.
Franceschetta era assai piccola di statura, con rari e deboli capelli biondicci, e larghi occhi glauchi di una fissità che colpiva. Forse quelle palpebre (se pur le aveva) non potevan chiudersi mai, nemmeno nel sonno. Le alette delle narici, gli angoli della bocca anemica, i muscoli delle mascelle apparivano invece mobilissimi, parlanti più della voce.
Parole, veramente, ne proferiva poche: quelle poche, a stento.
Quando non era occupata nei lavori della casa o dell’orto, si grattava la fronte, su verso la radice dei capelli, con un gesto scimmiesco che aveva l’insistenza e la regolarità d’un vezzo maniaco.
Bimba, fra il padre indifferente e la matrigna perversa, era cresciuta chiusa in sè, senza compagne, sempre in atto di passiva ma costante difesa, adorando i libracci vecchi, raccogliendo furtiva tutti i pezzi di giornali che poteva trovare, per leggerseli in un angolo: e su di essi fabbricava, nel suo cervellino, castelli in aria che si gonfiavano, si sovrapponevano, si distruggevano a vicenda, nubi nel cielo in un mattino di marzo.
Da quando, a sedici anni, era stata sposata per forza a quel grosso Bernardone Mandri, mercante di cavalli e di buoi, giovialaccio, bestemmiatore, sempre in lotta con la cintura dei calzoni che non gli era mai larga abbastanza, la biondina s’era senz’altro raggomitolata su se stessa. Non si confidava con nessuno, non usciva mai, non rispondeva mai agli scherzi volgari o alle sfuriate del suo uomo, lo serviva in silenzio. Egli non era cattivo. Non guardava le altre donne, non lesinava sulla spesa. Amava Franceschetta, a proprio modo. Così suo padre, così suo nonno avevan trattata la moglie; e non altrimenti.
Ma la biondina, coll’andar degli anni, diventava sempre più fragile e trasparente: — un cero acceso, — diceva don Geremia, il coadiutore. Girellando per la casa in umili faccende, cucendo nel vano d’una finestra, dando brevi ordini alla servetta tredicenne dalla faccia melensa e sbalordita, e anche sedendo di fronte al marito durante i pasti, ella aveva l’aria d’essere lontanissima da ciò che la circondava. Spesso Bernardone si portava in casa certi suoi amici grossi, bracaloni, rumorosi al par di lui, in compagnia dei quali ingollava bicchieri e bicchieri d’un pastoso vinone rosso. Giocavano alla morra e parlottavan sugli affari del mercato, sugli interessi del villaggio — un paesotto della Bassa Lombardia, pieno di negozianti di bestiame e di fabbricanti di formaggio.
Il vino veniva, secondo il costume, servito da Franceschetta. Ella girava leggerissima fra gli uomini, col vassoio in mano, con un passo d’ombra, con la bocca suggellata, con lo sguardo spento. Straniera.
In realtà, viveva due vite. Era sempre stato così, sin dall’infanzia. Nessuno aveva mai potuto figurarsi le straordinarie visioni che sfilavano sulle pareti interne del suo cervello. Erano il suo tesoro: taceva perchè non gliele rubassero.
Spinta al matrimonio, presa, maneggiata con allegra brutalità, nulla aveva ceduto di sè, se non il corpo; e l’aveva ceduto male, nella contrattura d’un disgusto fisico che ad ogni volta si rinnovava, eccitando, invece di stancarla, la massiccia sensualità del marito. Era rimasta custode (o schiava?) dell’anima propria, chiudendola in sè come si chiude l’acqua in un pozzo profondo.
Ma, camminando la luna nel cielo, viene il momento nel quale il suo disco argenteo si riflette, in pieno, nel cerchio vertiginoso; e l’acqua nera, dal fondo, ne rabbrividisce tutta di gioia e di speranza, sommovendosi, trasfigurandosi in lucenti tremolii di brillanti e di perle.
Ad illuminare la buia anima solitaria, distaccata in così assoluto modo dalla realtà della vita quotidiana, era sopravvenuta l’occulta malia d’un sogno. — Quale?... — Un lontano giorno, per non soffrire troppo della faccia nemica della matrigna, Franceschetta adolescente si era immaginata d’aver dinanzi non già lei, ma la madonna del grande quadro posto in chiesa sopra l’altare; e tale, realmente, l’aveva sempre veduta. — Quale sogno dunque?... — Strano, allucinante, inconfessabile — criminoso.
Suo marito poteva scomparire. Perchè no?... Il caso sa quello che fa. Come era entrato nella vita di lei, senza che il cuore lo avesse chiamato, l’uomo poteva sparirne.
In qual modo?... Non lo sapeva. La sua morbosa fantasia non osava giungere fin là. Gustava il senso selvaggio della liberazione, della certezza che il colosso trasudante sbuffante bofonchiante non sarebbe più ricomparso ad ostruire il vano della porta di casa. Il resto era ombra e mistero.
Due povere donne del paese piangevano in solitudine giorno e notte: Giovanna Làrici, il cui marito, emigrato da anni nel Canadà, non aveva più dato novella di sè; e Maria Bulca, la vedova d’un muratore che le era stato portato a casa su una barella, con lo reni fracassate per una caduta dall’alto di un’impalcatura.
Avrebbe pianto, lei?... No. Non conosceva, lei, suo marito. Chi era quell’uomo?... La poteva sgridare, scuotere, accarezzare pesantemente. Poteva metterle sulla bocca il suo fiato avvinazzato. Poteva brancicare il suo sussultante corpo nudo con le manacce ruvide. Ma le era ignoto. Lo considerava, a volte, con uno stupore muto. Le sembrava un estraneo, che dovesse fra alcuni istanti svoltar l’angolo della via più vicina, per non ritornare mai più.
Sparire: non morire. Cos’era la morte?... Aveva paura, lei, della morte. Le era sempre mancato il coraggio di torcere il collo a una gallina: la sola vista del sangue la faceva dare in convulsioni.
E allora?... Disparizione non significa morte?... Dio, come il cervello le si affaticava, nello sforzo di quel pensiero!... Non pensare, non pensare, sognare solamente. Sognare, per essere liberata.
La presenza del marito, l’odore ferino che il suo gran corpo tramandava, il comando, la carezza dispotica, lo sputacchiare villano, tutto quello che in lui la feriva, l’esasperava, potrebbe non esser più.
E le notti!... Quel corpaccio che occupava tre quarti del letto matrimoniale, mentre Franceschetta, presa da un orrore maniaco, si raggruppava, tutta scarna e piccina, verso la sponda, col rischio di cadere!...
Quel russare su due toni, l’uno rauco, l’altro fischiante: quel russare implacabile che non cessava mai, che le dava la nausea e gli urti di bile, e le piantava dei chiodi nel cervello!...
Come facevano le altre donne?... Perchè la sua sensibilità nervosa era così indifesa, così a nudo, così spasmodica?... Cercava di non ascoltare, di nascondere il capo sotto le coperte, per dormire. Non poteva, non poteva. L’insonnia divorante le succhiava la ragione.
Riuscì, lentamente, a vincere l’intollerabile ambascia, cloroformizzandosi col pensiero che il supplizio sarebbe finito da sè, come finisce la notte quando spunta il giorno.
Un riposo del cuore, una distensione dei nervi, una quiete di tutto l’essere le veniva dall’immaginare quel che sarebbe stata la sua vita, dopo.
Silenzio: tepido come una coltre, corroborante come un farmaco, il silenzio avrebbe guarito il suo male, in una solitudine di clausura.
Nella freschezza dell’alba ella si sarebbe alzata dal letto monacale, con membra fatte elastiche dal buon sonno riparatore; e avrebbe spalancate le finestre sulla pianura verde, tutta rugiada e brividi, sentendo davanti a sè la sua giornata.
Nessuna voce rude le avrebbe gridato — fa questo e fa quello. — Nessuna presenza imperiosa avrebbe preso il suo tempo, diretto i suoi movimenti, manomesso alla cieca il suo povero fascio di nervi doloranti. Ella non avrebbe più pranzato e cenato a tavola; ma sullo scalino del focolare — d’inverno — con la ciotola del latte in grembo: sullo scalino dell’orto, — d’estate — ascoltando la musica delle cicale e dei grilli. Avrebbe assaporato i suoi minuti di pace, uno per uno: fabbricato ogni giorno, per la propria gelosa gioia, storie maravigliose che solo l’aria e le rondini avrebbero udite.
Null’altro?... Null’altro. Riposare. Immobile. Era tanto stanca, tanto stanca, che il cervello le pesava nella testa come un ciottolo.
La vita pratica, quella che si vede, scorreva intanto senza interruzione. E il grosso mercante concludeva ottimi affari e prosperava in ottima salute e spillava dalle proprie botti ottimo vino; e badava alla tacita moglie sparuta come si bada ad un cagnolino, al quale ogni tanto si grida, con un fischio: — Fido, vien qua!... Fido, al guinzaglio!... —
Ma una sera, comparendole innanzi mentre se ne stava assorta in un lavoro di maglia, la vide trasalir con violenza, farsi di fuoco e di ghiaccio, balzare in piedi respingendo la sedia; stravolta, sfigurata.
Gli parve di non averla mai, fino allora, veduta. Gli parve nuovo quel viso scarnito, cogli zigomi sporgenti, col segno terribile dell’idea fissa negli occhi senza palpebre.
La scosse, le spruzzò dell’acqua in fronte, chiamò a gran voce la servetta: coll’aiuto di costei riuscì a calmare la misera creatura che sussultava in tutte le fibre, battendo i denti, guatandolo con terrore.
— Che diamine!... Franceschetta!... Non sono mica il mio fantasma!... — andava ripetendo per convincerla, stringendosi la manina di lei sul pancione prosperoso.
Ma ella rimaneva contratta, senza parola.
Qualche tempo dopo (le tre del pomeriggio: il dieci di agosto: calura: aria simile a fuoco rarefatto) — entrato in cucina, l’uomo vide Franceschetta abbandonata sopra una sedia, coi gomiti sulla tavola e il capo sui polsi incrociati. Pareva dormisse profondamente.
Volle, da quel bestiale bonaccione che era, farle uno scherzo: si avvicinò pian piano, e le cinse con un braccio la vita, soffiandole nell’orecchio.
Allora avvenne una cosa spaventevole. Franceschetta diede un balzo di pantera: cogli occhi fuor dell’orbita, i capelli dritti sul cranio, le braccia tese in avanti, cacciò un urlo, poi un altro, poi un altro. L’uomo, disperato, supplicava: — Franceschetta!... Franceschetta!... — Ma ella continuava ad urlare, retrocedendo con le braccia sempre tese a barriera, quasi che realmente, dinanzi a lei, fosse comparso il fantasma d’un morto; e rimase ritta, inchiodata al muro. Accorse gente, accorse il medico: la si trasportò all’ospedale più vicino: di là, in un manicomio. Non riprese più la ragione.
È tranquilla, ormai: indifferente a tutto e a tutti. Se ne sta in disparte, sferruzzando una calza di lana grigia, che, una volta finita, disfà, per ricominciarla. Raccoglie con inesausta pazienza brani di gazzette, fogli scritti e stampati, per leggervi, accoccolata in qualche cantuccio, certe storie stupefacenti, d’amore e di morte, che inventa da cima a fondo. Sorride sempre, di un immobile sorriso a fior di labbra, che si potrebbe dire interiore: con esso e con la fissità dello sguardo senza palpebre segue un suo caro sogno, che nessuno sa, che ella sola conosce.
Due sole volte ricadde nella crisi urlante: e fu quando Bernardone, grave e compunto nel rosso faccione bitorzoluto, venne a vederla, nella casa di cura.
I medici compresero; e, con persuasive parole, convinsero l’uomo a non più ritornare.
Egli, forse, non chiedeva di meglio; e disparve dalla vita estatica dell’inferma.
Si prese in casa una bella servotta, non giovanissima ma salda in carne, di volto aperto e gioviale, di magnifica salute: un placido animale caldo e sottomesso che gli divenne necessario come, a pranzo, una buona bottiglia di Barbèra. E tutti e due furono felicissimi.