Le rive della Bormida nel 1794/Capitolo XIII
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CAPITOLO XIII.
Sul vespro di quel giorno, mentre Giuliano cavalcando già vicino a D..., scopriva tra il verde del castello il campanile, che pareva un amico acquattato, per dar voce del suo ritorno; sul piazzale di casa sua sedevano alcune donne del vicinato, intente a rammendare camicie, a filare, a fare ognuna qualcosa, ascoltando i racconti di Marta. La quale, pigliate le mosse dai molti Alemanni giunti di quei giorni; parlava delle guerre degli Spagnuoli, venuti sul principio di quel secolo, pochi anni prima che essa nascesse, a devastare le valli della Bormida; dove erano passati come la maledizione di Dio. Dai racconti di guerra, era caduta in quelli della fame e della peste; e ne aveva sballate di quelle così grosse, che le povere contadine si pregavano di morire, piuttosto che star al mondo a vedere altrettanto. Una delle uditrici era Tecla, che alle parole della vecchia badava poco o punto. Perchè i suoi pensieri erano lontani di là molto: e vi avesse anche badato, la sua mente aveva fatto, in quei due mesi, così lungo cammino; che le cose strane dette da Marta, non potevano più nulla sull’anima sua. Si era in tutto mutata e tanto, da non si ravvisare a prima giunta; e a poco a poco aveva pigliato nei portamenti e nel viso, l’aspetto di fanciulla nata in istato migliore di quello, donde era uscita. La signora l’aveva sin da principio vestita de’ panni più fini; e sebbene la villanella si fosse trovata in sulle prime un poco impacciata, nelle foggie nuove di quelli; vi si era presto avvezzata, con gran maraviglia di Marta; che ormai non sapeva più sgridarla nè tenerle il broncio, e parlava di essa benignamente. Nessuno del borgo, neanche lo stesso pievano, aveva più osato menzionare il fatto della scappata notturna di lei; e sapendo che viveva raccolta, sempre alle gonne della signora Maddalena, tutti la chiamavano fortunata; a tutti pareva uno di quei fiori, che dopo una fiera ventata, da cui siano stati quasi divelti, crescono di bellezza, più desiderati quanto più s’ascondono nella siepe. Le donne del vicinato, che la vedevano qualche volta alle finestre di quella casa, le si cominciavano a mostrar rispettose; le fanciulle ne avevano invidia; suo padre e sua madre si stimavano qualcosa da più di due o tre mesi prima, ma quasi si peritavano a chiamarla loro figliuola. Essa, punto insuperbita, diveniva ogni dì più dolce; e sebbene paresse che essendo giunta a quella fortuna, dovesse stare allegra; una malinconia diffusa sul suo viso, rivelava che il cuore piangeva dentro; e il pensiero del suo destino, e la tema d’una caduta, che forse sarebbe stata più dolorosa, quanto più essa saliva, cominciavano a nascere in lei; sicchè l’avvicinarsi del giorno, in cui Giuliano sarebbe tornato da Torino, le pareva una montagna che fosse lì per franarle addosso a schiacciarla.
Quel giorno, seduta in quel crocchio di donne, all’ombra del pergolato, da cui pendevano i grappoli di lugliatica, già matura, che la signora voleva serbati intatti per Giuliano; badava poco o punto, come ho detto, ai racconti di Marta; e questa che dal gran dire si sentiva la gola di pomice, essendo in sul finire, sclamava:
«Oh! le mie care benedette, i flagelli di cui vi parlo li manda il Signore; guerra, fame e peste, gli avremo tutti, uno dopo l’altro. E ancora bisognerà ringraziare, se si morirà di due uno, come ho veduto io nella mia gioventù. Ma se avvenisse come centocinquant’anni or sono, quando da queste parti, i rimasti vivi erano come le mosche bianche? Quella fu una morìa! Io ho conosciuti due signori di C..., che venivano qualche volta a desinare qua, dal padrone buon’anima, ma quello vecchio. Essi erano i figli dei figli d’uno dei soli quattro uomini, che la peste d’allora lasciò vivi, in quel borgo di tremila anime. Eh! se gli aveste intesi! raccontavano le cose udite dai loro padri i quali le avevano avute dal nonno; e solo a rammentarle non mi sta in capo il fazzoletto, tanto mi si rizzano i capelli! E anche allora si era detto che la peste nascesse dai tanti soldati morti in guerra... Baie! Io so che a C..., l’avevano formata tre scellerate sorelle coi loro unti..., una notte di sabato, in un loro podere, dove solevano trovarsi col diavolo... (qui Marta si segnò per l’ubbia che menzionando il demonio, questi le facesse tre salti d’allegrezza dinanzi). Ammanirono l’unto infernale, e tornate la domenica all’alba nel borgo, unsero le porte delle case e le panche in chiesa, e sin da quel giorno cominciò a morir gente per certi tumoracci tanto fatti...
«No, Marta, non fate segni colle mani! — sclamarono quelle donne, che credevano di malaugurio il mostrare col gesto la grossezza di tumori, di biscie, di piaghe e d’altre cose cattive.
«Le tre sorelle, — continuò Marta — allegre del fatto loro, partirono per andarsi in casa a un loro parente del Genovesato; ma il podestà di C..., fece dar loro dietro coi corni marini, e furono colte dalle parti di Savona, là dove la Vergine Maria era comparsa al Beato Antonio. Legate, battute, menate a C... furono bruciate vive al cospetto del popolo, tutte e tre insieme, come anime dannate... e io ho visto dove.»
A questo punto, dando un’occhiata intorno; Marta si avvide di Tecla, che aveva sulle labbra un certo sorriso, come di compatimento a qualche baggianeria, uscita di bocca a lei. Si sentì punta nel vivo, da quel sorriso di incredulità, che in mezzo a tante credenzone pareva il simbolo dei tempi nuovi, e «già! — sclamò — quei dai vent’anni in giù, ridono delle streghe, del diavolo, di tutto! Chi non crede al diavolo, non crede bene neanche a Dio, dice il signor pievano; me l’ho appiccata all’orecchio, e penso anch’io come lui che se si va di questa gamba, fra un altro po’ d’anni, pioverà zolfo acceso. Per me avvenga che può, e rida chi vuole, io sto col signor pievano, chi ha da salvarmi è lui...»
Le donne non guardarono che viso facesse Tecla alle parole di Marta; ma pensarono alla profezia del zolfo, udita lanciare di sul pulpito dal pievano. E cominciarono a parlare di lui, e a dirne tante lodi; che se davvero uno si sente fischiar le orecchie quando è menzionato in qualche luogo, don Apollinare dovè sentirvisi dentro le centinaia di grilli.
Ma la bisogna in cui egli era occupato in quel momento, non gli concedeva di badare a queste minuzie; e aveva la testa intronata da ben altri rumori; suon di stoviglie, tintinnio di bicchieri, voci alte, un’allegrezza chiassosa. Sedeva a convito nel presbiterio, una grossa brigata d’ufficiali delle genti Alemanne, venute a spalleggiare l’altre della loro nazione, che in primavera ne avevano toccate dalle bande di Nizza, in parecchi combattimenti. Quelle genti, sebbene non fossero centomila, come Giuliano aveva inteso dire tra via, pure ingombravano la valle da D... sino alle sorgenti della Bormida; e villaggi e casali ne erano zeppi. I popoli di quelle terre ne avevano gran disagio pei molti alloggi, pei viveri di che dovevano fornirle, e più per quel che esse si pigliavano, a mò di predoni; e fra i guai che pativano dagli Alemanni amici, e la paura dei Francesi, che calassero a far battaglia con essi di qua dei monti; vivevano col cuore tra due sassi. Nè quella paura poteva chiamarsi ubbía, perchè dalle cime dell’Apennino, a San Giacomo, al Settepani, dove avevano poste le grosse guardie, i Francesi parevano spiare l’ora acconcia a ferire qualche gran colpo; e a sera si vedevano tanti dei loro fuochi, che su quei monti pareva sempre la vigilia di San Giovanni. Don Apollinare si sentiva scottare da tutti quei fuochi; e l’idea della calata dei Francesi, tornava ad essere per lui come un ariete di bronzo, che gli desse le gran capate nel petto. Sull’imbrunire, sempre chiudeva le finestre del presbiterio, che guardava a mezzogiorno, non volendo vedere quei monti d’amaro ricordo, coronati di quei fuochi maluriosi e maledetti: nè solo o accompagnato s’era mai più fatto sino al muricciolo, che chiudeva il sagrato da quella parte. Anzi, se gli accadeva di dover discendere di castello pei suoi affari, pigliava un sentiero a ridosso del colle, per non sentirsi in viso neanco l’aria di quelle montagne; punto badando alla natura selvaggia di quel sentiero, che pareva fatto per menare i cristiani a rovina.
Ma a mezzo luglio, venute quelle nuove schiere d’Alemanni, aveva ricominciato a tornare in essere, come un lume che in sullo spegnersi venga riempiuto d’olio. Si mise di nuovo a pigliare i suoi pasti, a dormire un po’ più tranquillo; e quando potè farlo, dopo quindici dì d’apparecchi, si condusse in casa, a banchettare, gli officiali rimasti a campo nella sua pieve.
Donna Placidia, la quale aveva così in uggia la gente d’arme, che solo a vedere l’elsa d’una spada si segnava spaurita; s’era sfogata a brontolare tutti quei giorni; e la vigilia del banchetto, pianse. Perchè il fratello aveva tirato il collo a tanti capponi, che la stia era rimasta vuota; quella stia consapevole, dove nelle sue noie essa era certa di trovare un popolo devoto, al quale volgeva la parola eloquente, quanto quella del pievano, quando parla dal pergamo ai suoi parrocchiani. Ma da quella donna che penava poco a rassegnarsi, perdonò al fratello lo strazio fatto; e badò che il desinare riuscisse a modo. Essa in cucina, essa in cantina, essa a dar in tavola le vivande, facendo da scalco, faticò per sette: paga di non essere conosciuta per sorella del pievano; perchè (questo senso d’orgoglio l’aveva), l’essere in letto ammalata a morte, le sarebbe riuscito men duro che l’apparire agli occhi di tanti gentiluomini, in quel suo stato di fantesca. Di tanti affanni patiti durante il banchetto, si ricattò alfine, quando fu tempo di porre al fuoco la caffettiera; chè messo il naso sopra quell’arnese, l’animo suo si rifaceva sereno. Il fumo della preziosa bevanda, poteva su di lei, come la musica su certi animi iracondi; e per dire a modo qual gusto vi ebbe anco quel giorno, bisognerebbe averla veduta farsi oltre nella sala portando il bricco lucente, in cui specchiandosi la sua e le faccie rubiconde dei convitati, parevano, a misura che essa avanzava, fare una ridda.
Avevano mangiato gagliardamente, e bevuto da far raccapricciare le viti della pievania; e chiacchieravano de’ fatti loro fumando, annuvolando la sala, scoppiando in risa ai motti di qualche compagno che avrà canzonato l’ospite, perchè senza Tersite la compagnia non sarebbe stata intera. Ma quando videro il caffè, uscirono tutti in uno oh! lungo di maraviglia; e mentre donna Placidia deposto il bricco se ne tornava in cucina, compensata d’ogni sua noia; plaudirono don Apollinare che mescendo il caffè, procacciava ad essi, su quei monti, di così fatte delicature. Egli mescè, zuccherò, si prese per sè una chicchera; e rimenandovi dentro col cucchiarino, piantato sulle gambe, la persona un po’ curva, il viso sporto:
«Il caffè — sclamava — il caffè vuol essere bevuto dai signori, stando in piedi e mormorando...! — E levata la tazza ad una sorta di brindisi, cominciò a sorseggiare, movendo quelle sue pupille grigie, per forma che pareva un volpone sotto una cesta.
L’allegra brigata fu tutta in piedi. I mustacchi dei bevitori coprivano gli orli delle chicchere; e gli occhi scintillanti pei vini tracannati in gran copia, barattavano sguardi ed amiccamenti, per disopra a quelle. I corpi satolli, mandavano il fumo ai cervelli; chi ne diceva una, chi ne sbottava un’altra; e per farla finita, bevute in sul caffè parecchie altre bottiglie, uscirono fuori a prender aria.
Ad uno, a due, a quattro giù per la scala, uscivano dal presbiterio come fosse da un’osteria. Donna Placidia, di sull’uscio della cucina, contemplava quella strana processione, e al silenzio che regnava nella sua stia, le pareva che i suoi polli cantassero in corpo a quella gente contenta. La quale fu vista a gruppi scendere dal colle, col pievano in mezzo, tronfio, acceso in volto, e, si sarebbe detto, beato d’aver pasciuto quei messeri, che lo menavano a zonzo. Ammirati, salutati, invidiati dalla poveraglia, che andava in giro limosinando alle porte: come furono al piano pigliarono la via più amena, che era quella in sulla riva del torrente; e sempre dell’istesso andare, dissipando il fumo delle pipe e quello dei cervelli, s’allontanavano dal borgo, a seconda dell’acqua.
Gli è quanto dire che movevano verso quella banda, per dove Giuliano stava arrivando; e in verità non erano discosti gran tratto, che questi capitava di faccia ad essi, ad uno svolto della via, cavalcando di quell’andatura stanca, che la povera bestia dell’oste d’Alba poteva, dopo sì lungo cammino.
La brigata si cansò sulle prode della via angusta; ed il giovane, che oramai avendo il suo borgo dinanzi, ondeggiava tra il desiderio e la paura di saper alfine la verità su sua madre; passò in mezzo senza salutare, come non avesse veduto le splendide assise. Gli uffiziali stettero a badare più che a lui al cavallo; ma don Apollinare soffermatosi, colle mani appaiate sulle reni, la testa inclinata sulla spalla, mirò di sbieco; e col calcagno destro battendo il suolo, sicchè il ginocchio e il polpaccio agitavano le pieghe della talare, sclamava: «pecora, pecora! se io volessi ci saresti capitata!»
Alle parole strane, tutta la baraonda gli si fece intorno curiosa; ma il più vecchio e il più indorato di tutti quei soldati, se lo pigliò a braccetto, si mise a parlar basso con lui; e la comitiva tenne dietro ad essi, men gaia, meno ciarliera, quasi conscia dei discorsi che correvano tra il pievano e quel vecchio ufficiale, che n’era il capo.
Frattanto Giuliano aveva guadagnato il ponte, e sebbene s’imbattesse in gente nota che lo salutava; egli che in Alba avrebbe chiesto novelle di sua madre a un nemico giurato; adesso non si sarebbe rischiato per nulla a dimandarne ai suoi paesani, e tirando diritto infilò il vico. Alla vista dell’arco che metteva nel suo piazzale, per poco non si buttò di sella, per salutare le sue case, e star lì fuori, in attesa di qualcuno, che venisse non chiesto a dirgli la verità.
«Oh! — sclamò Tecla, che era ancora sotto il pergolato col crocchio di donne; e rimase, vedendo apparire Giuliano, colle braccia tese verso l’arco, tinta nel viso di quel roseo, che si vede improvviso diffondersi sulle guance a qualche giovane morente, e pare il principio di un’aurora più bella. Le donne non ebbero tempo di levarsi in piedi, e già le zampe del cavallo le avevano coperte di sabbia, e Giuliano balzato di sella chiedeva ansando:
«E mia madre?
«Santa Vergine! — gridava Marta rimescolata — capitate come i morti la notte dei Santi...
«Mia madre? Tornò a domandare Giuliano, e senza dar retta alla fante nè all’altre donne, gittate le briglie mosse verso l’atrio; rapido quanto lo fu il suo pensiero a ricorrere alla seconda sera di Pasqua, quando era giunto da C..., con altre cure, con altre speranze, e aveva trovato sua madre ad aspettarlo su quella gradinata. Ora non v’era che Marta. Ma se sua madre fosse stata davvero in fin di vita, o morta; la vecchia avrebbe potuto essere là a svagarsi, e Tecla con essa?
Questo pensiero non ebbe tempo di formarlo, chè la signora Maddalena comparve ad incontrarlo quasi più affannata di lui; ed egli col piede sul più basso gradino in atto di salire, essa sul più alto in atto di scendere, si abbracciarono come persone, campate da un naufragio, e incontratesi sulla riva.
La donne del crocchio peritandosi a star quivi, si allontanarono; durò il silenzio un tratto, poi la signora sciogliendosi da quell’abbracciamento, di cui Giuliano pareva non potersi saziare; «ecco tua madre!» gli disse, e pigliatolo per la mano, lo trasse dolcemente in sala. Là egli, sbalordito, e quasi la stanchezza lo avesse colto improvvisa, si lasciò cadere di sfascio sulla prima scranna che gli venne tra piedi; e fissando la madre, e cogli occhi pieni di dubbio, d’allegrezza, di sbigottimento ad un tempo:
«Oh, mamma, — sclamò — credeva di non fare a tempo...! Ma che tempo? non è vero nulla non è...? Mi dica, fu un gioco, un inganno... che fu?»
A che dissimulare? penso tra sè la signora mentre Giuliano diceva; a che mentire, per dovergli poi dire domani quello che già sa? aperse le braccia in atto di chi sta per dare un grande squasso al cuore altrui, e insieme offre tutto sè stesso per confortarlo; e rispose:
«Ebbene? Tu, io, il mondo che ci possiamo? Leggi.»
E frugandosi in seno, cavò un foglio, spiegazzato forse in un momento di fiero travaglio; e lo porse a Giuliano. Quel foglio era di don Marco, il quale aveva scritto poche parole, per dire alla signora che si rassegnasse, e che Bianca si sarebbe sposata di quella settimana. Giuliano lesse agrottando le ciglia più e più ad ogni verso; e poi quasi riavutosi dalla sua spossatezza:
«Si sposi! — urlò balzando in piedi, bello d’ira improvvisa; — si sposi pure, e fosse già sposata! Ma che feci io di male al mondo, perchè da ogni parte mi si debba tirare addosso come ad un malfattore? Ah! marchesa di G... fu un gioco, un brutto gioco il vostro, e Ranza... aveva indovinato...! A quest’ora sono in carcere tutti!
«Ma che è questo? — gridò sbigottita la signora che in quelle parole non ci capiva nulla.
«Mamma, m’hanno mandato qua facendomi credere che ella fosse morente! La marchesa di G.... m’ha ingannato!
«Ah capisco! Allora essa ti ha campato da qualche gran guaio! — interruppe la signora, balenando di gioia e di gratitudine alla gentildonna, e a don Marco, che a questa aveva scritto.
«Sì! — sclamò Giuliano — per farmi chiamare fuggiasco, vile, e peggio! Eppure sia benedetta!»
E qui, ricadde a sedere dinanzi a sua madre; e le narrava del viglietto avuto dalla marchesa, del viaggio fatto quasi senza sosta; parlando con certa calma, di cui egli stesso stupiva; non sapendo come l’anima sua si sarebbe ridestata al dolore, non appena dissipata quella sorta di pace, in cui per aver trovata viva la madre, si sentiva tirato. Narrò tristamente, e parlò sempre lui, quasi pauroso di lasciare, tacendo, il posto ad altri pensieri; finchè Marta fatto riporre il cavallo, venne dentro recando la lucerna accesa, perchè si faceva notte.
«Il cavallo — disse essa per non istar lì a fare le accoglienze al reduce peccatore; — il cavallo l’ho fatto legare in disparte, che quelli degli Alemanni non gli possano tirare...»
«Che Alemanni — saltò su a dire Giuliano col sangue a cavalloni; — dunque, nemmeno in casa mia, potrò stare senza costoro tra piedi?...
«Per carità! — disse Marta — che essi non avessero a sentire, sono lì sul piazzale....»
«Giuliano abbi pietà di me! — pregò la signora — ci han dato due uffiziali ad alloggiare; soffri in pace, e se ti volessero salutare, sii buono.
«Non voglio vederli, sono stanco, casco dalla fatica...!»
Così dicendo, Giuliano partì sdegnoso, e senza lume prese la scala che menava alla sua stanza.
Marta sollecita accese una lucerna a mano, e gli tenne dietro; la signora Maddalena rimase ritta un tantino in mezzo alla sala incerta se dovesse seguirlo, o star lì a far buon viso agli Alemanni, se venissero dentro. E siccome questo le parve il meglio, così accostatasi alla porta, si mise ad ascoltare, tremando che essi avessero intese le parole oltraggiose del figlio. I due, tornati mezzi avvinazzati dal banchetto del pievano, erano proprio sul piazzale, come Marta aveva detto; e davano ordini ai loro servitori, parlando imperiosi la loro favella. Essa in quei loro parlari non ci capiva nulla, ma spiegandoli a sè stessa alla sua maniera, già si figurava che davvero toccassero il suo figliuolo. Senonchè coloro, riveduti i loro cavalli, e detto ai servi quel che avevano a dire, se ne andarono di nuovo; forse a godere la serata, per tornare tardi pieni di vino e di gioia; gioia che in quella casa non doveva più brillare che su visi stranieri.
Appena se ne furono andati, e sul piazzale non s’udì più che il passo dei servitori, e il cigolare dei secchi, e della carrucola del pozzo; la signora si provò a salire di sopra. Ma si fermò, perchè Marta, lasciato il lume in camera a Giuliano, veniva giù tastoni e strisciando il piede per trovare i gradini.
«S’è buttato sul letto vestito e stivalato, com’era, e rimase addormentato morto.» Così la vecchia; e la signora:
«Oh dorma! dorma! e che non gli venga in mente nulla, nè C.... nè Torino...!» e salendo in punta di piedi andò ad ascoltare e a vedere da sè.
La stanchezza del corpo, aveva potuto più dello scompiglio dell’animo, e Giuliano dormiva sì fisso, che tutti i tuoni del cielo non sarebbero bastati a destarlo. Essa spinse l’uscio, entrò nella camera, appunto come aveva fatto la notte prima della sua partenza, e al chiarore della lucerna lasciata da Marta, stette a guardarlo. Giaceva supino; il petto gli si gonfiava a lunghi respiri; le guance attenuate dalla fatica erano pallide; le sopraciglia, i capelli, i panni aveva polverosi; pareva un guerriero che riposasse dopo la battaglia. Oh! se essa avesse potuto vedere il cuore di lui; se avesse potuto leggergli traverso la fronte i pensieri! Eppure meglio averlo lì sotto gli occhi, tribolato quanto si fosse, meglio lì che a Torino, nel carcere, da cui la Marchesa di G.... l’aveva forse campato.... Oh! la gentildonna pietosa, che sì che l’aveva trovato il modo di farlo partire!.... E la ringraziava dal fondo del cuore, e le pareva che oramai si sentiva forte da poterlo difendere contro ogni nemico; i birri, gli Alemanni, il pievano, chiunque volesse fargli male, gli avrebbe visti in viso! Rimasta un altro poco a guardarlo, baciò il guanciale su cui posava il capo, non osando baciar lui in viso; poi si tolse non sazia da quella vista.
Tornata in sala, trovò la fantesca gomitoni sul tavolino; e allora soltanto, vedendola sola, si rammentò di Tecla.
«O Tecla? — chiese essa, rimescolata per l’assenza della giovinetta.
«Tecla? — rispose Marta con certa voce che pareva chiedesse anch’essa — Tecla, questa volta ne sono certa, e non è più tempo che io taccia. Mi scaccerà se vorrà, tanto in questa casa non ci sono quasi più per nulla, ma voglio dire la verità. Ascolti, quando vedeva lei usare tanti bei garbi a Tecla, e avezzarla a leggere a scrivere, a parlar bene; ecco, diceva tra me, una signora che si apparecchia da sè il miele amaro! Ma dalla tema di farle male, mi teneva in gola tutto....
«Ma, o Marta, — sclamò la signora, battendo forte col piede il pavimento: — e che strazio è questo che volete fare di me?
«Tecla la strazierà; non io...! Tecla, Tecla... vuol bene al signorino!»
Fu come se nella sala non vi fosse rimasto più anima viva, dal tanto silenzio che vi si fece a quelle parole. La signora si abbandonò sul suo seggiolone, raccolse la fronte tra le mani, e non fiatò. Marta ritta, immobile, sbigottita, stava come se avesse, senza volerlo, ucciso qualcuno. E sentendosi rimordere forte d’avere dato quel tuffo alla padrona, afferrò il primo pensiero che le balenò alla mente; e senza stimare quanto valesse, fece come colui che lava la piaga colla prima acqua che gli viene alla mano, non badando se sia immonda da farla inciprignire. Chinandosi a lei, quasi a parlarle nell’orecchio sommessa, disse con ingenuità maravigliosa.
«Ebbene? Che guaio c’è? E dacchè quell’altra di C... si marita...: se il bene che Tecla gli vuole, servisse di sfogo a Giuliano.»
A queste parole, la signora Maddalena sollevò la fronte sdegnosa; ma d’uno sdegno sì alto, sì generoso, che alla vecchia parve di non avere visto mai nulla di più potente, a farle chinare gli occhi mortificati.
«E questo, — sclamò — questo, o Marta, è il più tristo pensiero che abbiate concepito dacchè siete al mondo; voi, che come io, avete un piè nella fossa!» E preso un partito, lasciando la fantesca a ingollare le parole che aveva detto, s’avviò sola, al buio, in casa di Rocco.
Là s’era rifugiata Tecla, sin dal primo apparire di Giuliano; senza che la padrona, o Marta avessero badato a lei. E chiusa in quella cameruccia, dove non aveva più posto piede da quella sera, in cui era salita a pigliarsi i panni, per andare a Torino alla ventura: pensava a Giuliano come ad una visione; pensava a Marta, che forse gli avrebbe detto, come essa fosse vissuta quei due mesi alla mensa della signora Maddalena; le veniva in mente quella fanciulla di C.... di cui aveva inteso parlare da don Marco; provava uno sgomento profondo della venuta del signorino, e insieme corruccio contro l’ingrata che non lo voleva più sposare. Oh! se la grazia di essere amata da esso, il cielo l’avesse fatta a lei! Qui arrossiva d’avere osato tanto pensiero; e in questa guisa, ora cadendo d’animo, ora levandosi, se ne stava rannicchiata là al buio; d’una cosa temendo su tutto, ed era che prima o poi la si venisse a cercare.
I suoi l’avevano veduta venir in casa così di furia che n’erano rimasti spauriti; ma già accostumati a menarle buona ogni cosa, dacchè pareva portata in palma di mano dalla padrona; non s’erano manco rischiati a chiederle che avesse. E tra quel fatto, e il ritorno improvviso del signorino, ondeggiando turbati; non osavano coricarsi, e stavano a quell’ora ancora in cucina.
Non è a dire se fu grande lo stupore di Rocco, quando vide apparire la signora Maddalena, sola, al buio; essa che dopo l’avemaria, non aveva posto piede fuori la soglia, forse da dieci anni. Temè che venisse a comandargli di pigliarsi in ispalla i bimbi, le masserizie, e Tecla e tutto, per andare in cerca d’altra casa e d’altri padroni; ma quando la udì domandare della sua figliuola con voce dolce, sebbene commossa, gli tornò il cuore a posto; e preso un lume la menò diritta nella cameruccia di Tecla.
Alla vista della padrona, la fanciulla aperse le braccia, quasi per dire: «sono qui, faccia di me quel che le pare!» E quella mandato via Rocco:
«O Tecla — le disse — tu mi vuoi bene nevvero? Dimmi una cosa; se io ti dicessi, bisogna che tu te ne vada per un po’ di tempo da qui... mi daresti retta...?
«Oh sì! — sclamò Tecla — anche subito... come piace a lei...!
«Io ti verrò a vedere qualche volta; ti farò condurre a Santa G.... in casa ai parenti di tua madre. V’è lassù una bella chiesa, sopra una vetta, tu vi andrai a pregare per me.... Non temere, di sulla porta di quella chiesa vedrai D.... e la mia casa e la tua.... addio.»
E prese le mani della povera giovinetta, le strinse con pietà grande; poi si tolse di quivi, perchè se vi fosse rimasta un altro poco, il singhiozzo l’avrebbe vinta.
Discesa a basso, raccomandò a Rocco di menare la figliuola in casa ai cognati ch’egli aveva a Santa G.... nè disse di più; che dallo sgomento le morivano le parole in bocca. Il buon uomo promise d’obbedire, senza chiedere il perchè, ma su per giù almanaccando, gli pareva d’averlo indovinato: e volle accompagnare la padrona quei pochi passi. Chi gli avesse visti a quell’ora, che era quasi di mezzanotte, forse avrebbe pensato che in quella casa fosse qualcuno all’ultime fiatate. Una quiete altissima regnava in quella parte del borgo, mentre in castello si vedevano molte finestre illuminate, e veniva di lassù un suono di strumenti; misto di quando in quando a un prorompere di voci allegre, proprio come nei festini del carnovale. La signora udiva e sospirava, pensando ai casi suoi dolorosi: e giunta sulla porta, pose la sua mano ardente nella fredda e callosa di Rocco; il quale avuta la buona notte, commosso da quell’atto, tornò a promettere, che all’alba sarebbe stato colla figliuola in cammino per Santa G.... Capiva che obbedendo pronto, faceva un gran bene alla signora, a Tecla, a sè; e quasi dallo struggimento il pover’uomo piangeva.
Tornata in casa, la signora Maddalena, si guardò bene dall’appiccar discorso con Marta; la quale aveva detto poco prima quelle brutte parole. E come dalla camera di Giuliano non si udiva nulla, disse alla vecchia che andasse pure a dormire, e v’andò anch’essa. Quella fu una notte, quasi peggiore dell’altra di tre mesi prima, che aveva preceduto la partenza del suo figliuolo; e la povera donna ebbe un bel rimettersi in Dio, ma non le riuscì di riposare. Manco male, che per la stagione, il mattino stette poco ad apparire, a guisa d’un visitatore sollecito, che viene e s’affaccia timidamente ad esplorare, se è tempo da giungere gradito. Allora i tamburi batterono la diana nel campo alemanno, rompendo la quiete soave della prima aurora; quella quiete che non vorrebbe essere turbata da niuno, prima che dagli uccelli dell’aria, ridestati al canto, all’amore, all’innocenza della loro libera vita. Quei tamburi accompagnavano l’andata di Tecla e di Rocco, su per la via che serpeggiando da D.... verso le alture dei monti, i quali dividono le due valli della Bormida, mena al villaggio di Santa G.... Salivano salivano, Rocco portando sulla spalla il fardelletto di Tecla, infilato in un bastone; e Tecla volgendosi addietro di tanto in tanto a guardare. A misura che la veduta del borgo si faceva più bassa, e le case impicciolivano allo sguardo, e il campanile del castello pareva assotigliarsi, Tecla si sentiva crescere il cuore, e credeva di elevarsi a regioni piene d’un’aura dolcissima di speranza.